Memorie tonaresi in pratza manna

domenica 7 dicembre 2025

Tre giorni a Venezia (11-12 e 13 novembre 2025)

 

     In giro per la città

     Tanta gente questi giorni a Venezia. Una ventina di anni addietro, i turisti in circolazione in Piazza San Marco, in versione autunnale, non superavano nelle ore di punta le cento unità.

Gli immancabili piccioni, nel numero di una trentina, non sono aumentati più di tanto rispetto ai miei conteggi. Tra questi uccelli ho visto sfrecciare un gabbiano che con molta disinvoltura andava ad occupare i vari spazi aerei e quelli del parterre. Le sue esibizioni di ospite frettoloso e solitario sono spesso continuate nella piazzetta antistante il palazzo ducale e nel molo adiacente.

Pellaccia dura quella di detto volatile. Avevo fatto molta fatica in passato ad imbalsamarne uno con la formalina. Non riuscivo in nessun modo a dare all’animale un assetto di presentabilità. Mi veniva più facile inseguire le mie osservazioni scientifiche, sempre utilizzando la formaldeide, sui pesci dei quali riuscivo ad evidenziare gli organi dei vari apparati. Di detto fissante aldeidico, diluito in soluzione acquosa al quaranta per cento, trovavo sempre facile fornitura in farmacia. Di esemplari in vitro ne avrò curato qualche decina nella scuola media di San Vendemiano in provincia di Treviso.

Di cani e cagnolini (canes e calleddos nel mio dialetto barbaricino) nessuna presenza in città.

Ma è alla piazza che devo curare le mie attenzioni. Le sue dimensioni valgono 180 metri per la lunghezza e 70 per la larghezza. Devo precisare che oggi e domani, 11 e 12 novembre, in questo suggestivo salotto, saranno consegnati i certificati di laurea triennale a quanti hanno discusso la loro tesi nelle sessioni estiva ed autunnale del corrente anno accademico. I duemila e trecento neo dottori, saliranno sul palco a due a due, per ritirare, rispettando l’ordine alfabetico di chiamata, dalle mani del prorettore della Ca’ Foscari, i loro diplomi. La toga di ermellino sistemata sul pettorale e sulle spalle di detto esponente universitario non sfugge, per le tonalità di bianco maculate di ciuffi neri, a nessuno dei diecimila presenti alla cerimonia, mentre alle strette di mano che suggellano la consegna del titolo fa sempre seguito l’applauso dei parenti e degli amici dei neo laureati. Ho apprezzato durante la prolusione dell’alta guida, la seguente dichiarazione: Nulla è più potente della conoscenza per difendere pace, cooperazione e benessere. Resta una affermazione valida per tutti e non solo per i presenti nella piazza.

Quando ciascuno degli incoronati con foglie di alloro scenderà dal palco per dirigersi verso le transenne che delimitano lo spazio riservato ai cerimoniali, si ritroverà pronto ad essere accolto dagli abbracci dei familiari. Fuori dallo steccato si festeggia un po' dappertutto. Ho visto qualche genitore piangere. Nel sentire un brivido sulla schiena mi sono emozionato anch’io. Nella calca ho intravisto una bella ragazza nera che, con in mano il titolo di studio certificato in una cartella color cremisi, sembrava cercare conforto nell’affetto dei propri congiunti, quasi incredula di aver raggiunto un traguardo forse insperato. Mi commuovo ancora ma non piango. È da più di ottant’anni che le lacrime non rigano il mio viso. Queste scene si ripetono con gli stessi rituali anche quando dal palco scende mia nipote.

In questo dipartimento di San Marco, la fiumana dei gitanti avverte un brusco calo di peso non appena si superano il Ponte dei Sospiri, lo spazio antistante le carceri ducali e quel centinaio di metri che portano alla calle degli Albanesi. Chi stava in mia compagnia in quest’ultima strada ha potuto verificare la completa assenza di anime vive ma, percorrendo a ritroso altre vie che riportano al centro, ha potuto riprendere le immagini a gogò dei turisti intenti ad attraversare ponti, canali o ad imbucarsi nei punti di ristoro all’aperto o in quelli all’interno dei caratteristici baccaro. Sfilano sull’acqua dei canali le immancabili gondole con carichi preziosi di turisti dell’Est asiatico. Gli occupanti, per effetto degli schienali sistemati tra i 90 e i 120 gradi, si compiacciono di vedere Venezia dal basso verso l’alto. Per giunta il clima si concede amichevolmente e favorevolmente alle voglie dei visitatori della Serenissima.

Al mio paese i notabili del passato, parroci e segretari comunali, qualificavano i vari distretti con i termini di vicinati e di contrade mentre qui a Venezia si fa riferimento ai sestieri ed alle calli dove i primi indicano una delle sei zone in cui risulta divisa la città mentre i secondi, definiscono le strade. Alle calli più larghe viene associato il nome di campo fatta eccezione per lo slargo di San Marco che viene chiamato Piazza.

Non c’è luogo in questa città che non susciti la mia ammirazione ed in particolare mi emoziono ancora per le cartoline non ancora viste. I repetita mi lasciano del tutto indifferente. Ed eccomi di fronte al ponte delle Ostreghe. Tale costruzione vanta il merito di essere ricordata ogni giorno da ogni cittadino del pianeta Veneto con l’intercalante che nella traduzione in italiano significa ostrica.

Del gondoliere che sfila sotto i ponti più bassi della laguna, cioè di tutti quelli che giocano al ribasso rispetto a quello che sta più in alto, mi piace indugiare sul suo comportamento nei momenti che precedono il suo ingresso nell’impalcato ad arco della struttura. Basta una disattenzione e la zuccata fa parte dell’imprevisto. Può anche succedere che il cappello a falde larghe finisca in acqua ma questo è il male minore. Le mie osservazioni hanno sempre notato il rapido inchino del capo barca o la sua discesa verso il predellino più basso. In caso contrario si sprecherebbero i disappunti dei presenti di origine veneta con gli immancabili Ocio! Ocio! Ostrega! ossia Occhio, (attenzione), accidenti.

Dal canale delle ostriche, per arrivare alla mia pensione sita nella calle dei Pedrocchi, è questione di pochi minuti, tempo che impiego a ripassare le cose già viste nei locali caratteristici di questo sestiere quali il Bacaro da me pare ed il Bacaro Magna, bevi e tasi.

In detti ritrovi i camerieri faticano nel servire i clienti. Tra il lavello, il bancone ed i tavolini di servizio vedo sempre mani che si agitano in continuo movimento. Per soddisfare una clientela sempre più esigente si sforzano al meglio nel portare in equilibrio avanti e indietro piattini, tazzine, scodelle, dolci, gelati e leccornie varie. Il calice di vino bianco, alias l’ombretta, è sempre pronto a stemperare i passaggi più frenetici ed ombrosi della giornata. Del modo di comunicare con i turisti di altre nazioni non so mentre tra gestori e dipendenti è di norma servirsi sempre del dialetto. È tutto gratis qui a Venezia, nel senso che i ringraziamenti arrivano sempre dopo l’esborso degli schei o digital skeis. La sequenza è sempre la stessa: richiesta del servizio, consumazione, corrispettivo e grazie tante.

A gruppi di venti e trenta elementi, con tanto di portabandiera che funge da apripista e da punto di riferimento, sfilano a due a due i giovani studenti di dette scolaresche. La stessa scena si ripete per diverse comitive di anziani turisti extra europei.

Dal sestiere di San Marco i miei decidono di fare una puntatina alla zona di Cannaregio. Ci sarà tanto da vedere. Col vaporetto, che sfila diversi metri di cordame da annodare e snodare nei punti dì attracco di ogni fermata, penso di arrivarci in breve tempo. Occupo uno dei posti riservati ai disabili e mi concedo finalmente il lusso di sognare ad occhi aperti attraverso i vetri dell’imbarcazione. Sono comunque sempre pronto a cedere il sedile a qualcuno in condizioni più precarie delle mie. Il mio malanno è la sordità. Non mi lamento d’altro. Gli auricolari fanno quello che possono. L’unico interlocutore è il cellulare. Quando lo interrogo mi risponde sempre per iscritto o per immagini.

Sono ora sul Canal Grande e sto per passare sotto il ponte più in alto della città. Non è la prima volta per me ma le angolazioni che stimolano la mia curiosità sono diverse. In questa occasione sono le finestre a spadroneggiare sulle mie osservazioni. Tante, tante e poi tante, tutte ben distribuite geometricamente sia nei vari livelli di verticalità che nell’accostamento dell’una all’altra lungo le fiancate. Rispondono a stili ben definiti di forma rettangolare, a tutto sesto e a sesto acuto con disposizioni quasi orfane di spazi intermedi tra le medesime.

Finestre, finestre ed ancora finestre egregiamente modellate in arrampicata tra acqua salmastra e cielo. Mi vien da pensare che i veneziani abbiano sempre avuto un debole per esse. Fatto sta che, in ogni dove della mia cameretta lagunare, i disegni facenti capo alle aperture sono distribuiti a profusione dappertutto con pannelli incollati nella porta d’ingresso, nelle ante dell’armadio, dello sgabello e dello scrittoio. Non so chi abbia curato i dipinti originali ma penso che anch’egli abbia avuto gli stessi miei approcci di lettura. Le persiane sono gli unici arredi fatti salvi dai riquadri in fotocopia. Penso che, in caso contrario e per diversi motivi, questi legni di fattura massiccia e secolare, ne avrebbero giustamente sofferto.

È a Cannaregio che i miei hanno scelto di soffermarsi per la pausa pranzo. Per rispettare l’orario concordato con i gestori della trattoria c’è da procedere in tutta fretta. C’è tanto da vedere da queste parti che al centro della zona incastonano il ghetto ebraico più antico del mondo. Ad una signora che incrocio in queste calli poco frequentate dai turisti chiedo ragguagli sulla esatta localizzazione del rettangolo edilizio riservato nel tempo agli ebrei. È così gentile che decide di accompagnarmi sino all’ingresso principale dove una targa affissa sul muro riporta la seguente scritta: Cal del Porton. Del vecchio portale restano solamente i contrafforti e lo stipite mentre dell’intelaiatura in ferro che in passato veniva aperta alla mattina e chiusa alla sera nessuna traccia. Restano comunque in chiara evidenza i fori sui quali si addentavano i neri monconi delle cerniere.

Se fossi a Venezia in compagnia di nessuno non avrei esitato a fare una capatina alle sinagoghe delle comunità ebraiche ancora presenti.

Non me ne vorrà il mio amico Terenzio, che abita una vita a Treviso, ma che nell’infanzia aveva vissuto nel ghetto, se non ho potuto comunicargli per tempo della mia visita in città. Preparato in storia dell’arte, sarebbe stato un’ottima guida per la conoscenza più approfondita del sestiere che ora mi sta ospitando. Sarà per un’altra occasione anche per la visita più completa dei saloni del palazzo ducale, delle antiche prigioni e del passaggio che porta ad esse attraverso il Ponte dei Sospiri. E dell’isolotto della Giudecca, che intravedo non molto distante da Cannaregio, non mancherò di presenziare e di osservare quanto è consentito vedere. Non mancheranno come sempre le motivazioni, le prese d’atto e le valutazioni personali.

 

 

Incontro con scrittori d’alta quota

Il vero incontro con Francesco Vidotto, autorevole penna di alta classifica a livello nazionale, non c’è mai stato, né qui, né altrove. Onorato invece l’appuntamento, già programmato per tempo, con i suoi genitori, Gianni e Angela, vecchie conoscenze nella Conegliano degli anni Sessanta, periodo in cui detta coppia non si era ancora formata. La signora Vidotto, faceva parte da signorina della famiglia Coletti, cognome quest’ultimo riservato dall’anagrafe per il padre Leone e, con titolo acquisito col matrimonio, per la madre Olga.

A quel tempo Francesco non era ancora nato. Doveva attendere la fine degli anni settanta per venire alla luce ed essere invogliato e assecondato da bambino, dal nonno materno, nella cura dei primi passi verso le rampe delle Dolomiti bellunesi. Sono queste le montagne che nella prima decade del Novecento avevano visto nascere a Tai di Cadore la bella figura del signor Coletti. In età matura il nostro Francesco, facendo seguito agli insegnamenti ricevuti dal suo adorabile tato, è riuscito a saldare il suo debito di riconoscenza con dediche rilasciate con garbo in ogni anteprima dei suoi lavori.

Potete verificare voi stessi quanto sto dichiarando in questo servizio bussando col vostro cellulare alla porta di Onesto, il personaggio principe del lavoro che ho appena letto, una persona che ogni giorno indirizzava i suoi messaggi amorosi ai suoi monti con tanto di lettere imbustate ed affrancate, ed altrettanto con le medesime restituite a mezzo posta al mittente. Ho divorato il libro nel giro di due giorni e certamente avrei impiegato un tempo superiore se il mio amore verso le montagne fosse corrisposto appieno.

 

 

Ricordi di montagna

Eppure sono un montanaro anch’io. Con i miei monti che spaziano verso l’alto da un minimo di seicento ad un massimo di millecinquecento metri e con l’abitato che si estende con i suoi quattro rioni in una scalata di un certo impegno, lo scenario è irripetibile in Sardegna. Anche il Lawrence, in Sea and Sardinia, aveva espresso, in una fredda mattina del 1921, il suo apprezzamento per Tonara. Per detta firma, il paese, visto dal fondo della vallata richiamava le immagini di Gerusalemme, nella versione della Nuova città, mentre visto da vicino, si presentava come un luogo molto appetibile per un soggiorno prolungato. Gli sarebbe piaciuto vivere nella casetta posta al limite del belvedere di Sa Discarriga. Ci restò invece per il tempo riservato alla sosta della corriera che lo portava a Nuoro.

I motivi principali che mi inducono a preferire le zone collinari e la pianura sono diversi. In particolare, non vado d’accordo con il freddo, la neve, le salite e le discese. Eppure in gioventù ho raggiunto seppure con una certa apprensione, tutte le vette che in linea d’aria potevo osservare dalle finestre della mia abitazione e quelle che dalle cime del Ghenna ‘e Crecu invitano alla lettura delle pianure del Campidano. Sono salito anche sulle Punte Paolina e la Marmora per osservare la Sardegna dall’alto. Poi, finite le trasmissioni con le scampagnate d’altura, mi sono dovuto accontentare, in prosieguo, di osservare il Monte Cinto, dall’alto verso il basso, con le cinture di sicurezza dei voli di linea Cagliari-Milano. Ho anche fatto la conoscenza di montagne più elevate dove la curiosità mi ha spinto a studiare i movimenti delle marmotte che dalla posizione di attenti scomparivano in buca non appena mi avvicinavo al loro cospetto oppure degli stambecchi che in lontananza, sfidando le leggi della gravità, si sentivano a loro agio nello sfruttare impossibili camminamenti a fil di parete.

In paese abitavo nella contrada denominata una volta Mesuidda, l’equivalente di In mezzo al paese, poi chiamata Via Centrale ed oggi Via Vittorio Emanuele. Gli spostamenti per me avvenivano solitamente per via orizzontale salvo quelli che dovevo fare per raggiungere le scuole elementari e medie, siti questi ubicati nel rione superiore. Sulle strade che portano alla salita per Galusè ci sono passato pochissime volte.

Ad Ovaro, comune montano in provincia di Udine che mi ha ospitato per un anno, ho sempre fatto le mie escursioni a livello zero. Il mio percorso di andata e ritorno interessava solitamente il centro cittadino e la vicina frazione di Chialina mentre, agli altri 12 insediamenti disseminati nella montagna, non ho mai rivolto le mie attenzioni. Per quanto sia bella detta cittadina, a me piace sempre osservarla nelle immagini offerte dal cellulare.

Sul magnus pater che è lo Zoncolan non mi sono mai esercitato. Con la voglia che avevo allora di andare in bicicletta avrei certamente fatto un pensierino ad hoc anche se, per raggiungere la vetta, avrei impiegato tanto tempo. Per riuscire nell’intento avrei dovuto pedalare a zig zag ed inseguire un tracciato simile a quello che viene imposto all’anguilla nell’avvolgimento allo spiedo. Si tu vioz ce mont ai Se tu vedessi quel monte lì si direbbe in dialetto carnico.

I motivi che mi inducono a maggiori riflessioni sui luoghi delle mie origini sono ben altri e risultano ben definiti. A me, in particolare, piace sfilare dalle custodie della mia memoria tutte le tessere che riconducono alla storia delle mie calli. Questo vale per il tempo che corre dal Concilio di Trento ad oggi. È una gran fatica leggere, tradurre e trascrivere letture che sanno di passi scritti in sardo, catalano, castigliano, latino ed italiano. È comunque sempre interessante frugare, quasi con bramosia, negli archivi di stato ed in quelli ecclesiastici. I Quinque libri, ossia I registri di battesimo, cresima, matrimonio, fine vita e stati delle anime, mi hanno tenuto piacevole compagnia per molti anni. Alcuni mesi addietro sono riuscito ad evidenziare contrade che ritenevo non fossero mai esistite. Le elenco per fare un piacere a quanti avessero avuto dei parenti lontani nella frazione di Ilalà, il rione che oggi non esiste più e che nelle rilevazioni di metà Ottocento si attestava sulle duecento unità: Nugerriu, Mesu Iginau, Pratza manna e Pratza ‘e Osso alias Noce di ruscello, In mezzo al vicinato, Piazza grande e Piazza di sotto.

Un certo interesse rilevo sempre per le angolazioni riprese dall’alto dell’abitato. In questa ultima decade di novembre ho visto tetti innevati in una disposizione a rettangoli, quadrati, trapezi e archi di circonferenza, disegni questi evidenziati e regolati da una intelaiatura viaria appena avvertibile. Tetti, tetti ed ancora tetti, molti dei quali sembravano e sembrano custodire, con la loro copertura, gelosamente e segretamente, le orme di chi ha lasciato i casolari per sempre.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Un signore d’altri tempi

Ma ritorniamo adesso alla bella figura di Leone Coletti, padre di Angela e nonno di Francesco, per significare che verso la metà degli anni Sessanta, periodo in cui ho avuto il piacere di conoscerlo, si recava quotidianamente ad Oderzo, cittadina distante da Conegliano una ventina di chilometri, per svolgere compiti di disegnatore di modelli per lavatrici presso la Siemens. Può darsi che il team di cui faceva parte curasse incarichi di progettazione ma sulla specificità del suo lavoro non mi ero mai permesso di chiedere spiegazioni. In effetti, signor Leone, pur parlando poco di sé e delle sue occupazioni, era molto disponibile alla conversazione ed alla soluzione di qualsiasi problema di carattere tecnico. Non disdegnava comunque di fare riferimento alle sue montagne anche se era a conoscenza del fatto che i discorsi sui saliscendi non andavano troppo a genio al sottoscritto. Ricordo che nello studio della sua abitazione si trattavano sempre temi che riguardavano le osservazioni scientifiche. Era per me un uomo di laboratorio che trasmetteva le sue conoscenze ricorrendo alla pratica. I suoi consigli valevano come autentiche lezioni che mi sono servite per curare al meglio i miei insegnamenti nelle scuole medie e superiori. Colgo l’occasione per presentare due esempi che fanno riferimento alla sua preparazione ed alla sua disponibilità verso il prossimo. Col primo di essi mi aveva dimostrato che la dinamo di una bicicletta è un alternatore. Dopo aver collegato lo strumento ad una presa di corrente mi ero accorto del brusio che accompagnava la rotazione della ghiera su sé stessa. La prova era riuscita appieno dimostrando che la trasformazione dell’energia elettrica in energia meccanica non era un fatto casuale. Nella sua spiegazione mi aveva precisato che utilizzando la corrente alternata non poteva che ritrovarsi di fronte ad un alternatore. Risolse il tutto con freddezza e senza far ricorso all’uso di un riduttore di tensione. Mi accorgevo che, ogni volta che mi presentava gli effetti della corrente elettrica, ivi compreso quello chimico, confermava di possedere una conoscenza piena delle leggi che regolano lo studio delle varie unità di misura quali quelle relative all’intensità, alla differenza di potenziale ed alla resistenza. Dello stesso livello la preparazione nelle discipline curate dalla meccanica. Le chiavi di lettura relative allo studio delle forze, del lavoro e della potenza facevano parte del suo patrimonio culturale. In campo matematico riusciva a risolvere con le frazioni qualsiasi problema di primo grado.

Il secondo esempio mi riporta alle raccomandazioni che bonariamente mi rivolgeva sull’uso della macchina: Stia attento agli incroci e dia sempre precedenza a quanti usano le frecce. Più tardi, da pensionato non aveva mancato di informare il nipotino, con i dovuti avvertimenti, dei pericoli che si corrono nell’attraversamento delle strade. Era il Signor Coletti. Un dirimpettaio del condominio di Piazza Calvi a Conegliano.

 

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