Memorie tonaresi in pratza manna

giovedì 3 dicembre 2020

I MESSAGGI SEGRETI DELLA STELE DI SANTA NOSTA

 IPOTESI RISOLUTIVA























 

IL COMMENTO

 

Bordo superiore

Sulla testata della stele risultano le seguenti incisioni:

   I H S sulla sinistra e B S A E M C al centro. Le prime tre iniziali stanno ad indicare IESUS HOMINUM SALVATOR - GESU’ SALVATORE DEGLI UOMINI mentre le restanti starebbero per BEATAE SANCTAE ANASTASIAE ECCLESIA MARTYRIS CRISTHIANAE – CHIESA DELLA BEATA SANTA ANASTASIA, MARTIRE CRISTIANA. Delle incisioni del centro testata oggi non vi è più traccia. Per poter intervenire sulla decodificazione mi sono dovuto affidare alla lettura effettuata dal Bonu nel tempo in cui il religioso reggeva la parrocchia tonarese. Lo scioglimento delle abbreviazioni da me ipotizzato non preclude comunque, da parte di chicchessia, altre possibili soluzioni.

Fascia sinistra

   Procedendo dall’alto verso il basso leggiamo: MOR BALTASAR ME FECIT alias MAIOR BALTASAR ME FECIT ossia Il MAIOR DE VILLA MADASSARRE ORDINO’ IL DA FARSI (costruzione, ricostruzione o ristrutturazione)

Fascia destra

   Procedendo dall’alto verso il basso è possibile leggere, sino a metà della fascia, le seguenti lettere C-B-A-M-A, mentre dal punto medio in poi sembra di leggere il nome JUAN seguito in bella evidenza dalle lettere maiuscole P ed S. Le due mezze fasce sono separate da una chiara linea di confine. Per cercare di trovare una risposta plausibile al complicato rebus ho fatto ricorso al dizionario di epigrafia latina del Cappelli. In detto testo ho trovato una possibile chiave di lettura nella decodificazione della prima e delle ultime due lettere della fascia laterale destra. In definitiva C starebbe per CUM e PS per POSUIT. Per le lettere del gruppo BAMA ho pensato alle sillabe iniziali del nominativo di un artigiano vissuto a Tonara tra la fine del Cinquecento e i primi decenni del Seicento di nome Battista Manca. Un fabbro ferraio di origine genonese che avrà certamente goduto dell’amicizia di Baldassarre Virdis, il major de villa di cui abbiamo già parlato, e del legame di parentela col rettore parrocchiale Leonardo Manca, forse il fratello.

   Il nome Juan, definito dopo l’interruzione tra le due semi fasce, dovrebbe rappresentare la terza figura segnalata nel monolite. Il compito da lui eseguito sarebbe stato quello di incastonare la lapide nella facciata della chiesa.

   In conclusione, possiamo avanzare l’ipotesi che l’ordine di esecuzione dei lavori fu decretato da Baldassarre Virdis CUM Battista Manca e che la posa in opera della stele fu eseguita POSUIT da Giovanni Vattelapesca.

   Devo segnalare che la maggiore difficoltà nell’approccio al testo di questa seconda fascia deriva soprattutto dalla rigogliosa convivenza con la scrittura di certi fregi decorativi di tipo sacerdotale. Quasi un’invasione di campo.

Base

   Non leggo nulla di leggibile. Forse qualche martellata di troppo avrà contribuito a rendere i messaggi indecifrabili. Presumo che il lapicida si sia riservato lo spazio utile per segnalare la data che, stando ai suggerimenti della professoressa Schena, dovrebbe inquadrarsi tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento. La parentesi temporale dovrebbe essere compresa tra il 1593, presumibile anno di insediamento a Tonara del parroco Leonardo Manca, e il 14 agosto del 1611, data di decesso del mastro ferrer Battista Manca.

   Senza il contributo dell’Archivio storico diocesano di Oristano non si sarebbe potuti arrivare ad accettabili conclusioni. In particolare, vanno segnalati i registri compilati dai solerti sacerdoti tonaresi di quel periodo storico. Sarebbe bene che si provvedesse ad un opportuno restauro di detti Cinque Libri, oggi raccolti in un unico faldone.

   È dalle certificazioni di battesimo, di cresima, di matrimonio e di morte che si è potuto attingere il materiale necessario per rappresentare la comunità tonarese di quasi quattrocento cinquanta anni fa.


domenica 22 novembre 2020

   

Piccolino

   Piccolino è il nome del mio gatto. Per schedarlo nell’elenco degli animali ospitati nel tempo nella mia abitazione in Oristano ho impiegato pochi istanti. I dati anagrafici riguardanti la provenienza e la data di nascita sono ignoti come è ignota, almeno per me, la razza di appartenenza.

   Il casuale incontro tra me e la bestiola è avvenuto nel campo aperto che per confini ha tre strade, di cui due ad alto traffico automobilistico, ed una lunga recinzione che per un breve tratto va a interessare l’area adibita a giardino della mia abitazione. È in detto spazio, una superficie pari a circa due ettari, che quasi quotidianamente, eccezione fatta per i periodi in cui le erbacce navigano a qualche metro d’altezza, mi concedo qualche passeggiatina. Spesso, soprattutto nei periodi invernali, vi raccolgo qualche asparago, della cicoria e delle bietole selvatiche. Quasi ogni mese faccio anche la raccolta di tutti quegli articoli di spazzatura che passanti frettolosi, favoriti dalla copertura del folto canneto che, a partire dal marciapiede di una delle due strade principali citate, si sviluppa ad ampio raggio su buona parte dell’area libera, gettano, con noncuranza e menefreghismo, per terra. Effettuata la singolare raccolta con gli alari del mio caminetto e con un sacchetto biologico deposito il prodotto finito nell’area di competenza dei netturbini di servizio nel giorno successivo.

   In una calda mattinata del mese di luglio di due estati fa ho notato, in prossimità del canneto, l’insolito movimento di un piccolo animale che non chiedeva altro che di essere sfamato. Si trattava di un gattino che, con insistenza e nel rispetto delle dovute distanze, elemosinava assistenza. In lunghezza poteva misurare non più di quindici centimetri, coda compresa, ed in peso non superava i cento grammi. I giorni di vita potrebbero essere stati una quindicina, ma potrei essermi sbagliato per difetto o per eccesso di una settimana. Lo sguardo era vivo anche se la vista necessitava di un urgente lavaggio degli occhi e di altre cure particolari. Il latte e le crocchette che gli ho presentato su un piattino di plastica sono stati consumati con molta avidità ma non sono stati sufficienti ad assicurarlo dal punto di vista confidenziale. Avrà pensato: Meglio agire con prudenza nei confronti dei male intenzionati. E non appena avevo tentato di avvicinarmi per accarezzarlo era scappato via in un baleno.

   Nei giorni a seguire l’ho sempre rifocillato a dovere con le solite cibarie per gatti ma ogni mio tentativo di approccio è sempre risultato vano. Si indirizzava verso il canneto e di qui andava a guadagnare le sterpaglie di una vasca di raccolta dell’acqua di una antica noria.

  Agli appuntamenti con i pasti della giornata si presentava al solito posto sempre con largo anticipo salvo la volta che non si presentò affatto al punto di ristoro. Pensavo che avesse trovato sistemazione migliore altrove e ritornai a casa un po' contrariato. Il giorno dopo il gattino, posizionato sulla siepe della mia recinzione, quasi a metà strada tra il canneto e la porta che dà sul cortile osservava con molta curiosità ogni mio movimento. Con molta apprensione accettò di essere servito per la prima colazione ma subito dopo si lasciò accarezzare quasi gloriandosi per una difesa espressa ad oltranza per lungo tempo. Dopo la sua resa seguirono il suo ingresso in casa, la conoscenza con i miei familiari, le testimonianze d’affetto, le sue grandi dormite sui divani e sui letti, le sue grandi abbuffate, i suoi passatempi dedicati alla caccia di topolini, di lucertole e di gechi e le sue fughe nel campo aperto che sta oltre la recinzione. E col passare dei mesi cresceva di dimensioni e di peso in misura tale che detti requisiti potessero assolutamente nuocere alla sua agilità ed alle sue abilità predatorie. Le operazioni di peso avvenivano sempre in due momenti successivi: nella prima fase a salire sulla bilancia eravamo io e il gatto mentre nella seconda soltanto il sottoscritto. Al peso, da un anno a questa parte, ha sempre fatto registrare valori molto vicini ai tre chilogrammi e mezzo, traguardo quest’ultimo raggiunto a pieni voti nei giorni scorsi.

   Posso affermare che in questi ultimi 16 mesi mi ha testimoniato, con la sua presenza e con il suo comportamento, tanto affetto e tanta comprensione. Ai miei comandi fatti di vieni, esci, andiamo rispondeva sempre, eccezione fatta per i tempi dedicati alle sue mansioni predatorie, con prontezza. Di primo mattino non si faceva attendere più di tanto per il primo pasto della giornata. Era sufficiente che sollevassi la serranda che dà sul giardino o che facessi un fischio, per vederlo correre alle rituali consumazioni. Talvolta si assentava per uno o due giorni ma poi ritornava tranquillo al casolare.

   Giorni addietro ho trovato oltre la recinzione un topo di media grandezza con la stessa mozzata. Sarà stato naturalmente Piccolino ad aver avuto ragione dell’ospite indesiderato. Ieri il gatto, forse provato dalle continue lotte concorrenziali con altri felini, non ha mangiato ma ha dormito a lungo. Di pomeriggio si è appartato sotto l’albero di un susino per continuare la sua siesta. Al risveglio è venuto a farmi visita in cucina palesando dei dolori addominali. Stamattina era già morto. Ieri sul tardi, il veterinario, avendolo trovato molto disidratato, aveva espresso dei timori su una possibile guarigione. Oggi Piccolino riposa sul campo aperto, ma sottoterra, a qualche metro dal punto in cui era iniziata la sua storia. Un bel gatto in quanto a prestanza fisica, un buon gatto in quanto a disponibilità, un grande gatto. Per le esequie prometto di indirizzargli un fischio di saluto, ogni mattina presto. per l’arco di una settimana.

Giovanni Mura

   Oristano, 19 novembre 2020

 

lunedì 26 ottobre 2020

Stele di Santa Nosta

 

   



   Concordo pienamente con quanto asserisce la ricercatrice di Storia medievale Olivetta Schena sul periodo interessato alla posa in opera della lapide sulla facciata della chiesa in stile gotico di Santa Anastasia. Vedi pagine 65 e 66 del lavoro su Tonara di Camboni-Lallai del 1992.

   Per quanto riguarda la decifrazione del contenuto, espresso sulla sinistra della lapide, dissento solamente per:

a)      la definizione del trigramma IHS confuso con IBS

b)      il giusto titolo professionale MAIOR anziché Mastro

c)      il nome BALTASAR da preferire a BATTISTA SAU.

   Preciso, al riguardo dell’ultima osservazione, che dei 111 battezzati della fine del Cinquecento e dei 1072 del primo ventennio del Seicento (1600-1616) non viene mai segnalato il casato dei Sau. Detto cognome compare la prima volta nel 1601 nelle vesti della genitrice della neonata Catalina Pira. Il suo nome è Antonia. Vedi certificazione battesimale nel Volume Sesto delle mie Memorie storiche; lavoro depositato negli archivi della parrocchia e della biblioteca comunale di Tonara.

   Il contenuto espresso sulla fascia laterale sinistra, procedendo dall’alto verso il basso, risulta così definito:

IHS (IESUS HOMINUM SALVATOR

MOR (abbreviazione di MAJOR=MAJOR DE VILA)

BALTASAR (Baldassarre)

ME

FECIT

   Molto illuminante il “ME FECIT” indicato dalla Schena. É la chiesa di Santa Anastasia che, in prima persona, riferisce dell’incarico ricevuto dal major de vila Baldassarre a riedificare o ristrutturare il luogo di culto.

   Se il periodo coincide con quello indicato dalla ricercatrice, oggi professoressa associata, possiamo affermare che la persona segnalata sulla lapide ha per cognome Virdes, un don della fine del Cinquecento. Nella certificazione presentata al termine di questo servizio, il nostro Baltasar, testimone di nozze, è qualificato con il titolo onorifico di Donnu. Niente ci impedisce di pensare che il medesimo abbia rivestito la carica di sindaco del paese in altra data.

   Ancora qualche notazione per segnalare che sono ancora oscuri i messaggi riportati in alto, in basso e sulla fascia destra. Non sarebbe male poter disporre di qualche nuova fotografia del reperto  citato.

   Per quanto riguarda la data mi sembra di poter leggere in basso a destra l’anno 1577. Ma è tutto da verificare.

 

Nozze Devila-Craba

25 febbraio 1580

   Andria Devila y Antona Craba son estados exposados per mi Ant(oni)o Pisano prevera y curat de dita v(il)a de Tonara @ 25 del mes de febrer en la iglesia parochial de Santa Anastasia,

fetas las solitas admonisions conforme la horde del Sacro Consili Tridentino y

aiuntada la major part del poble de dita vila y

creduts per testimonis donu Ant(oni)o Virdes y donu Baltasaro Virdes y m(astr)o Fran(cis)co Todde y m(astr)o Petru Pau Dearca y mossen Pera Dearca prevera de dita vila.

Ant. 


Servizio curato da Giovanni Mura il 25 ottobre 2020.

martedì 6 ottobre 2020

S’Abre Maria

 

S’Abre Maria



L’Ave Maria
(in dialetto tonarese)

 

 

…Abre (1) Maria prena de gratzia,

su Segnore est cun tegus (2),

benedita ses tue inte totu (3) is feminas

e beneditu est su fruttu de is intragnas tuas Gè.

Santa Maria, mamma ‘e Deu,

prega po nosateros peccadores

como e a s’ora de sa morte nosta (4)

Amen in Gè.(5) (6)

Note:

1)      Nelle forme verbali e nell’uso di diversi sostantivi, nel dialetto sardo la consonante b si sostituisce spesso alla lettera b. In passato questo ricorso era molto più frequente. Anche il saluto a Maria, ha subito la variante in discussione, ma ad evitare l’accostamento con l’ape, insetto che in sardo vale abe, si è preferito coniare il termine abre.

2)      Cun tegus è una espressione che oggi a Tonara non si usa più. Si preferisce, accostando alla preposizione semplice il pronome personale soggetto, la forma cun tue. La stessa variante avviene con cun megus che nel Mandrolisai, regione di cui fa parte Tonara, diventa cun eo ma anche cun deo. É una sgrammaticatura di grosso peso in questo dialetto dell’alta Barbagia. Ma tant’è! É come se in italiano ci servissimo dei seguenti complementi di compagnia con tu e con io o se in latino leggessimo cum tu e cum ego.

3)      Tutto in tonarese è un aggettivo indefinito invariabile. Tutto il mattino, tutta la notte, tutti gli uomini e tutte le donne diventano totu su mignanu, totu sa notte, totu is omines e totu is feminas. Invariabile anche come pronome. Ho pensato a tutti e a tutte: happo pentzau a totus. Nella forma avverbiale diventa totu. Ho pensato a tutto: happo pentzau a totu.

4)      Nella versione cantata diventa comeasora

5)      Nella versione cantata diventa Amenignè

6)      Sento il dovere di ringraziare Giovanna Carboni e Renzo Liori per i contributi offertimi.

giovedì 1 ottobre 2020

Tonara 1762 Incomplete le decifrazioni della stele di Funtana ‘e Morù

 

Foto curata da Bastiano Loche Tore

…Incompleto l’esame delle iscrizioni riportate sulla stele di Morù. Sono passati più di 250 anni da quando il lapicida operò le sue incisioni sulla lastra affissa su una parete della fontana rionale ed ancora non si è riusciti a far chiarezza sul tutto. Il contenuto, definito in appena sei righe, è così interpretato e rappresentato dal Bonu, parroco a Tonara dal 1922 al 1932, in un grafico tabellare che riportiamo qui di seguito ed in fotocopia a fine servizio:

   prima riga                H   C                 OPUS

  seconda riga:         FA.M                   AN.o                                                                                                       1762

   terza riga:               R.R   MASIDA

   quarta riga:           (Si rimanda ai segni grafici definiti dal Bonu)

   quinta riga:        GARAU               CO

    sesta riga:          FR.co       Y        DIEGO

    Questo il breve commento del Bonu in coda alla tabella:

   Iscrizione esistente ancora nella Fontana di Murù (rione di Toneri) e riportante il nome del parroco Giuseppe Massidda e l’anno di costruzione 1762.   Ha le dimensioni di m. 0,32 x 0,37 circa.

   Le nostre osservazioni non vanno molto più in là degli studi condotti dal Bonu, eccezione fatta per lo scioglimento delle abbreviazioni segnalate nella prime due righe dove H C sta per H(O)C e FA.M per FA(CTU)M.

   La frase latina HOC OPUS FACTUM ANNO 1762 assumerebbe quindi il seguente significato: Questo lavoro è stato eseguito nell’anno 1762.

   Il tondo definito tra i punti medi delle prime due righe rimanda inequivocabilmente al noto cristogramma di San Bernardino IHS, acronimo di IESUS HOMINUM SALVATOR.

   D’accordo con il Bonu per la decifrazione della riga, la terza, che evidenzia chiaramente il cognome del parroco Giuseppe Massidda, R(ecto)r Masida, sacerdote originario del comune di Seneghe (1). Questa espressione definita al nominativo può sembrare di senso compiuto come lo è il trigramma definito in alto alla stele ma può fungere da soggetto per il prosieguo delle righe successive.

   É di difficile comprensione il contenuto della quarta riga dove i segni e le lettere, espressi con numeri complessi, facenti riferimento a scansioni temporali o a misure finanziare o agrarie, sembrano richiamare una data, un importo o qualcos’altro.

   Le ultime due righe, secondo l’interpretazione del Bonu, fanno riferimento ad un cognome (Garau), seguito da un segno a forma di ellisse schiacciata e dalla abbreviazione CO, e a due nomi (Francesco e Diego), forse i finanziatori dell’opera.

   A nostro avviso riteniamo che Diego non faccia parte del testo in quanto il contenuto epigrafico della stele è interamente vergato in latino. Se il lapicida avesse voluto riportare tale nome si sarebbe servito della variante Didaco, sia per il dativo che per l’ablativo.

   Stesso discorso vale anche per la congiunzione spagnola Y. Presumo quindi che l’ultima riga faccia riferimento ad una sola persona dal doppio nome Franciscus Ignatius?, (Francisco Ignatio, nell’accezione valida per i casi al dativo e all’ablativo). Ciò che ci conforta è che nel registro dei cresimati del 1743 rileviamo a Toneri il nominativo di una persona chiamata Garau Francesco Ignazio. É il genitore di Paola e Caterina, due bambine confermate in tale anno dall’arcivescovo Vincenzo Vico.

   Per la soluzione dell’enigma proposto nel presente servizio si accetta, anche attraverso i social, il contributo di chicchessia.

   Una curiosità sul nome della fontana del rione di Toneri. É giusto dire Morù o Murù?


Note:

1)       Il parroco Massidda, nelle veci di padrino di Salvatore Angelo Mura, figlio di Pietro e di Tomasa Deiana, è così segnalato nel registro dei confermati del 1743: Padrino el Reverendo Rector de Tonara Joseph Massidda natural de Senegui.

Di detto sacerdote, rettore della parrocchia tonarese dal 1742 al 1769, si hanno pochi riferimenti storici. Stando alle ricerche eseguite sui libri parrocchiali tonaresi depositati presso l’archivio storico diocesano di Oristano rileviamo poche segnalazioni. Assenti le sue notazioni nel registro dei morti e poco frequenti quelle relative alle celebrazioni matrimoniali. Ha unito in matrimonio nel tempo decorrente dal 12 giugno del 1757 al 25 novembre del 1765 appena quattro coppie di sposi. Riportiamo per intero il contratto stipulato da Pietro Corriga e Rosa Garau e firmato dal Massidda:

Anno 1765

Nozze Corriga-Garau

   En los veinte, y sinco de 9mbre de mil sietesientos sessanta, y sinco yo infrascripto haviendo tomado el consentimiento de los contrahentes, y hechas las admonestaciones canonicas en los dias 22, y 29 de 7mbre, y en 6 de Octubre al Offertorio de la Missa cantada, no haviendo resultado impedimento en contrario, ni de cohabitacion, siendo del mesmo lugar, no haviendo morado fuera, teniendo la edad de contraher, y sabiendo la doctrina cristiana, assistì al matrimonio, que por palabras de presente contraxeron con licenzia dell’Illustre Señor Pro Vicario General su data en Oristan en 13 de 7mbre del presente año el Notario Pedro Admirable Corriga, y Rosa Garao solteros de la presente villa , y el mismo dia recibieron las benediciones Nupciales in facie Ecclesiae siendo presentes por testigos Juan Angel Garao, y Antiogo Orrù

in quorum fidem

R(ecto)r Joseph Massidda

   


Servizio curato da Giovanni Mura il 2 di ottobre del 2020.

giovedì 10 settembre 2020

Morù

   Per chi scendeva, sessanta anni addietro, lungo gli scoscesi gradoni che da Pratza manna, cuore antico e rappresentativo del rione di Toneri, portavano e portano ancora alla piazzetta di Senti Cocco (alias Vincenzo Cocco), aveva l’opportunità, soffermandosi al limite di detto spiazzo, di inquadrare Morù, l’ultima delle contrade non solo del vicinato ma anche dell’abitato di Tonara.

   Doveroso precisare che detto centro barbaricino risultava diviso in tre distinte frazioni ben distribuite sui fianchi della montagna (Arasulè, Toneri e Teliseri), ognuna delle quali comprendeva diverse contrade.

   Oggi esiste anche una quarta frazione che, sugli sviluppi dei primi insediamenti del secolo scorso, ha acquisito nel tempo una connotazione urbana di notevole spessore. Detto rione, denominato Su Pranu, è decisamente fuori tema rispetto agli altri contesti abitativi sia dal punto di vista edilizio, che da quello paesaggistico e storico. Pur restando un satellite di posizione ancorato sulla terraferma vive sempre della luce riflessa dei suoi vecchi abitatori.

   I materiali che hanno concorso alla edificazione dei nuovi quartieri sono tutti di importazione. Alla calce, ai mattoni, al pietrame, alle tegole ed al legname per i tavolati e le capriate, una volta prodotti in loco, si sono preferiti il calcestruzzo, il ferro, i laterizi, le piastrelle ed i portoncini di marche nazionali.

   Dal punto di vista paesaggistico, il livellamento del terreno difficilmente può garantire al turista di passaggio le profondità tipiche degli scenari collinari o lo sviluppo acrobatico dei punti di fuga presenti negli altri rioni.

   Dal punto di vista storico nulla si può dire di una borgata cresciuta frettolosamente nell’arco degli ultimi cinquanta anni.

   L’area che avrebbe dovuto ospitare questa nuova zona residenziale, fu definita dal Lawrence, durante la sua breve visita del 1921, l’altopiano illuminato d’oro. (1)

   L’impressione che lo spettatore riceveva dall’ultimo avamposto della contrada di Senti Cocco era quella di un presepe vivente incastonato sulla roccia in prossimità dell’avvallamento della rupe di Su Toni.

   Oggi questa visuale è impedita da una costruzione sorta negli ultimi decenni che ostacola di parecchio le migliori letture di Morù.

   Vi è comunque un’altra possibilità per il turista di passaggio di cogliere buone immagini dell’insieme ma le prospettive offerte sembrano, per effetto della distanza, concedere poco alle sfumature, ai dettagli ed alle tonalità cromatiche. Per soddisfare questa esigenza bisognerebbe portarsi verso la zona dei ruderi di Santa Anastasia ma, ripeto, molti presupposti di lettura verrebbero vanificati.

   In ogni modo il quadro proposto dall’avamposto di piazzetta Senti Cocco presentava, a partire da destra verso sinistra, nello spazio di circa centocinquanta passi:

·         un primo gruppo di abitazioni quasi incollate alla parete calcarea della montagna con il fronte occupato da piccole strisce di terra che, adibite alle provviste di legna ed ad altri usi domestici, andavano a radere la strada con delle siepi di confine curate alla bell’e meglio

·         due agglomerati di piccole case con i muri divisori in comune e con i tetti spioventi su un solo versante ben distribuiti ad anello che assicuravano la disposizione di una prima fila lungo la strada principale e di una seconda sul fronte di una lunga teoria di costruzioni incassate sulla roccia

·         una serie di viottoli che dalla strada andavano a raggiungere tutte le singole abitazioni componendosi e scomponendosi nei vari acciottolati della contrada.

   Al disotto della via principale, degli appezzamenti di buona terra andavano a guadagnare un avallamento del terreno denominato Su Acu che al tempo delle piogge riceveva dall’alto le acque di Cracalasi per poi inseguire più in basso gli apporti idrici della sorgente di Morù.

   Al disopra dei tetti delle abitazioni, il fumo dei comignoli non impediva di inquadrare la folta e fitta vegetazione che per larghi spazi sembrava proteggere, oltre che abbellire, l’abitato dalle insidie della lunga parete.

   Quindi, nella successione dal basso verso l’alto, la piazzetta ci consentiva di osservare alcuni fazzoletti di terreno di poche are d’estensione, la strada principale, le casette di prima e seconda fila, i viottoli a forma di scalinata, i tetti delle abitazioni con i comignoli sempre in attività e la folta vegetazione con i ciuffi sbuffanti verso gli anfratti e le spigolosità di un tacco roccioso che nella sua severità ed imponenza poteva permettersi il lusso di sorreggere l’altopiano illuminato d’oro.

   Per chi invece sostava in prossimità del punto medio della via maestra di Morù (105 anime distribuite in 30 famiglie nel censimento del 1829 con prevalenza dei cognomi Toccori e Loche), ad una cinquantina di metri circa dall’avamposto citato, poteva inquadrare di fronte, con lo sguardo rivolto ad oriente, buona parte del vicinato di Toneri (718 anime, 192 famiglie; con prevalenza degli Zucca, Sulis e Cocco).

   In particolare, partendo da sinistra verso destra si poteva focalizzare l’attenzione sulle contrade di:

  • Cracalasi-Catzolaghedu (le anime censite nel citato anno sono 135, le famiglie 35 mentre i cognomi più rappresentativi dal punto di vista numerico sono quelli degli Zucca e dei Garau),
  •  Cortzò (10 anime e 4 famiglie con maggiore rappresentanza degli Zucca e dei Mameli),
  • Barigau (77 anime e 19 famiglie con maggioranza dei Loche e dei Sulis),
  •  Pratza Senti Cocco (26 anime e 6 famiglie; Mura ed Urru)
  •  Cartutzè (37 anime e 12 famiglie; Urru e Poddie).

   Nascoste nella parte alta della frazione si succedevano le contrade di

  • Pratza de is Garaus (89 anime e 23 famiglie; Dearca e Carboni),
  •  Pratza manna (56 anime e 15 famiglie; Floris e Porru),
  •  Maria Abrà de susu (104 anime e 25 famiglie; Cocco e Sulis)

   e nella parte bassa quelle di

  • Maria Abrà de osso (35 anime e 11 famiglie; Pruneddu e Todde) e di
  • Pratza de is Zuccas (44 anime e 12 famiglie; Zucca ed Urru). (2)

   Il tutto sembrava una borgata in caduta libera verso la minuscola piazza di Senti Cocco e le rovine di Santa Anastasia.

   Cima Fais, il punto in cui sorge il sole, era occultata dalle contrade superiori di Toneri. Alla destra, al disotto delle ultime case di Cartutzè, era ben visibile il rudere della vecchia parrocchiale di Santa Anastasia. In alto alla chiesa sconsacrata il crinale dei monti chiudeva questo magico scenario fatto di casette di fango e di  tetti d’argilla in continua rincorsa verso il fondovalle.

   Questo era il lato paesaggistico offerto nel passato dalla contrada in questione. Per ciò che riguardava il lato umano devo mettere in discussione la fontana a più bocche di Morù.

   Specie d’estate, durante le vacanze estive, era un punto di ritrovo di notevole richiamo per bambini, giovani ed anziani.

   Quante spanciate d’acqua, ad onor del vero non tanto buona, mi sono concesso da giovanissimo presso quella fonte. Né badavo e né avevo il tempo di badare alle dicerie che quell’acqua facesse diventare matti o che producesse il gozzo. Era così notevole la portata di quelle sorgenti che ti saziavi in pochi attimi.

   Più lunga l’attesa per i conduttori di asini e cavalli i quali dovevano pazientare a lungo prima che gli animali trovassero il momento adatto per soddisfare la loro sete. Talvolta bastava un nonnulla, un movimento involontario da parte di chicchessia o il più semplice dei brusii, che i quadrupedi abbandonassero la vasca di decantazione e riprendessero la loro strada.

   Di donne, inginocchiate su ristretti spazi fatti di pietre levigate e di rivoli copiosi, intente a mettere in ammollo, sciacquare e strizzare i panni del loro bucato, ne vedevi sempre un numero discreto. Le portatrici d’acqua costituivano spesso delle brevi processioni che si ripetevano in continuazione per l’intero arco della giornata lungo le varie vie del vicinato.

    Sembra di sentirle quando facevano richiesta di un aiuto alle comari di turno per il giusto posizionamento del cercine tra la brocca ed il capo. Stesso discorso valeva per livellare il mastello del bucato sulla cervice. Aggiudaiemi omare a m’assentare sa brocca in pitzu ‘e su tedile oppure a m’assentare s’ischiu.

   Non mancavano di onorare i servizi alla fonte gli ortolani che quotidianamente prestavano il loro servizio nei piccoli appezzamenti a ridosso delle aree di Itzì o di Nugepasca né rinunciavano alla sosta rinfrescante quanti risalivano assetati dai noccioleti di Erisia o da quelli del fondovalle. In un lungo elenco di proprietà terriere inserito in un dispaccio inviato da Domenico Martini, viceparroco di Tonara per molti decenni dell’Ottocento, ad Antonio Tore, vescovo di Ales, sono segnalati gli orti e gli ortolani della Toneri del 1829. Is ortos de Funtana sono trentasei. (3)

   Tutto questo si sviluppava intorno alla fonte di Morù.

   Annare a Funtana era l’espressione tipica di chi intendeva raggiungere detta sorgente. Era sufficiente fare cenno al solo appellativo per riconoscere il sito in questione. Nei discorsi tra madre e figlio valevano al riguardo le seguenti espressioni che, nella impostazione grammaticale, ricordano molto da vicino la costruzione inglese:

   (Madre) Eninno sese? (venendo stai?)

   (Figlio) Aue ses’annanno? (Dove si deve andare?)

   (Madre) A Funtana. Alla fonte.

   (Figlio) Seo eninno (Sto venendo).

   Nonostante detta fonte costituisse il perno più importante e determinante delle correnti di traffico dell’intero vicinato di Toneri, non bisogna sminuire la vitalità espressa dalla contrada di Morù all’interno dei propri quartieri. Sessanta anni addietro era proprio un presepio vivente fatto di personaggi intenti a cucire e ricucire i loro propositi quotidiani mentre la strada principale sembrava scandire il tempo a quanti andavano o rientravano dalla fonte, dagli orti, dalla campagna o dagli altri vicinati. E c’era spazio anche per gli anziani che a fatica ed a passo lento, per via degli acciacchi, tiravano a campare sperando in un domani migliore.

   In un fermo immagine del 1955 il fotografo è riuscito a rappresentare un aspetto paesaggistico della Morù di ieri. In particolare i dettagli inquadrano un tratto della via principale, l’unica fontanella pubblica, una scalinata che si impenna verso l’alto e quattro o cinque casette con gli architravi e gli stipiti delle aperture tinteggiati di color bianco sporco e con i tetti a spiovere da un solo versante. Lungo strada, tra il fontanile e la scalinata, una ragazza in costume incita con una piccola frusta un asinello a procedere più spedito. Sulla groppa dell’animale, due sacchetti semipieni di mercanzia lasciano intravedere le estremità inferiori della sella. Al disopra dei tetti una fitta vegetazione cresciuta a fil di parete sullo strapiombo di Su Toni sembra fungere da bambagia al quadro pittorico del passato. Chiudono lo scenario le ombre a perpendicolo generate dai corpi inanimati e da quelli in movimento.

   Deve trattarsi di un’istantanea curata a fine mattinata durante il periodo estivo. Impossibile accreditare la ripresa fotografica ad orari serali in quanto il sole di pomeriggio, nell’atto di congedarsi da dietro la rupe, genera ombre sempre più estese verso oriente. Non dimentichiamo che l’esposizione della contrada è molto infelice. Le abitazioni che guardano a mezzogiorno sono in numero ridotto.

   Case di fango curate con molta fatica e con molto sudore. Pavimenti in terra battuta al piano terreno e tavolati per il piano superiore. Sino ad una quarantina di anni fa un patrimonio edilizio ancora integro, incontaminato, fatto di facciate di antica malta, di balconi in ferro battuto, di tetti in tegole caserecce e di comignoli sempre in attività.

   A Morù sono stato di passaggio tante volte, soprattutto d’estate. Questo accadeva quando dovevo raggiungere un orticello di poche are di superficie o fare visita a terreni lontani.

   Raramente avevo la possibilità di aggirarmi all’interno della contrada. Mi capitava talvolta, intorno agli anni cinquanta, di seguire la radiocronaca delle partite di calcio in casa di Francesco Carboni, allora mugnaio di professione, uno dei pochi abbonati alla radio. Ancora prima, ai tempi del grande Torino, i servizi radiofonici venivano seguiti da dietro le grate della finestra della caserma di Via Monsignor Tore. Il più delle volte ci dovevamo accontentare di commentare i risultati all’indomani degli avvenimenti sportivi.

   La sua abitazione era una delle poche costruzioni esposte a mezzogiorno e come tale godeva dei benefici elioterapici per l’intera giornata. Tanto negli esterni quanto negli interni ricalcava il disegno delle economie delle altre dimore della contrada. Una piccola scala conduceva al piano superiore dove i genitori, entrambi nati alla fine dell’ottocento, accoglievano gli ospiti, con molto garbo. Ricordo che il padrone di casa si lamentava spesso dei postumi da congelamento subiti sul fronte carsico. Il toccasana era dato da ampie fasciature che la moglie amorevolmente gli avvolgeva attorno alle estremità inferiori.

   A fine partita avevo l’opportunità di traguardare la via principale inseguendo altri viottoli, altri acciottolati, altri percorsi dove le giocatrici di carte, ben distribuite in numero di tre o quattro attorno a dei grandi canestri, all’imboccatura dei vari usci, formavano diverse formazioni.

   Dappertutto bambini, giovani ed anziani. Gli animali erano rappresentati in maggior parte dalle galline. Vivacità nei primi, spensieratezza nei secondi, saggezza nei terzi e stupidità e goffaggine nei rari voli radenti dei pesanti pennuti.

   Che poesia ripercorrere mentalmente le strade di una volta. La modernità ed il progresso hanno imposto altri materiali, altri movimenti architettonici, altre pennellate. Peccato! Resta comunque la magia espressa dall’antico borgo incassato ai piedi della montagna in custodia di pochi abitatori e per giunta molto anziani.

   Da qualche semestre è venuto a mancare anche Francesco. Dalla sua contrada era partito in cerca di migliori fortune intorno agli anni sessanta per farvi ritorno da anziano. Negli anni in cui il Cagliari militava in serie C parteggiava per i colori del Milan. Non so se nel tempo abbia cambiato idea. Quando lavorava di mazzetta e scalpello sui palmenti del mulino di Sa Discarriga non trovava di meglio che canticchiare infinite volte la formazione rossonera (Buffon, Sivestri, Bonomi…). Io facevo tifo per la Juventus. Ancor prima ero stato di fede torinese, del grande Torino.

   La sua casa oggi è vuota come lo è la maggior parte delle altre abitazioni della contrada.

   Quando ripasso da queste parti, nel vedere case sventrate, tetti pericolanti, ballatoi in stato di precarietà, pergole con le impalcature traballanti, percorsi accidentati, incuria ed abbandono un po’ dappertutto, avverto quasi la colpa di non aver mai tentato di porre alcun rimedio. Purtroppo la mia diagnosi arriva con molto ritardo. Non ho con me medicine da pronto soccorso né per lunghe degenze. E’ un discorso in perdita il mio. Non porta da nessuna parte. Per giunta sono anziano anch’io.

   Una settantina di metri più in alto, al disopra di una verticale su cui inerpicarsi è sempre stato proibitivo, c’è l’altopiano d’oro. Per arrivarci bisogna aggirare l’ostacolo puntando a sinistra verso un inghiottitoio molto tortuoso e ripido denominato Titoni oppure risalendo sulla destra i percorsi accidentati e scoscesi di Craccalasi e Catzolaghedu.

   A Su Pranu i tonaresi commerciano campanacci, torrone ed altri prodotti. Commercerebbero anche il tempo se fosse possibile, contrariamente a quanto succede a Morù dove questo ultimo articolo resta avvitato allo zero assoluto da molti decenni.

   I pochi abitatori, come ho già precisato, viaggiano intorno ad età proibitive. I giovani, oggi in età matura, curano i loro interessi in terre lontane. Non so se qualcuno faccia rientro per le ferie alla piccola borgata. Molto probabilmente ripiegherà in qualche alloggio dell’altopiano illuminato d’oro.

   Quando da giovanissimo percorrevo questi isolati la vita si perpetuava in mille attenzioni ed in altrettante direzioni. Non immaginavo che la contrada coll’andar del tempo ne avrebbe sofferto tantissimo.

   Ciononostante il vero monile di questo percorso ad anello, che nella parte superiore ci presenta il rione commerciale, è Morù. E’ un gioiello splendente di propria luce cadenzata secondo geometrie di grande peso, non di luce riflessa. Vincente nelle sue prospettive e nei suoi punti di fuga, maestoso nella immobilità dei suoi saliscendi e delle sue calli che invitano a cento ingressi ed ineguagliabile ed incomparabile nel suo guscio caratteristico ostentato ai piedi della montagna. L’unico segno di movimento è dato dall’acqua delle sue sorgenti. E non è cosa da poco. Finché c’è acqua c’è vita.

   Oggi Morù è un museo a cielo aperto.

   Rimane viva la storia della contrada nella memoria degli anziani e soprattutto in quella raccontata dagli archivi ecclesiastici e notarili. Una storia fatta di piccole cose, di pochi segreti e di tante testimonianze che nella loro semplicità sorprendono anche i lettori d’immagine più esigenti e più scrupolosi.

   Note

1)      Vedi Mare e Sardegna di D. H. Lawrence.

2)      Vedi Status animarum 1829 di Tonara nel Fondo Quinque libri dell’Archivio diocesano di Oristano. Per maggiori approfondimenti si rinvia il lettore al fascicolo primo del volume quinto della collana Memorie tonaresi.

3)      Vedi le dovute segnalazioni in Archivio diocesano di Ales alla voce Monsignor Tore. Per migliori ragguagli si rimanda alle pagg.180 e seguenti del vol.1° della collana Memorie tonaresi.




26.10.2019



Visita nei Balcani



Il programma di viaggio che, in quest'ultima settimana di maggio del 2019, mi vede impegnato nei Balcani prevede in maggioranza percorsi di tipo naturalistico, archeologico e religioso.

Le grandi città, fatta eccezione per Tirana, non fanno parte dell'itinerario. Paesaggi montani, collinari, lacustri e marini si alterneranno in continuazione nei grandi spazi sino a concedersi amorevolmente ai silenzi dei piccoli borghi e delle loro comunità. Sono tutti questi gli ingredienti più appetitosi di quanto viene proposto dalle agenzie di viaggio. 

Un equivalente progetto, non comprendente il passaggio nei grossi centri, potrebbe trovare facile attuazione in Sardegna dove i paesaggi si miscelano elegantemente con gli scenari sonnacchiosi ed arrendevoli dei piccoli borghi. L'Albania rappresenta in questa mia visita il punto di riferimento più importante mentre la Macedonia e la Grecia vanno ad assumere posizioni di secondo piano.

Le emozioni non tarderanno a presentarsi e, come spesso capita, mi accompagneranno, con maggiore o minore intensità, lungo le tappe di questo insolito ed atipico viaggio.

Come l'aeromobile del volo Roma-Tirana smette di rullare ed accenna a spegnere i motori, i viaggiatori, quasi catapultati dai loro seggiolini, scattano all'unisono all'impiedi per cercare di guadagnare una via d'uscita attraverso spazi di corridoio completamente intasati. Resteranno nella posizione di attenti per tempi superiori ai cinque minuti. E' questo, a seguito dell'atterraggio, il comportamento tenuto in ogni aeroporto del pianeta dai viaggiatori. Ai passeggeri che mi stanno di fianco e mi invitano ad alzarmi rispondo sempre garbatamente di pazientare ancora qualche istante. Arrivato il momento giusto per pormi in posizione verticale controllo che i documenti e gli effetti personali siano ben distribuiti nelle diverse tasche dello smanicato e procedo verso l'uscita.

Il breve percorso che mi consegna all'ingresso della piccola aerostazione della capitale mi regala la prima emozione. A suscitare la mia più viva curiosità è il passaggio spedito ed elegante di quattro hostess che, in direzione opposta alla mia ed in perfetto allineamento, procedono verso chissà quale destinazione. Le loro divise sanno di colori giallo-arancione per la casacca e la gonna e scuri per le scarpe a mezzi tacchi. Molto grazioso il cappellino dalla caratteristica conformazione a mezzo uovo e dalle tinte bianco crema. Le vedo di spalle e le inseguo con lo sguardo fino a scomparire all'esterno di una postazione di servizio. Riferisco ad altri del gruppo di cui faccio parte di questa prima istantanea di viaggio ma non riesco a suscitare in nessuno alcun interesse. E' difficile per me spiegarmi a parole. Mi auguro comunque che qualche lettore condivida questo mio innocente messaggio.

La guida che ci terrà compagnia per tutto il viaggio, un albanese della città di Berat, è pronta ad indirizzarci verso il pullman che ci condurrà a Kruja, un centro montano dell'entroterra. L'arrivo nella ridente cittadina è previsto per l'ora di pranzo. Nel pomeriggio avremo modo di far visita al centro storico, al museo ed al castello.

Se girando per il mondo ti capita di incontrare per strada dei giapponesi o cinesi significa che il centro che stai visitando gode di un elevato indice turistico. Il mio paese, pur avendo i requisiti per consegnarsi alla notorietà, non riesce ancora a decollare. Si sta facendo di tutto per attirare l'attenzione degli occhi a mandorla ma il passaparola dei residenti non produce gli effetti sperati.

Qui a Kruja i turisti dell'est asiatico sembrano di casa. Ne vedi un po' dappertutto e, contrariamente a quel che ciascuno di noi pensa, socializzano con molta disponibilità. Ma quanto si divertono le due coppie cinesi a fotografare ed a farsi fotografare nella piattaforma definita sulla sommità del castello in alto alla montagna. Destano persino l'ilarità di quanti siedono nel semicerchio che dà sulla parete edificata a meridione della fortezza, come a teatro dove gli attori stanno sul palcoscenico e gli spettatori di fronte a loro. 

Lungo il tracciato che interessa una delle principali arterie del centro storico, un passaggio obbligato ai soli pedoni, i negozi di souvenir, di articoli di artigianato e di produzione locale si succedono l'uno accanto all'altro destando la curiosità non solo dei turisti dell'estremo oriente ma anche di quelli del continente europeo. Attenzione a dove mettere piedi, avverte la guida. La rruga, così è definita la via in albanese, che corre su una lunghezza di circa un centinaio di metri, si presenta con un acciottolato molto tortuoso ed accidentato. I levigatissimi sampietrini, incassati alla bell'e meglio nella malta cementizia ma sporgenti verso l'alto in direzioni e misure differenti, rappresentano una continua insidia all'incedere dei passanti. E' come se volessimo camminare sul letto all'asciutto di un corso d'acqua interamente ricoperto di detriti fluviali. 

Come questo breve tragitto termina, finisce anche il carosello delle attrazioni esposte al piano terra delle varie abitazioni. Iniziano altri percorsi fatti di serpentine d'asfalto che salgono e scendono lungo paesaggi ammantati del verde dei boschi e della severità delle alte montagne. Non vedo aquile e dubito di poterne avvistare qualcuna nel prosieguo.

I cani invece, come le scimmie in India, sembrano, a mio avviso, i padroni del territorio. Al nostro passaggio uno di questi esemplari, appena soddisfatti i suoi bisogni corporei proprio sulla linea mediana della carreggiata, si ricompone e, con tranquillità ed indifferenza, se ne va per i fatti suoi. E' un cane libero. Ognuno di noi, con una veronica molto significativa, non commenta e procede. 

Siamo nell'entroterra albanese, ripeto. Il mare è ad ovest con acque che dall'Adriatico si concedono allo Ionio, il Kosovo e la Macedonia ad est, il Montenegro a Nord e la Grecia a Sud. La distanza che intercorre tra Taranto e Kruja, precisa il cellulare di uno del gruppo, è di 300 chilometri mentre il canale d'Otranto, il tratto di mare che separa l'Italia dall'Albania, è di appena ottanta.

Dal punto di vista altimetrico, la nazione che ora mi ospita, un territorio con una superficie di circa ventottomila chilometri quadrati, si colloca intorno ad una media di settecento metri, un'altezza pari al doppio di quella europea.

Il secondo giorno di viaggio mi vede impegnato di buon mattino nella piccola sala di ricevimento dell'albergo a definire al meglio con l'accompagnatore qualche dettaglio della lunga trasferta verso Berat, la città adagiata sul fondovalle di una catena di monti che la orlano da più versanti, e il grosso centro marino di Valona.

Di fronte a me due anziane signore, dal portamento distinto e apparentemente riservato, discutono a bassa voce dei loro programmi di viaggio. Sono forse del settentrione d'Italia? Annuiscono alla mia richiesta con un cenno della testa e, con un ampio sorriso confermano di essere del Nord Italia, di Cuneo per l'esattezza. Io preciso di non essere mai stato in detta città anche se ogni anno mi riprometto, nel tempo della raccolta delle castagne e dei funghi, di andare a visitarla. Mi riferiscono tra l'altro della loro amicizia, del loro stato vedovile e della voglia di girare per il mondo. Ad un certo punto una delle due, dopo aver dichiarato di essere originaria della regione Puglia, si alza in piedi ed improvvisa un balletto simile alla tarantella. Buon sangue non mente. Voleva proprio dimostrare di essere meridionale. Io, assecondando il suo desiderio di fare quattro salti, faccio altrettanto. Lo spazio a disposizione è molto ridotto ma ciò non impedisce ai frequentatori dell'albergo di farsi avanti per godersi il minispettacolo offerto dalla minipista della reception. Il gioco si esaurisce in pochi secondi ma la curiosità dei più continua per tempi più lunghi. Stanno ancora accorrendo!

In partenza da Kruja, mentre mi accingo a salire sul pullman, una anziana donna si fa avanti per cercare di vendere alle signore del nostro gruppo un mazzo di fiori secchi, forse essenze, che tiene stretti nella mano sinistra. Per me la sua figura ed il suo portamento valgono un dieci e lode. Un fazzoletto bianco ben disteso sul capo ed annodato sulla nuca ed una corta giacchetta di pochi bottoni, che sottende una gonna lunga sino all'ultimo palmo dei pantaloni, completano con le scarpe il suo vestiario. E' questo il costume indossato in passato dalle donne albanesi. Le tinte scure, eccezione fatta per il fazzoletto, predominano dappertutto. Le molte rughe segnate nel volto definiscono al meglio il quadro di eleganza, di semplicità e di riservatezza rilasciato dalla piccola donna.

Dopo diverse ore di macchina raggiungiamo Berat. E', come abbiamo già riferito, una città adagiata sul fondovalle ma con interessanti fughe dei quartieri antichi sui versanti della montagna e sull'altopiano sul quale ora ci troviamo. I camminamenti che ci permettono di arrivare al punto di ristoro che si trova in fondo ad una lunga discesa, sono tortuosi ed in forte pendenza. Ora, volgendo lo sguardo dal basso verso l'alto, è possibile ammirare le mille finestre delle abitazioni incastonate in punti quasi inaccessibili degli speroni montani. La visita alle moschee ed alle chiese bizantine non è prevista nel programma. Ci si deve accontentare nel primo pomeriggio di una passeggiata lungo le sponde del fiume che divide in due la città e del transito sui ponti dalle caratteristiche arcate. Per disegno e fattura richiamano alla mia memoria il singolare ponte di Monstar in Bosnia. Si continua per Valona dove sono previsti la cena e il pernottamento. 

Nell'attraversamento dei piccoli centri albanesi non può sfuggire, anche al più distratto viaggiatore, la presenza degli alti cumuli di macerie depositati a fianco delle singole abitazioni e dei condomini. In genere si tratta del pietrame calcareo prodotto dallo sbancamento delle aree riservate alla costruzione dei nuovi edifici o anche del materiale ricavato dalla demolizione o ristrutturazione dei medesimi. Normalmente sono delimitati nei cortili e nelle pertinenze private con recinzioni precarie ma spesso fanno la loro apparizione sui bordi delle strade e nell'aperta campagna. Nulla a che vedere, in ogni caso, con le discariche a cielo aperto di rifiuti di altro genere.

E' un paese di montagne e di montanari, di allevamenti e di allevatori, di emigrazione e di migranti. Eccellenti i prodotti forniti dal bestiame caprino. Il basso reddito pro-capite induce i giovani ad espatriare. Lo stipendio medio di un insegnante non supera i quattrocento euro. In compenso il costo della vita non è elevato. Per un chilo di ciliegie ho speso in un mercato rionale soli due euro mentre per un abbondante piatto di jogurt servito al tavolino un solo euro. Per le stanze d'albergo si spende dai venti ai cinquanta euro mentre per una suite il prezzo è di appena sessanta euro. E' quanto mi risulta dalla lettura dei prezzi esposti nella reception di un hotel. Per un caffè si spende quanto in Italia. Il prezzo è elevato in quanto detto bevanda non è di largo consumo in Albania. Una vera pacchia per i pensionati europei. 

Una delle più importanti risorse del paese è data dalle rimesse degli emigrati, dai prodotti della terra e dal turismo. La conoscenza dell'italiano, dell'inglese e di alcune lingue slave favorisce alquanto le prestazioni culturali degli albanesi. Sette su dieci conoscono la nostra lingua. Il livello di preparazione e l'intelligenza dei singoli fanno il resto. Nei concorsi a livello internazionale le graduatorie presentano spesso ai primi posti i giovani d'Oltre Adriatico.

Il terzo giorno di viaggio prevede, con partenza in mattinata da Valona, la sosta pomeridiana nella cittadina di Saranda e nel sito archeologico di Butrinto e l'arrivo in serata a Giannina in Grecia.

Saranda è un centro privo di piano regolatore. Il far da sé nel settore edilizio da parte di chicchessia penalizza notevolmente il concetto di estetica urbana. Si salva con un bel dieci e lode il bellissimo parco di Butrinto con i resti del teatro romano, dell'agorà, delle terme e del battistero di epoca bizantina. Il sito in questione è dichiarato dall'Unesco Patrimonio mondiale dell'Umanità.

Al mattino successivo, dopo una breve passeggiata nella ridente cittadina di Giannina, si parte per Kalambaka, il centro della Tessaglia che ospita le Meteore ossia gli imponenti massi basaltici con dei monasteri sulla sommità. Sono numerosi questi monoliti che svettano nel cielo con forme approssimativamente cilindriche, prismatiche e tronco coniche. Per quanto riguarda l'altezza posso indicare ad occhio e croce delle dimensioni varianti dai cento ai trecento metri mentre per quanto riguarda la base superiore, ossia l'area sulla quale i monaci hanno edificato i loro monasteri, delle superfici varianti dai trenta ai seicento metri quadrati. Per poterne visitare qualcuno bisogna inseguire dal basso i numerosi scalini scavati nella roccia oppure ricorrere ai suggestivi e arditi ponti che, svicolando nel vuoto, ti accompagnano, senza correre alcun pericolo, quasi in dirittura d'arrivo. I monaci e le monache, distribuiti rispettivamente in conventi maschili e femminili, esercitano le loro funzioni pregando, lavorando e cantando. Ai turisti, che soprattutto d'estate affollano questi luoghi di preghiera, sono consentite le visite solo in determinati spazi. Il legame dei religiosi con il mondo esterno è assicurato, per quanto riguarda le vettovaglie, dall'impiego di enormi ceste che, attraverso l'uso di funi e di argani di struttura lignea, effettuano il movimento di andata e ritorno agendo sulla verticale dei corpi sospesi nel vuoto.

Passeggiando nei momenti liberi per Kalambaka mi diverto spesso a decifrare i messaggi della pubblicità o il significato delle insegne di certi negozi avvalendomi al riguardo della conoscenza di molte lettere maiuscole e minuscole dell'alfabeto greco e soprattutto dell'osservazione e dell'esame degli articoli esposti all'interno delle rivendite. Spesso, pur non avendo compiuto studi umanistici, riesco a cogliere dei risultati positivi. 

Il pernottamento è fissato in un albergo che assicura ad ogni cliente la possibilità di vedere dalla propria camera una vista panoramica sulle Meteore.

Il quinto ed il sesto giorno sono riservati alla visita della Macedonia del Nord. Le città interessate dal nostro viaggio sono quelle di Bitola ed Ocrida. Dappertutto il paesaggio ti offre luoghi incontaminati, campi coltivati, serre e centrali elettriche. Nei villaggi le case singole e binate si succedono con piccoli appezzamenti di terreno coltivati ad ortaglie. I tetti, in maggioranza ricoperti di tegole di tipo marsigliese si configurano negli spioventi con linee geometriche di tipo rettangolare, triangolare e trapezoidale. Rara, nei pressi delle abitazioni o sul lungo strada, la presenza di cumuli di macerie o di piccole discariche. 

Spesso, durante queste escursioni abbiamo modo di incontrare i partecipanti di un secondo gruppo di turisti che, pilotati dalla stessa agenzia, inseguono per filo e per segno i nostri stessi programmi di viaggio.

Li rivediamo quindi a pranzo, a cena e durante la visita ai vari siti di tipo archeologico, religioso e naturalistico ma non condividiamo lo stesso mezzo di trasporto. Questi turisti di età matura del Nord Italia, lombardi e valdostani in maggioranza, hanno modo di simpatizzare con noi ricorrendo spesso ai rituali convenevoli di incitamento dei sardi. Per loro noi siamo il gruppo degli aiò ed aiò sta per andiamo. Chissà quante volte i fanti della Brigata Sassari avranno fatto riferimento nella grande guerra a questo motto! 

A Bitola è prevista una breve sosta al sito archeologico con in primo piano il teatro, le terme ed i bellissimi mosaici a cielo aperto mentre ad Ocrida è in programma una interessante gita in battello sul lago omonimo.

In questo secondo giorno in terra macedone trovo molto distensivo godermi una mattinata all'aria aperta standomene a bordo di una imbarcazione che per i più freddolosi offre un sottocoperta con comodi posti orientati verso ampie finestre scorrevoli mentre per i restanti viaggiatori un ponte da condividere in parte con i quattro venti ed in parte con il piacevole riparo dal sole e dalla pioggia dei lunghi tendoni srotolati al disopra delle fiancate del bastimento. 

Io trovo buona posizione sulla tolda del natante in una delle tante seggiole libere di prua. In tutto, ben distribuiti nelle parti superiori ed inferiori dello scafo, saremo una sessantina. Il via vai di quanti salgono e scendono le piccole scale del natante per guadagnare i posti migliori per le loro inquadrature fotografiche è così frenetico ed incessante da impedire una giusta conta dei viaggiatori. 

Cielo terso con sole non dardeggiante, temperatura piacevole e ridente vegetazione di macchia mediterranea e di conifere che si proietta con eleganza dall'alto delle montagne verso le rive del grande lago, sembrano invitare ogni gitante ad esprimere un giudizio sullo scenario che lo circonda. A quella ventina di passeggeri che sostano a prua con me sulla tolda della imbarcazione chiedo, ricorrendo a semplici gesti delle mani, di esprimere un voto. Eccezione fatta per due signore anziane del Nord Europa che non capiscono la mimica del mio linguaggio, forse fraintesa ed interpretata come una richiesta di denaro, l'approvazione dei restanti comporta il massimo della votazione. 

Nel pomeriggio, durante un giro di perlustrazione nei recinti interni di un monastero, ho la gradita sorpresa di vedere alcuni pavoni che con molta spontaneità accettano di farsi fotografare senza spazientirsi più di tanto. I loro numeri vanno dalla apertura e chiusura a ventaglio della classica ruota, all'ostentamento del loro piumaggio e all'esibizione canora dei loro versi ad onore del vero sgraziati. Non mi era mai capitato di vedere questi gallinacei così da vicino. Dal mio tentativo rivolto ad un pavone bianco dalle penne ben raccolte posteriormente a mo' di lunga scopa non riesco ad ottenere i risultati sperati di una esibizione. Alle mie insistenze risponde paupulando e cambiando continuamente direzione.

Una bella passeggiata nell'arteria principale, la cena al ristorante ed il pernottamento in hotel, consentono al gruppo di cui faccio parte di porre fine a questo breve itinerario in Macedonia. 

Tirana ci accoglie nell'ultimo giorno di viaggio all'ora di pranzo. E' una città che con i suoi sobborghi conta più di un milione di abitanti. Dal punto di vista economico e culturale è decisamente proiettata nel futuro con ampi margini di crescita e di miglioramento. Il lungo viale, per buona parte alberato, che porta dalla piazza del museo alla zona dei grattacieli è un eloquente invito ad una distensiva ed interessante passeggiata. In questo percorso fatto di spazi che si concedono a stili architettonici sempre più avveniristici non può sfuggire, neanche al più sprovveduto visitatore, la testimonianza offerta da alcuni reperti bellici del passato. Ben ancorati nel terreno di un'aiuola dei giardini pubblici fanno bella mostra di sé una parete del muro di Berlino, circa due metri per la base e tre per l'altezza, ed un bunker del diametro di due metri. Ad Oristano, la città in cui risiedo, è visibile, sul lungo strada che dal ponte sul Tirso porta alla Basilica del Rimedio, un fortino di ampie dimensioni. Di fortificazioni di questo tipo ne ho visto ben poche in Sardegna. La guida albanese riferisce che il numero di queste costruzioni in cemento armato è di centosettantamila. Può sembrare strano, commenta il cicerone, ma questi enormi ed immobili ratti dagli occhi neri, alla pari di quelli edificati lungo la linea Maginot in Francia, non sono mai serviti a niente.

All'imbrunire, come mi accingo a scendere dal pullman per recarmi al ristorante ho la sgradita sorpresa di incontrarmi con tre o quattro ragazzini che con incalzante ostinazione chiedono soldi ad oltranza. Visto l'insuccesso delle loro richieste si avvinghiano al mio corpo e quasi mi immobilizzano. Mi ritrovo come nei panni di Laocoonte. Ben conscio del fatto che qualche mio movimento improprio, come ad esempio uno strattone, potrebbe farmi passare dalla ragione al torto, resto per qualche attimo inerme fino a che alcuni passeggeri non provvedono a liberarmi da quelle strette inopportune.

Si cambia storia qualche metro più avanti con il quadretto offerto da un conducente che, lampeggiando in continuazione i potenti fari del suo mezzo, cerca di trovare nelle vicinanze un parcheggio impossibile. Io non m'intendo di macchine né di motori, ma certamente si sarà trattato di una macchina di gran lusso. I modelli in circolazione in Italia, a qualsiasi cilindrata appartengano, vagano per me nell'anonimato. Io non guido una automobile dal 1972, esattamente dal giorno in cui, con partenza da Conegliano, accompagnai mio padre, un combattente della Grande Guerra, a Vittorio Veneto. 

Il volo Tirana-Roma è pronto per l'imbarco dei passeggeri. All'arrivo nella città eterna, non appena il velivolo avrà spento i motori, i viaggiatori non si faranno pregare più di tanto per schizzare all'impiedi all'unisono. Lo stesso comportamento sarà tenuto, come di consueto, al termine della tratta aerea Roma-Cagliari.