In giro per la città
Tanta gente questi giorni a Venezia. Una
ventina di anni addietro, i turisti in circolazione in Piazza San Marco, in
versione autunnale, non superavano nelle ore di punta le cento unità.
Gli
immancabili piccioni, nel numero di una trentina, non sono aumentati più di
tanto rispetto ai miei conteggi. Tra questi uccelli ho visto sfrecciare un
gabbiano che con molta disinvoltura andava ad occupare i vari spazi aerei e
quelli del parterre. Le sue esibizioni di ospite frettoloso e solitario sono
spesso continuate nella piazzetta antistante il palazzo ducale e nel molo
adiacente.
Pellaccia
dura quella di detto volatile. Avevo fatto molta fatica in passato ad
imbalsamarne uno con la formalina. Non riuscivo in nessun modo a dare
all’animale un assetto di presentabilità. Mi veniva più facile inseguire le mie
osservazioni scientifiche, sempre utilizzando la formaldeide, sui pesci dei
quali riuscivo ad evidenziare gli organi dei vari apparati. Di detto fissante
aldeidico, diluito in soluzione acquosa al quaranta per cento, trovavo sempre facile
fornitura in farmacia. Di esemplari in vitro ne avrò curato qualche decina nella
scuola media di San Vendemiano in provincia di Treviso.
Di
cani e cagnolini (canes e calleddos nel mio dialetto barbaricino)
nessuna presenza in città.
Ma è alla
piazza che devo curare le mie attenzioni. Le sue dimensioni valgono 180 metri
per la lunghezza e 70 per la larghezza. Devo precisare che oggi e domani, 11 e
12 novembre, in questo suggestivo salotto, saranno consegnati i certificati di
laurea triennale a quanti hanno discusso la loro tesi nelle sessioni estiva ed
autunnale del corrente anno accademico. I duemila e trecento neo dottori, saliranno
sul palco a due a due, per ritirare, rispettando l’ordine alfabetico di chiamata,
dalle mani del prorettore della Ca’ Foscari, i loro diplomi. La toga di
ermellino sistemata sul pettorale e sulle spalle di detto esponente
universitario non sfugge, per le tonalità di bianco maculate di ciuffi neri, a
nessuno dei diecimila presenti alla cerimonia, mentre alle strette di mano che
suggellano la consegna del titolo fa sempre seguito l’applauso dei parenti e
degli amici dei neo laureati. Ho apprezzato durante la prolusione dell’alta
guida, la seguente dichiarazione: Nulla è più potente della conoscenza per
difendere pace, cooperazione e benessere. Resta una affermazione valida per
tutti e non solo per i presenti nella piazza.
Quando
ciascuno degli incoronati con foglie di alloro scenderà dal palco per dirigersi
verso le transenne che delimitano lo spazio riservato ai cerimoniali, si ritroverà
pronto ad essere accolto dagli abbracci dei familiari. Fuori dallo steccato si
festeggia un po' dappertutto. Ho visto qualche genitore piangere. Nel sentire un
brivido sulla schiena mi sono emozionato anch’io. Nella calca ho intravisto una
bella ragazza nera che, con in mano il titolo di studio certificato in una
cartella color cremisi, sembrava cercare conforto nell’affetto dei propri
congiunti, quasi incredula di aver raggiunto un traguardo forse insperato. Mi commuovo
ancora ma non piango. È da più di ottant’anni che le lacrime non rigano il mio
viso. Queste scene si ripetono con gli stessi rituali anche quando dal palco
scende mia nipote.
In
questo dipartimento di San Marco, la fiumana dei gitanti avverte un brusco calo
di peso non appena si superano il Ponte dei Sospiri, lo spazio antistante le
carceri ducali e quel centinaio di metri che portano alla calle degli Albanesi.
Chi stava in mia compagnia in quest’ultima strada ha potuto verificare la
completa assenza di anime vive ma, percorrendo a ritroso altre vie che
riportano al centro, ha potuto riprendere le immagini a gogò dei turisti
intenti ad attraversare ponti, canali o ad imbucarsi nei punti di ristoro
all’aperto o in quelli all’interno dei caratteristici baccaro. Sfilano
sull’acqua dei canali le immancabili gondole con carichi preziosi di turisti
dell’Est asiatico. Gli occupanti, per effetto degli schienali sistemati tra i
90 e i 120 gradi, si compiacciono di vedere Venezia dal basso verso l’alto. Per
giunta il clima si concede amichevolmente e favorevolmente alle voglie dei
visitatori della Serenissima.
Al mio
paese i notabili del passato, parroci e segretari comunali, qualificavano i
vari distretti con i termini di vicinati e di contrade mentre qui a Venezia si
fa riferimento ai sestieri ed alle calli dove i primi indicano una delle sei
zone in cui risulta divisa la città mentre i secondi, definiscono le strade. Alle
calli più larghe viene associato il nome di campo fatta eccezione per lo slargo
di San Marco che viene chiamato Piazza.
Non c’è
luogo in questa città che non susciti la mia ammirazione ed in particolare mi
emoziono ancora per le cartoline non ancora viste. I repetita mi
lasciano del tutto indifferente. Ed eccomi di fronte al ponte delle Ostreghe.
Tale costruzione vanta il merito di essere ricordata ogni giorno da ogni cittadino
del pianeta Veneto con l’intercalante che nella traduzione in italiano
significa ostrica.
Del
gondoliere che sfila sotto i ponti più bassi della laguna, cioè di tutti quelli
che giocano al ribasso rispetto a quello che sta più in alto, mi piace indugiare
sul suo comportamento nei momenti che precedono il suo ingresso nell’impalcato
ad arco della struttura. Basta una disattenzione e la zuccata fa parte dell’imprevisto.
Può anche succedere che il cappello a falde larghe finisca in acqua ma questo è
il male minore. Le mie osservazioni hanno sempre notato il rapido inchino del
capo barca o la sua discesa verso il predellino più basso. In caso contrario si
sprecherebbero i disappunti dei presenti di origine veneta con gli immancabili Ocio!
Ocio! Ostrega! ossia Occhio, (attenzione), accidenti.
Dal
canale delle ostriche, per arrivare alla mia pensione sita nella calle dei
Pedrocchi, è questione di pochi minuti, tempo che impiego a ripassare le cose
già viste nei locali caratteristici di questo sestiere quali il Bacaro da me
pare ed il Bacaro Magna, bevi e tasi.
In
detti ritrovi i camerieri faticano nel servire i clienti. Tra il lavello, il
bancone ed i tavolini di servizio vedo sempre mani che si agitano in continuo
movimento. Per soddisfare una clientela sempre più esigente si sforzano al
meglio nel portare in equilibrio avanti e indietro piattini, tazzine, scodelle,
dolci, gelati e leccornie varie. Il calice di vino bianco, alias l’ombretta,
è sempre pronto a stemperare i passaggi più frenetici ed ombrosi della
giornata. Del modo di comunicare con i turisti di altre nazioni non so mentre
tra gestori e dipendenti è di norma servirsi sempre del dialetto. È tutto
gratis qui a Venezia, nel senso che i ringraziamenti arrivano sempre dopo
l’esborso degli schei o digital skeis. La sequenza è sempre la stessa:
richiesta del servizio, consumazione, corrispettivo e grazie tante.
A
gruppi di venti e trenta elementi, con tanto di portabandiera che funge da
apripista e da punto di riferimento, sfilano a due a due i giovani studenti di
dette scolaresche. La stessa scena si ripete per diverse comitive di anziani
turisti extra europei.
Dal
sestiere di San Marco i miei decidono di fare una puntatina alla zona di
Cannaregio. Ci sarà tanto da vedere. Col vaporetto, che sfila diversi metri di
cordame da annodare e snodare nei punti dì attracco di ogni fermata, penso di
arrivarci in breve tempo. Occupo uno dei posti riservati ai disabili e mi
concedo finalmente il lusso di sognare ad occhi aperti attraverso i vetri
dell’imbarcazione. Sono comunque sempre pronto a cedere il sedile a qualcuno in
condizioni più precarie delle mie. Il mio malanno è la sordità. Non mi lamento
d’altro. Gli auricolari fanno quello che possono. L’unico interlocutore è il
cellulare. Quando lo interrogo mi risponde sempre per iscritto o per immagini.
Sono ora
sul Canal Grande e sto per passare sotto il ponte più in alto della città. Non
è la prima volta per me ma le angolazioni che stimolano la mia curiosità sono diverse.
In questa occasione sono le finestre a spadroneggiare sulle mie osservazioni.
Tante, tante e poi tante, tutte ben distribuite geometricamente sia nei vari
livelli di verticalità che nell’accostamento dell’una all’altra lungo le
fiancate. Rispondono a stili ben definiti di forma rettangolare, a tutto sesto e
a sesto acuto con disposizioni quasi orfane di spazi intermedi tra le medesime.
Finestre,
finestre ed ancora finestre egregiamente modellate in arrampicata tra acqua
salmastra e cielo. Mi vien da pensare che i veneziani abbiano sempre avuto un
debole per esse. Fatto sta che, in ogni dove della mia cameretta lagunare, i
disegni facenti capo alle aperture sono distribuiti a profusione dappertutto
con pannelli incollati nella porta d’ingresso, nelle ante dell’armadio, dello
sgabello e dello scrittoio. Non so chi abbia curato i dipinti originali ma
penso che anch’egli abbia avuto gli stessi miei approcci di lettura. Le
persiane sono gli unici arredi fatti salvi dai riquadri in fotocopia. Penso che,
in caso contrario e per diversi motivi, questi legni di fattura massiccia e
secolare, ne avrebbero giustamente sofferto.
È a
Cannaregio che i miei hanno scelto di soffermarsi per la pausa pranzo. Per
rispettare l’orario concordato con i gestori della trattoria c’è da procedere
in tutta fretta. C’è tanto da vedere da queste parti che al centro della zona
incastonano il ghetto ebraico più antico del mondo. Ad una signora che incrocio
in queste calli poco frequentate dai turisti chiedo ragguagli sulla esatta
localizzazione del rettangolo edilizio riservato nel tempo agli ebrei. È così
gentile che decide di accompagnarmi sino all’ingresso principale dove una targa
affissa sul muro riporta la seguente scritta: Cal del Porton. Del
vecchio portale restano solamente i contrafforti e lo stipite mentre
dell’intelaiatura in ferro che in passato veniva aperta alla mattina e chiusa alla
sera nessuna traccia. Restano comunque in chiara evidenza i fori sui quali si addentavano
i neri monconi delle cerniere.
Se
fossi a Venezia in compagnia di nessuno non avrei esitato a fare una capatina
alle sinagoghe delle comunità ebraiche ancora presenti.
Non me
ne vorrà il mio amico Terenzio, che abita una vita a Treviso, ma che
nell’infanzia aveva vissuto nel ghetto, se non ho potuto comunicargli per tempo
della mia visita in città. Preparato in storia dell’arte, sarebbe stato
un’ottima guida per la conoscenza più approfondita del sestiere che ora mi sta
ospitando. Sarà per un’altra occasione anche per la visita più completa dei
saloni del palazzo ducale, delle antiche prigioni e del passaggio che porta ad
esse attraverso il Ponte dei Sospiri. E dell’isolotto della Giudecca, che intravedo
non molto distante da Cannaregio, non mancherò di presenziare e di osservare
quanto è consentito vedere. Non mancheranno come sempre le motivazioni, le prese
d’atto e le valutazioni personali.
Incontro
con scrittori d’alta quota
Il
vero incontro con Francesco Vidotto, autorevole penna di alta classifica a
livello nazionale, non c’è mai stato, né qui, né altrove. Onorato invece
l’appuntamento, già programmato per tempo, con i suoi genitori, Gianni e
Angela, vecchie conoscenze nella Conegliano degli anni Sessanta, periodo in cui
detta coppia non si era ancora formata. La signora Vidotto, faceva parte da
signorina della famiglia Coletti, cognome quest’ultimo riservato dall’anagrafe
per il padre Leone e, con titolo acquisito col matrimonio, per la madre Olga.
A quel
tempo Francesco non era ancora nato. Doveva attendere la fine degli anni
settanta per venire alla luce ed essere invogliato e assecondato da bambino,
dal nonno materno, nella cura dei primi passi verso le rampe delle Dolomiti
bellunesi. Sono queste le montagne che nella prima decade del Novecento avevano
visto nascere a Tai di Cadore la bella figura del signor Coletti. In età matura
il nostro Francesco, facendo seguito agli insegnamenti ricevuti dal suo
adorabile tato, è riuscito a saldare il suo debito di riconoscenza con dediche
rilasciate con garbo in ogni anteprima dei suoi lavori.
Potete
verificare voi stessi quanto sto dichiarando in questo servizio bussando col
vostro cellulare alla porta di Onesto, il personaggio principe del lavoro che
ho appena letto, una persona che ogni giorno indirizzava i suoi messaggi
amorosi ai suoi monti con tanto di lettere imbustate ed affrancate, ed
altrettanto con le medesime restituite a mezzo posta al mittente. Ho divorato
il libro nel giro di due giorni e certamente avrei impiegato un tempo superiore
se il mio amore verso le montagne fosse corrisposto appieno.
Ricordi
di montagna
Eppure
sono un montanaro anch’io. Con i miei monti che spaziano verso l’alto da un
minimo di seicento ad un massimo di millecinquecento metri e con l’abitato che
si estende con i suoi quattro rioni in una scalata di un certo impegno, lo
scenario è irripetibile in Sardegna. Anche il Lawrence, in Sea and Sardinia,
aveva espresso, in una fredda mattina del 1921, il suo apprezzamento per
Tonara. Per detta firma, il paese, visto dal fondo della vallata richiamava le
immagini di Gerusalemme, nella versione della Nuova città, mentre visto da
vicino, si presentava come un luogo molto appetibile per un soggiorno
prolungato. Gli sarebbe piaciuto vivere nella casetta posta al limite del
belvedere di Sa Discarriga. Ci restò invece per il tempo riservato alla
sosta della corriera che lo portava a Nuoro.
I
motivi principali che mi inducono a preferire le zone collinari e la pianura
sono diversi. In particolare, non vado d’accordo con il freddo, la neve, le
salite e le discese. Eppure in gioventù ho raggiunto seppure con una certa
apprensione, tutte le vette che in linea d’aria potevo osservare dalle finestre
della mia abitazione e quelle che dalle cime del Ghenna ‘e Crecu
invitano alla lettura delle pianure del Campidano. Sono salito anche sulle
Punte Paolina e la Marmora per osservare la Sardegna dall’alto. Poi, finite
le trasmissioni con le scampagnate d’altura, mi sono dovuto
accontentare, in prosieguo, di osservare il Monte Cinto, dall’alto verso il
basso, con le cinture di sicurezza dei voli di linea Cagliari-Milano. Ho anche
fatto la conoscenza di montagne più elevate dove la curiosità mi ha spinto a
studiare i movimenti delle marmotte che dalla posizione di attenti scomparivano
in buca non appena mi avvicinavo al loro cospetto oppure degli stambecchi che
in lontananza, sfidando le leggi della gravità, si sentivano a loro agio nello
sfruttare impossibili camminamenti a fil di parete.
In
paese abitavo nella contrada denominata una volta Mesuidda,
l’equivalente di In mezzo al paese, poi chiamata Via Centrale ed oggi
Via Vittorio Emanuele. Gli spostamenti per me avvenivano solitamente per via
orizzontale salvo quelli che dovevo fare per raggiungere le scuole elementari e
medie, siti questi ubicati nel rione superiore. Sulle strade che portano alla
salita per Galusè ci sono passato pochissime volte.
Ad
Ovaro, comune montano in provincia di Udine che mi ha ospitato per un anno, ho
sempre fatto le mie escursioni a livello zero. Il mio percorso di andata e
ritorno interessava solitamente il centro cittadino e la vicina frazione di
Chialina mentre, agli altri 12 insediamenti disseminati nella montagna, non ho
mai rivolto le mie attenzioni. Per quanto sia bella detta cittadina, a me piace
sempre osservarla nelle immagini offerte dal cellulare.
Sul magnus
pater che è lo Zoncolan non mi sono mai esercitato. Con la voglia
che avevo allora di andare in bicicletta avrei certamente fatto un pensierino ad
hoc anche se, per raggiungere la vetta, avrei impiegato tanto tempo. Per
riuscire nell’intento avrei dovuto pedalare a zig zag ed inseguire un tracciato
simile a quello che viene imposto all’anguilla nell’avvolgimento allo spiedo.
Si tu vioz ce mont ai Se tu vedessi quel monte lì si direbbe in dialetto
carnico.
I
motivi che mi inducono a maggiori riflessioni sui luoghi delle mie origini sono
ben altri e risultano ben definiti. A me, in particolare, piace sfilare dalle
custodie della mia memoria tutte le tessere che riconducono alla storia delle
mie calli. Questo vale per il tempo che corre dal Concilio di Trento ad oggi. È
una gran fatica leggere, tradurre e trascrivere letture che sanno di passi
scritti in sardo, catalano, castigliano, latino ed italiano. È comunque sempre
interessante frugare, quasi con bramosia, negli archivi di stato ed in quelli
ecclesiastici. I Quinque libri, ossia I registri di battesimo, cresima,
matrimonio, fine vita e stati delle anime, mi hanno tenuto piacevole compagnia
per molti anni. Alcuni mesi addietro sono riuscito ad evidenziare contrade che
ritenevo non fossero mai esistite. Le elenco per fare un piacere a quanti
avessero avuto dei parenti lontani nella frazione di Ilalà, il rione che
oggi non esiste più e che nelle rilevazioni di metà Ottocento si attestava
sulle duecento unità: Nugerriu, Mesu Iginau, Pratza manna e Pratza ‘e Osso alias
Noce di ruscello, In mezzo al vicinato, Piazza grande e Piazza di sotto.
Un
certo interesse rilevo sempre per le angolazioni riprese dall’alto
dell’abitato. In questa ultima decade di novembre ho visto tetti innevati in
una disposizione a rettangoli, quadrati, trapezi e archi di circonferenza,
disegni questi evidenziati e regolati da una intelaiatura viaria appena
avvertibile. Tetti, tetti ed ancora tetti, molti dei quali sembravano e
sembrano custodire, con la loro copertura, gelosamente e segretamente, le orme
di chi ha lasciato i casolari per sempre.
Un
signore d’altri tempi
Ma
ritorniamo adesso alla bella figura di Leone Coletti, padre di Angela e nonno
di Francesco, per significare che verso la metà degli anni Sessanta, periodo in
cui ho avuto il piacere di conoscerlo, si recava quotidianamente ad Oderzo,
cittadina distante da Conegliano una ventina di chilometri, per svolgere
compiti di disegnatore di modelli per lavatrici presso la Siemens. Può darsi
che il team di cui faceva parte curasse incarichi di progettazione ma sulla
specificità del suo lavoro non mi ero mai permesso di chiedere spiegazioni. In
effetti, signor Leone, pur parlando poco di sé e delle sue occupazioni, era
molto disponibile alla conversazione ed alla soluzione di qualsiasi problema di
carattere tecnico. Non disdegnava comunque di fare riferimento alle sue
montagne anche se era a conoscenza del fatto che i discorsi sui saliscendi non
andavano troppo a genio al sottoscritto. Ricordo che nello studio della sua
abitazione si trattavano sempre temi che riguardavano le osservazioni
scientifiche. Era per me un uomo di laboratorio che trasmetteva le sue
conoscenze ricorrendo alla pratica. I suoi consigli valevano come autentiche
lezioni che mi sono servite per curare al meglio i miei insegnamenti nelle
scuole medie e superiori. Colgo l’occasione per presentare due esempi che fanno
riferimento alla sua preparazione ed alla sua disponibilità verso il prossimo.
Col primo di essi mi aveva dimostrato che la dinamo di una bicicletta è un
alternatore. Dopo aver collegato lo strumento ad una presa di corrente mi ero
accorto del brusio che accompagnava la rotazione della ghiera su sé stessa. La
prova era riuscita appieno dimostrando che la trasformazione dell’energia
elettrica in energia meccanica non era un fatto casuale. Nella sua spiegazione
mi aveva precisato che utilizzando la corrente alternata non poteva che
ritrovarsi di fronte ad un alternatore. Risolse il tutto con freddezza e senza
far ricorso all’uso di un riduttore di tensione. Mi accorgevo che, ogni volta
che mi presentava gli effetti della corrente elettrica, ivi compreso quello
chimico, confermava di possedere una conoscenza piena delle leggi che regolano
lo studio delle varie unità di misura quali quelle relative all’intensità, alla
differenza di potenziale ed alla resistenza. Dello stesso livello la preparazione
nelle discipline curate dalla meccanica. Le chiavi di lettura relative allo
studio delle forze, del lavoro e della potenza facevano parte del suo
patrimonio culturale. In campo matematico riusciva a risolvere con le frazioni
qualsiasi problema di primo grado.
Il
secondo esempio mi riporta alle raccomandazioni che bonariamente mi rivolgeva
sull’uso della macchina: Stia attento agli incroci e dia sempre precedenza a
quanti usano le frecce. Più tardi, da pensionato non aveva mancato di
informare il nipotino, con i dovuti avvertimenti, dei pericoli che si corrono
nell’attraversamento delle strade. Era il Signor Coletti. Un dirimpettaio del
condominio di Piazza Calvi a Conegliano.
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