Memorie tonaresi in pratza manna

giovedì 10 settembre 2020

Morù

   Per chi scendeva, sessanta anni addietro, lungo gli scoscesi gradoni che da Pratza manna, cuore antico e rappresentativo del rione di Toneri, portavano e portano ancora alla piazzetta di Senti Cocco (alias Vincenzo Cocco), aveva l’opportunità, soffermandosi al limite di detto spiazzo, di inquadrare Morù, l’ultima delle contrade non solo del vicinato ma anche dell’abitato di Tonara.

   Doveroso precisare che detto centro barbaricino risultava diviso in tre distinte frazioni ben distribuite sui fianchi della montagna (Arasulè, Toneri e Teliseri), ognuna delle quali comprendeva diverse contrade.

   Oggi esiste anche una quarta frazione che, sugli sviluppi dei primi insediamenti del secolo scorso, ha acquisito nel tempo una connotazione urbana di notevole spessore. Detto rione, denominato Su Pranu, è decisamente fuori tema rispetto agli altri contesti abitativi sia dal punto di vista edilizio, che da quello paesaggistico e storico. Pur restando un satellite di posizione ancorato sulla terraferma vive sempre della luce riflessa dei suoi vecchi abitatori.

   I materiali che hanno concorso alla edificazione dei nuovi quartieri sono tutti di importazione. Alla calce, ai mattoni, al pietrame, alle tegole ed al legname per i tavolati e le capriate, una volta prodotti in loco, si sono preferiti il calcestruzzo, il ferro, i laterizi, le piastrelle ed i portoncini di marche nazionali.

   Dal punto di vista paesaggistico, il livellamento del terreno difficilmente può garantire al turista di passaggio le profondità tipiche degli scenari collinari o lo sviluppo acrobatico dei punti di fuga presenti negli altri rioni.

   Dal punto di vista storico nulla si può dire di una borgata cresciuta frettolosamente nell’arco degli ultimi cinquanta anni.

   L’area che avrebbe dovuto ospitare questa nuova zona residenziale, fu definita dal Lawrence, durante la sua breve visita del 1921, l’altopiano illuminato d’oro. (1)

   L’impressione che lo spettatore riceveva dall’ultimo avamposto della contrada di Senti Cocco era quella di un presepe vivente incastonato sulla roccia in prossimità dell’avvallamento della rupe di Su Toni.

   Oggi questa visuale è impedita da una costruzione sorta negli ultimi decenni che ostacola di parecchio le migliori letture di Morù.

   Vi è comunque un’altra possibilità per il turista di passaggio di cogliere buone immagini dell’insieme ma le prospettive offerte sembrano, per effetto della distanza, concedere poco alle sfumature, ai dettagli ed alle tonalità cromatiche. Per soddisfare questa esigenza bisognerebbe portarsi verso la zona dei ruderi di Santa Anastasia ma, ripeto, molti presupposti di lettura verrebbero vanificati.

   In ogni modo il quadro proposto dall’avamposto di piazzetta Senti Cocco presentava, a partire da destra verso sinistra, nello spazio di circa centocinquanta passi:

·         un primo gruppo di abitazioni quasi incollate alla parete calcarea della montagna con il fronte occupato da piccole strisce di terra che, adibite alle provviste di legna ed ad altri usi domestici, andavano a radere la strada con delle siepi di confine curate alla bell’e meglio

·         due agglomerati di piccole case con i muri divisori in comune e con i tetti spioventi su un solo versante ben distribuiti ad anello che assicuravano la disposizione di una prima fila lungo la strada principale e di una seconda sul fronte di una lunga teoria di costruzioni incassate sulla roccia

·         una serie di viottoli che dalla strada andavano a raggiungere tutte le singole abitazioni componendosi e scomponendosi nei vari acciottolati della contrada.

   Al disotto della via principale, degli appezzamenti di buona terra andavano a guadagnare un avallamento del terreno denominato Su Acu che al tempo delle piogge riceveva dall’alto le acque di Cracalasi per poi inseguire più in basso gli apporti idrici della sorgente di Morù.

   Al disopra dei tetti delle abitazioni, il fumo dei comignoli non impediva di inquadrare la folta e fitta vegetazione che per larghi spazi sembrava proteggere, oltre che abbellire, l’abitato dalle insidie della lunga parete.

   Quindi, nella successione dal basso verso l’alto, la piazzetta ci consentiva di osservare alcuni fazzoletti di terreno di poche are d’estensione, la strada principale, le casette di prima e seconda fila, i viottoli a forma di scalinata, i tetti delle abitazioni con i comignoli sempre in attività e la folta vegetazione con i ciuffi sbuffanti verso gli anfratti e le spigolosità di un tacco roccioso che nella sua severità ed imponenza poteva permettersi il lusso di sorreggere l’altopiano illuminato d’oro.

   Per chi invece sostava in prossimità del punto medio della via maestra di Morù (105 anime distribuite in 30 famiglie nel censimento del 1829 con prevalenza dei cognomi Toccori e Loche), ad una cinquantina di metri circa dall’avamposto citato, poteva inquadrare di fronte, con lo sguardo rivolto ad oriente, buona parte del vicinato di Toneri (718 anime, 192 famiglie; con prevalenza degli Zucca, Sulis e Cocco).

   In particolare, partendo da sinistra verso destra si poteva focalizzare l’attenzione sulle contrade di:

  • Cracalasi-Catzolaghedu (le anime censite nel citato anno sono 135, le famiglie 35 mentre i cognomi più rappresentativi dal punto di vista numerico sono quelli degli Zucca e dei Garau),
  •  Cortzò (10 anime e 4 famiglie con maggiore rappresentanza degli Zucca e dei Mameli),
  • Barigau (77 anime e 19 famiglie con maggioranza dei Loche e dei Sulis),
  •  Pratza Senti Cocco (26 anime e 6 famiglie; Mura ed Urru)
  •  Cartutzè (37 anime e 12 famiglie; Urru e Poddie).

   Nascoste nella parte alta della frazione si succedevano le contrade di

  • Pratza de is Garaus (89 anime e 23 famiglie; Dearca e Carboni),
  •  Pratza manna (56 anime e 15 famiglie; Floris e Porru),
  •  Maria Abrà de susu (104 anime e 25 famiglie; Cocco e Sulis)

   e nella parte bassa quelle di

  • Maria Abrà de osso (35 anime e 11 famiglie; Pruneddu e Todde) e di
  • Pratza de is Zuccas (44 anime e 12 famiglie; Zucca ed Urru). (2)

   Il tutto sembrava una borgata in caduta libera verso la minuscola piazza di Senti Cocco e le rovine di Santa Anastasia.

   Cima Fais, il punto in cui sorge il sole, era occultata dalle contrade superiori di Toneri. Alla destra, al disotto delle ultime case di Cartutzè, era ben visibile il rudere della vecchia parrocchiale di Santa Anastasia. In alto alla chiesa sconsacrata il crinale dei monti chiudeva questo magico scenario fatto di casette di fango e di  tetti d’argilla in continua rincorsa verso il fondovalle.

   Questo era il lato paesaggistico offerto nel passato dalla contrada in questione. Per ciò che riguardava il lato umano devo mettere in discussione la fontana a più bocche di Morù.

   Specie d’estate, durante le vacanze estive, era un punto di ritrovo di notevole richiamo per bambini, giovani ed anziani.

   Quante spanciate d’acqua, ad onor del vero non tanto buona, mi sono concesso da giovanissimo presso quella fonte. Né badavo e né avevo il tempo di badare alle dicerie che quell’acqua facesse diventare matti o che producesse il gozzo. Era così notevole la portata di quelle sorgenti che ti saziavi in pochi attimi.

   Più lunga l’attesa per i conduttori di asini e cavalli i quali dovevano pazientare a lungo prima che gli animali trovassero il momento adatto per soddisfare la loro sete. Talvolta bastava un nonnulla, un movimento involontario da parte di chicchessia o il più semplice dei brusii, che i quadrupedi abbandonassero la vasca di decantazione e riprendessero la loro strada.

   Di donne, inginocchiate su ristretti spazi fatti di pietre levigate e di rivoli copiosi, intente a mettere in ammollo, sciacquare e strizzare i panni del loro bucato, ne vedevi sempre un numero discreto. Le portatrici d’acqua costituivano spesso delle brevi processioni che si ripetevano in continuazione per l’intero arco della giornata lungo le varie vie del vicinato.

    Sembra di sentirle quando facevano richiesta di un aiuto alle comari di turno per il giusto posizionamento del cercine tra la brocca ed il capo. Stesso discorso valeva per livellare il mastello del bucato sulla cervice. Aggiudaiemi omare a m’assentare sa brocca in pitzu ‘e su tedile oppure a m’assentare s’ischiu.

   Non mancavano di onorare i servizi alla fonte gli ortolani che quotidianamente prestavano il loro servizio nei piccoli appezzamenti a ridosso delle aree di Itzì o di Nugepasca né rinunciavano alla sosta rinfrescante quanti risalivano assetati dai noccioleti di Erisia o da quelli del fondovalle. In un lungo elenco di proprietà terriere inserito in un dispaccio inviato da Domenico Martini, viceparroco di Tonara per molti decenni dell’Ottocento, ad Antonio Tore, vescovo di Ales, sono segnalati gli orti e gli ortolani della Toneri del 1829. Is ortos de Funtana sono trentasei. (3)

   Tutto questo si sviluppava intorno alla fonte di Morù.

   Annare a Funtana era l’espressione tipica di chi intendeva raggiungere detta sorgente. Era sufficiente fare cenno al solo appellativo per riconoscere il sito in questione. Nei discorsi tra madre e figlio valevano al riguardo le seguenti espressioni che, nella impostazione grammaticale, ricordano molto da vicino la costruzione inglese:

   (Madre) Eninno sese? (venendo stai?)

   (Figlio) Aue ses’annanno? (Dove si deve andare?)

   (Madre) A Funtana. Alla fonte.

   (Figlio) Seo eninno (Sto venendo).

   Nonostante detta fonte costituisse il perno più importante e determinante delle correnti di traffico dell’intero vicinato di Toneri, non bisogna sminuire la vitalità espressa dalla contrada di Morù all’interno dei propri quartieri. Sessanta anni addietro era proprio un presepio vivente fatto di personaggi intenti a cucire e ricucire i loro propositi quotidiani mentre la strada principale sembrava scandire il tempo a quanti andavano o rientravano dalla fonte, dagli orti, dalla campagna o dagli altri vicinati. E c’era spazio anche per gli anziani che a fatica ed a passo lento, per via degli acciacchi, tiravano a campare sperando in un domani migliore.

   In un fermo immagine del 1955 il fotografo è riuscito a rappresentare un aspetto paesaggistico della Morù di ieri. In particolare i dettagli inquadrano un tratto della via principale, l’unica fontanella pubblica, una scalinata che si impenna verso l’alto e quattro o cinque casette con gli architravi e gli stipiti delle aperture tinteggiati di color bianco sporco e con i tetti a spiovere da un solo versante. Lungo strada, tra il fontanile e la scalinata, una ragazza in costume incita con una piccola frusta un asinello a procedere più spedito. Sulla groppa dell’animale, due sacchetti semipieni di mercanzia lasciano intravedere le estremità inferiori della sella. Al disopra dei tetti una fitta vegetazione cresciuta a fil di parete sullo strapiombo di Su Toni sembra fungere da bambagia al quadro pittorico del passato. Chiudono lo scenario le ombre a perpendicolo generate dai corpi inanimati e da quelli in movimento.

   Deve trattarsi di un’istantanea curata a fine mattinata durante il periodo estivo. Impossibile accreditare la ripresa fotografica ad orari serali in quanto il sole di pomeriggio, nell’atto di congedarsi da dietro la rupe, genera ombre sempre più estese verso oriente. Non dimentichiamo che l’esposizione della contrada è molto infelice. Le abitazioni che guardano a mezzogiorno sono in numero ridotto.

   Case di fango curate con molta fatica e con molto sudore. Pavimenti in terra battuta al piano terreno e tavolati per il piano superiore. Sino ad una quarantina di anni fa un patrimonio edilizio ancora integro, incontaminato, fatto di facciate di antica malta, di balconi in ferro battuto, di tetti in tegole caserecce e di comignoli sempre in attività.

   A Morù sono stato di passaggio tante volte, soprattutto d’estate. Questo accadeva quando dovevo raggiungere un orticello di poche are di superficie o fare visita a terreni lontani.

   Raramente avevo la possibilità di aggirarmi all’interno della contrada. Mi capitava talvolta, intorno agli anni cinquanta, di seguire la radiocronaca delle partite di calcio in casa di Francesco Carboni, allora mugnaio di professione, uno dei pochi abbonati alla radio. Ancora prima, ai tempi del grande Torino, i servizi radiofonici venivano seguiti da dietro le grate della finestra della caserma di Via Monsignor Tore. Il più delle volte ci dovevamo accontentare di commentare i risultati all’indomani degli avvenimenti sportivi.

   La sua abitazione era una delle poche costruzioni esposte a mezzogiorno e come tale godeva dei benefici elioterapici per l’intera giornata. Tanto negli esterni quanto negli interni ricalcava il disegno delle economie delle altre dimore della contrada. Una piccola scala conduceva al piano superiore dove i genitori, entrambi nati alla fine dell’ottocento, accoglievano gli ospiti, con molto garbo. Ricordo che il padrone di casa si lamentava spesso dei postumi da congelamento subiti sul fronte carsico. Il toccasana era dato da ampie fasciature che la moglie amorevolmente gli avvolgeva attorno alle estremità inferiori.

   A fine partita avevo l’opportunità di traguardare la via principale inseguendo altri viottoli, altri acciottolati, altri percorsi dove le giocatrici di carte, ben distribuite in numero di tre o quattro attorno a dei grandi canestri, all’imboccatura dei vari usci, formavano diverse formazioni.

   Dappertutto bambini, giovani ed anziani. Gli animali erano rappresentati in maggior parte dalle galline. Vivacità nei primi, spensieratezza nei secondi, saggezza nei terzi e stupidità e goffaggine nei rari voli radenti dei pesanti pennuti.

   Che poesia ripercorrere mentalmente le strade di una volta. La modernità ed il progresso hanno imposto altri materiali, altri movimenti architettonici, altre pennellate. Peccato! Resta comunque la magia espressa dall’antico borgo incassato ai piedi della montagna in custodia di pochi abitatori e per giunta molto anziani.

   Da qualche semestre è venuto a mancare anche Francesco. Dalla sua contrada era partito in cerca di migliori fortune intorno agli anni sessanta per farvi ritorno da anziano. Negli anni in cui il Cagliari militava in serie C parteggiava per i colori del Milan. Non so se nel tempo abbia cambiato idea. Quando lavorava di mazzetta e scalpello sui palmenti del mulino di Sa Discarriga non trovava di meglio che canticchiare infinite volte la formazione rossonera (Buffon, Sivestri, Bonomi…). Io facevo tifo per la Juventus. Ancor prima ero stato di fede torinese, del grande Torino.

   La sua casa oggi è vuota come lo è la maggior parte delle altre abitazioni della contrada.

   Quando ripasso da queste parti, nel vedere case sventrate, tetti pericolanti, ballatoi in stato di precarietà, pergole con le impalcature traballanti, percorsi accidentati, incuria ed abbandono un po’ dappertutto, avverto quasi la colpa di non aver mai tentato di porre alcun rimedio. Purtroppo la mia diagnosi arriva con molto ritardo. Non ho con me medicine da pronto soccorso né per lunghe degenze. E’ un discorso in perdita il mio. Non porta da nessuna parte. Per giunta sono anziano anch’io.

   Una settantina di metri più in alto, al disopra di una verticale su cui inerpicarsi è sempre stato proibitivo, c’è l’altopiano d’oro. Per arrivarci bisogna aggirare l’ostacolo puntando a sinistra verso un inghiottitoio molto tortuoso e ripido denominato Titoni oppure risalendo sulla destra i percorsi accidentati e scoscesi di Craccalasi e Catzolaghedu.

   A Su Pranu i tonaresi commerciano campanacci, torrone ed altri prodotti. Commercerebbero anche il tempo se fosse possibile, contrariamente a quanto succede a Morù dove questo ultimo articolo resta avvitato allo zero assoluto da molti decenni.

   I pochi abitatori, come ho già precisato, viaggiano intorno ad età proibitive. I giovani, oggi in età matura, curano i loro interessi in terre lontane. Non so se qualcuno faccia rientro per le ferie alla piccola borgata. Molto probabilmente ripiegherà in qualche alloggio dell’altopiano illuminato d’oro.

   Quando da giovanissimo percorrevo questi isolati la vita si perpetuava in mille attenzioni ed in altrettante direzioni. Non immaginavo che la contrada coll’andar del tempo ne avrebbe sofferto tantissimo.

   Ciononostante il vero monile di questo percorso ad anello, che nella parte superiore ci presenta il rione commerciale, è Morù. E’ un gioiello splendente di propria luce cadenzata secondo geometrie di grande peso, non di luce riflessa. Vincente nelle sue prospettive e nei suoi punti di fuga, maestoso nella immobilità dei suoi saliscendi e delle sue calli che invitano a cento ingressi ed ineguagliabile ed incomparabile nel suo guscio caratteristico ostentato ai piedi della montagna. L’unico segno di movimento è dato dall’acqua delle sue sorgenti. E non è cosa da poco. Finché c’è acqua c’è vita.

   Oggi Morù è un museo a cielo aperto.

   Rimane viva la storia della contrada nella memoria degli anziani e soprattutto in quella raccontata dagli archivi ecclesiastici e notarili. Una storia fatta di piccole cose, di pochi segreti e di tante testimonianze che nella loro semplicità sorprendono anche i lettori d’immagine più esigenti e più scrupolosi.

   Note

1)      Vedi Mare e Sardegna di D. H. Lawrence.

2)      Vedi Status animarum 1829 di Tonara nel Fondo Quinque libri dell’Archivio diocesano di Oristano. Per maggiori approfondimenti si rinvia il lettore al fascicolo primo del volume quinto della collana Memorie tonaresi.

3)      Vedi le dovute segnalazioni in Archivio diocesano di Ales alla voce Monsignor Tore. Per migliori ragguagli si rimanda alle pagg.180 e seguenti del vol.1° della collana Memorie tonaresi.




26.10.2019



Visita nei Balcani



Il programma di viaggio che, in quest'ultima settimana di maggio del 2019, mi vede impegnato nei Balcani prevede in maggioranza percorsi di tipo naturalistico, archeologico e religioso.

Le grandi città, fatta eccezione per Tirana, non fanno parte dell'itinerario. Paesaggi montani, collinari, lacustri e marini si alterneranno in continuazione nei grandi spazi sino a concedersi amorevolmente ai silenzi dei piccoli borghi e delle loro comunità. Sono tutti questi gli ingredienti più appetitosi di quanto viene proposto dalle agenzie di viaggio. 

Un equivalente progetto, non comprendente il passaggio nei grossi centri, potrebbe trovare facile attuazione in Sardegna dove i paesaggi si miscelano elegantemente con gli scenari sonnacchiosi ed arrendevoli dei piccoli borghi. L'Albania rappresenta in questa mia visita il punto di riferimento più importante mentre la Macedonia e la Grecia vanno ad assumere posizioni di secondo piano.

Le emozioni non tarderanno a presentarsi e, come spesso capita, mi accompagneranno, con maggiore o minore intensità, lungo le tappe di questo insolito ed atipico viaggio.

Come l'aeromobile del volo Roma-Tirana smette di rullare ed accenna a spegnere i motori, i viaggiatori, quasi catapultati dai loro seggiolini, scattano all'unisono all'impiedi per cercare di guadagnare una via d'uscita attraverso spazi di corridoio completamente intasati. Resteranno nella posizione di attenti per tempi superiori ai cinque minuti. E' questo, a seguito dell'atterraggio, il comportamento tenuto in ogni aeroporto del pianeta dai viaggiatori. Ai passeggeri che mi stanno di fianco e mi invitano ad alzarmi rispondo sempre garbatamente di pazientare ancora qualche istante. Arrivato il momento giusto per pormi in posizione verticale controllo che i documenti e gli effetti personali siano ben distribuiti nelle diverse tasche dello smanicato e procedo verso l'uscita.

Il breve percorso che mi consegna all'ingresso della piccola aerostazione della capitale mi regala la prima emozione. A suscitare la mia più viva curiosità è il passaggio spedito ed elegante di quattro hostess che, in direzione opposta alla mia ed in perfetto allineamento, procedono verso chissà quale destinazione. Le loro divise sanno di colori giallo-arancione per la casacca e la gonna e scuri per le scarpe a mezzi tacchi. Molto grazioso il cappellino dalla caratteristica conformazione a mezzo uovo e dalle tinte bianco crema. Le vedo di spalle e le inseguo con lo sguardo fino a scomparire all'esterno di una postazione di servizio. Riferisco ad altri del gruppo di cui faccio parte di questa prima istantanea di viaggio ma non riesco a suscitare in nessuno alcun interesse. E' difficile per me spiegarmi a parole. Mi auguro comunque che qualche lettore condivida questo mio innocente messaggio.

La guida che ci terrà compagnia per tutto il viaggio, un albanese della città di Berat, è pronta ad indirizzarci verso il pullman che ci condurrà a Kruja, un centro montano dell'entroterra. L'arrivo nella ridente cittadina è previsto per l'ora di pranzo. Nel pomeriggio avremo modo di far visita al centro storico, al museo ed al castello.

Se girando per il mondo ti capita di incontrare per strada dei giapponesi o cinesi significa che il centro che stai visitando gode di un elevato indice turistico. Il mio paese, pur avendo i requisiti per consegnarsi alla notorietà, non riesce ancora a decollare. Si sta facendo di tutto per attirare l'attenzione degli occhi a mandorla ma il passaparola dei residenti non produce gli effetti sperati.

Qui a Kruja i turisti dell'est asiatico sembrano di casa. Ne vedi un po' dappertutto e, contrariamente a quel che ciascuno di noi pensa, socializzano con molta disponibilità. Ma quanto si divertono le due coppie cinesi a fotografare ed a farsi fotografare nella piattaforma definita sulla sommità del castello in alto alla montagna. Destano persino l'ilarità di quanti siedono nel semicerchio che dà sulla parete edificata a meridione della fortezza, come a teatro dove gli attori stanno sul palcoscenico e gli spettatori di fronte a loro. 

Lungo il tracciato che interessa una delle principali arterie del centro storico, un passaggio obbligato ai soli pedoni, i negozi di souvenir, di articoli di artigianato e di produzione locale si succedono l'uno accanto all'altro destando la curiosità non solo dei turisti dell'estremo oriente ma anche di quelli del continente europeo. Attenzione a dove mettere piedi, avverte la guida. La rruga, così è definita la via in albanese, che corre su una lunghezza di circa un centinaio di metri, si presenta con un acciottolato molto tortuoso ed accidentato. I levigatissimi sampietrini, incassati alla bell'e meglio nella malta cementizia ma sporgenti verso l'alto in direzioni e misure differenti, rappresentano una continua insidia all'incedere dei passanti. E' come se volessimo camminare sul letto all'asciutto di un corso d'acqua interamente ricoperto di detriti fluviali. 

Come questo breve tragitto termina, finisce anche il carosello delle attrazioni esposte al piano terra delle varie abitazioni. Iniziano altri percorsi fatti di serpentine d'asfalto che salgono e scendono lungo paesaggi ammantati del verde dei boschi e della severità delle alte montagne. Non vedo aquile e dubito di poterne avvistare qualcuna nel prosieguo.

I cani invece, come le scimmie in India, sembrano, a mio avviso, i padroni del territorio. Al nostro passaggio uno di questi esemplari, appena soddisfatti i suoi bisogni corporei proprio sulla linea mediana della carreggiata, si ricompone e, con tranquillità ed indifferenza, se ne va per i fatti suoi. E' un cane libero. Ognuno di noi, con una veronica molto significativa, non commenta e procede. 

Siamo nell'entroterra albanese, ripeto. Il mare è ad ovest con acque che dall'Adriatico si concedono allo Ionio, il Kosovo e la Macedonia ad est, il Montenegro a Nord e la Grecia a Sud. La distanza che intercorre tra Taranto e Kruja, precisa il cellulare di uno del gruppo, è di 300 chilometri mentre il canale d'Otranto, il tratto di mare che separa l'Italia dall'Albania, è di appena ottanta.

Dal punto di vista altimetrico, la nazione che ora mi ospita, un territorio con una superficie di circa ventottomila chilometri quadrati, si colloca intorno ad una media di settecento metri, un'altezza pari al doppio di quella europea.

Il secondo giorno di viaggio mi vede impegnato di buon mattino nella piccola sala di ricevimento dell'albergo a definire al meglio con l'accompagnatore qualche dettaglio della lunga trasferta verso Berat, la città adagiata sul fondovalle di una catena di monti che la orlano da più versanti, e il grosso centro marino di Valona.

Di fronte a me due anziane signore, dal portamento distinto e apparentemente riservato, discutono a bassa voce dei loro programmi di viaggio. Sono forse del settentrione d'Italia? Annuiscono alla mia richiesta con un cenno della testa e, con un ampio sorriso confermano di essere del Nord Italia, di Cuneo per l'esattezza. Io preciso di non essere mai stato in detta città anche se ogni anno mi riprometto, nel tempo della raccolta delle castagne e dei funghi, di andare a visitarla. Mi riferiscono tra l'altro della loro amicizia, del loro stato vedovile e della voglia di girare per il mondo. Ad un certo punto una delle due, dopo aver dichiarato di essere originaria della regione Puglia, si alza in piedi ed improvvisa un balletto simile alla tarantella. Buon sangue non mente. Voleva proprio dimostrare di essere meridionale. Io, assecondando il suo desiderio di fare quattro salti, faccio altrettanto. Lo spazio a disposizione è molto ridotto ma ciò non impedisce ai frequentatori dell'albergo di farsi avanti per godersi il minispettacolo offerto dalla minipista della reception. Il gioco si esaurisce in pochi secondi ma la curiosità dei più continua per tempi più lunghi. Stanno ancora accorrendo!

In partenza da Kruja, mentre mi accingo a salire sul pullman, una anziana donna si fa avanti per cercare di vendere alle signore del nostro gruppo un mazzo di fiori secchi, forse essenze, che tiene stretti nella mano sinistra. Per me la sua figura ed il suo portamento valgono un dieci e lode. Un fazzoletto bianco ben disteso sul capo ed annodato sulla nuca ed una corta giacchetta di pochi bottoni, che sottende una gonna lunga sino all'ultimo palmo dei pantaloni, completano con le scarpe il suo vestiario. E' questo il costume indossato in passato dalle donne albanesi. Le tinte scure, eccezione fatta per il fazzoletto, predominano dappertutto. Le molte rughe segnate nel volto definiscono al meglio il quadro di eleganza, di semplicità e di riservatezza rilasciato dalla piccola donna.

Dopo diverse ore di macchina raggiungiamo Berat. E', come abbiamo già riferito, una città adagiata sul fondovalle ma con interessanti fughe dei quartieri antichi sui versanti della montagna e sull'altopiano sul quale ora ci troviamo. I camminamenti che ci permettono di arrivare al punto di ristoro che si trova in fondo ad una lunga discesa, sono tortuosi ed in forte pendenza. Ora, volgendo lo sguardo dal basso verso l'alto, è possibile ammirare le mille finestre delle abitazioni incastonate in punti quasi inaccessibili degli speroni montani. La visita alle moschee ed alle chiese bizantine non è prevista nel programma. Ci si deve accontentare nel primo pomeriggio di una passeggiata lungo le sponde del fiume che divide in due la città e del transito sui ponti dalle caratteristiche arcate. Per disegno e fattura richiamano alla mia memoria il singolare ponte di Monstar in Bosnia. Si continua per Valona dove sono previsti la cena e il pernottamento. 

Nell'attraversamento dei piccoli centri albanesi non può sfuggire, anche al più distratto viaggiatore, la presenza degli alti cumuli di macerie depositati a fianco delle singole abitazioni e dei condomini. In genere si tratta del pietrame calcareo prodotto dallo sbancamento delle aree riservate alla costruzione dei nuovi edifici o anche del materiale ricavato dalla demolizione o ristrutturazione dei medesimi. Normalmente sono delimitati nei cortili e nelle pertinenze private con recinzioni precarie ma spesso fanno la loro apparizione sui bordi delle strade e nell'aperta campagna. Nulla a che vedere, in ogni caso, con le discariche a cielo aperto di rifiuti di altro genere.

E' un paese di montagne e di montanari, di allevamenti e di allevatori, di emigrazione e di migranti. Eccellenti i prodotti forniti dal bestiame caprino. Il basso reddito pro-capite induce i giovani ad espatriare. Lo stipendio medio di un insegnante non supera i quattrocento euro. In compenso il costo della vita non è elevato. Per un chilo di ciliegie ho speso in un mercato rionale soli due euro mentre per un abbondante piatto di jogurt servito al tavolino un solo euro. Per le stanze d'albergo si spende dai venti ai cinquanta euro mentre per una suite il prezzo è di appena sessanta euro. E' quanto mi risulta dalla lettura dei prezzi esposti nella reception di un hotel. Per un caffè si spende quanto in Italia. Il prezzo è elevato in quanto detto bevanda non è di largo consumo in Albania. Una vera pacchia per i pensionati europei. 

Una delle più importanti risorse del paese è data dalle rimesse degli emigrati, dai prodotti della terra e dal turismo. La conoscenza dell'italiano, dell'inglese e di alcune lingue slave favorisce alquanto le prestazioni culturali degli albanesi. Sette su dieci conoscono la nostra lingua. Il livello di preparazione e l'intelligenza dei singoli fanno il resto. Nei concorsi a livello internazionale le graduatorie presentano spesso ai primi posti i giovani d'Oltre Adriatico.

Il terzo giorno di viaggio prevede, con partenza in mattinata da Valona, la sosta pomeridiana nella cittadina di Saranda e nel sito archeologico di Butrinto e l'arrivo in serata a Giannina in Grecia.

Saranda è un centro privo di piano regolatore. Il far da sé nel settore edilizio da parte di chicchessia penalizza notevolmente il concetto di estetica urbana. Si salva con un bel dieci e lode il bellissimo parco di Butrinto con i resti del teatro romano, dell'agorà, delle terme e del battistero di epoca bizantina. Il sito in questione è dichiarato dall'Unesco Patrimonio mondiale dell'Umanità.

Al mattino successivo, dopo una breve passeggiata nella ridente cittadina di Giannina, si parte per Kalambaka, il centro della Tessaglia che ospita le Meteore ossia gli imponenti massi basaltici con dei monasteri sulla sommità. Sono numerosi questi monoliti che svettano nel cielo con forme approssimativamente cilindriche, prismatiche e tronco coniche. Per quanto riguarda l'altezza posso indicare ad occhio e croce delle dimensioni varianti dai cento ai trecento metri mentre per quanto riguarda la base superiore, ossia l'area sulla quale i monaci hanno edificato i loro monasteri, delle superfici varianti dai trenta ai seicento metri quadrati. Per poterne visitare qualcuno bisogna inseguire dal basso i numerosi scalini scavati nella roccia oppure ricorrere ai suggestivi e arditi ponti che, svicolando nel vuoto, ti accompagnano, senza correre alcun pericolo, quasi in dirittura d'arrivo. I monaci e le monache, distribuiti rispettivamente in conventi maschili e femminili, esercitano le loro funzioni pregando, lavorando e cantando. Ai turisti, che soprattutto d'estate affollano questi luoghi di preghiera, sono consentite le visite solo in determinati spazi. Il legame dei religiosi con il mondo esterno è assicurato, per quanto riguarda le vettovaglie, dall'impiego di enormi ceste che, attraverso l'uso di funi e di argani di struttura lignea, effettuano il movimento di andata e ritorno agendo sulla verticale dei corpi sospesi nel vuoto.

Passeggiando nei momenti liberi per Kalambaka mi diverto spesso a decifrare i messaggi della pubblicità o il significato delle insegne di certi negozi avvalendomi al riguardo della conoscenza di molte lettere maiuscole e minuscole dell'alfabeto greco e soprattutto dell'osservazione e dell'esame degli articoli esposti all'interno delle rivendite. Spesso, pur non avendo compiuto studi umanistici, riesco a cogliere dei risultati positivi. 

Il pernottamento è fissato in un albergo che assicura ad ogni cliente la possibilità di vedere dalla propria camera una vista panoramica sulle Meteore.

Il quinto ed il sesto giorno sono riservati alla visita della Macedonia del Nord. Le città interessate dal nostro viaggio sono quelle di Bitola ed Ocrida. Dappertutto il paesaggio ti offre luoghi incontaminati, campi coltivati, serre e centrali elettriche. Nei villaggi le case singole e binate si succedono con piccoli appezzamenti di terreno coltivati ad ortaglie. I tetti, in maggioranza ricoperti di tegole di tipo marsigliese si configurano negli spioventi con linee geometriche di tipo rettangolare, triangolare e trapezoidale. Rara, nei pressi delle abitazioni o sul lungo strada, la presenza di cumuli di macerie o di piccole discariche. 

Spesso, durante queste escursioni abbiamo modo di incontrare i partecipanti di un secondo gruppo di turisti che, pilotati dalla stessa agenzia, inseguono per filo e per segno i nostri stessi programmi di viaggio.

Li rivediamo quindi a pranzo, a cena e durante la visita ai vari siti di tipo archeologico, religioso e naturalistico ma non condividiamo lo stesso mezzo di trasporto. Questi turisti di età matura del Nord Italia, lombardi e valdostani in maggioranza, hanno modo di simpatizzare con noi ricorrendo spesso ai rituali convenevoli di incitamento dei sardi. Per loro noi siamo il gruppo degli aiò ed aiò sta per andiamo. Chissà quante volte i fanti della Brigata Sassari avranno fatto riferimento nella grande guerra a questo motto! 

A Bitola è prevista una breve sosta al sito archeologico con in primo piano il teatro, le terme ed i bellissimi mosaici a cielo aperto mentre ad Ocrida è in programma una interessante gita in battello sul lago omonimo.

In questo secondo giorno in terra macedone trovo molto distensivo godermi una mattinata all'aria aperta standomene a bordo di una imbarcazione che per i più freddolosi offre un sottocoperta con comodi posti orientati verso ampie finestre scorrevoli mentre per i restanti viaggiatori un ponte da condividere in parte con i quattro venti ed in parte con il piacevole riparo dal sole e dalla pioggia dei lunghi tendoni srotolati al disopra delle fiancate del bastimento. 

Io trovo buona posizione sulla tolda del natante in una delle tante seggiole libere di prua. In tutto, ben distribuiti nelle parti superiori ed inferiori dello scafo, saremo una sessantina. Il via vai di quanti salgono e scendono le piccole scale del natante per guadagnare i posti migliori per le loro inquadrature fotografiche è così frenetico ed incessante da impedire una giusta conta dei viaggiatori. 

Cielo terso con sole non dardeggiante, temperatura piacevole e ridente vegetazione di macchia mediterranea e di conifere che si proietta con eleganza dall'alto delle montagne verso le rive del grande lago, sembrano invitare ogni gitante ad esprimere un giudizio sullo scenario che lo circonda. A quella ventina di passeggeri che sostano a prua con me sulla tolda della imbarcazione chiedo, ricorrendo a semplici gesti delle mani, di esprimere un voto. Eccezione fatta per due signore anziane del Nord Europa che non capiscono la mimica del mio linguaggio, forse fraintesa ed interpretata come una richiesta di denaro, l'approvazione dei restanti comporta il massimo della votazione. 

Nel pomeriggio, durante un giro di perlustrazione nei recinti interni di un monastero, ho la gradita sorpresa di vedere alcuni pavoni che con molta spontaneità accettano di farsi fotografare senza spazientirsi più di tanto. I loro numeri vanno dalla apertura e chiusura a ventaglio della classica ruota, all'ostentamento del loro piumaggio e all'esibizione canora dei loro versi ad onore del vero sgraziati. Non mi era mai capitato di vedere questi gallinacei così da vicino. Dal mio tentativo rivolto ad un pavone bianco dalle penne ben raccolte posteriormente a mo' di lunga scopa non riesco ad ottenere i risultati sperati di una esibizione. Alle mie insistenze risponde paupulando e cambiando continuamente direzione.

Una bella passeggiata nell'arteria principale, la cena al ristorante ed il pernottamento in hotel, consentono al gruppo di cui faccio parte di porre fine a questo breve itinerario in Macedonia. 

Tirana ci accoglie nell'ultimo giorno di viaggio all'ora di pranzo. E' una città che con i suoi sobborghi conta più di un milione di abitanti. Dal punto di vista economico e culturale è decisamente proiettata nel futuro con ampi margini di crescita e di miglioramento. Il lungo viale, per buona parte alberato, che porta dalla piazza del museo alla zona dei grattacieli è un eloquente invito ad una distensiva ed interessante passeggiata. In questo percorso fatto di spazi che si concedono a stili architettonici sempre più avveniristici non può sfuggire, neanche al più sprovveduto visitatore, la testimonianza offerta da alcuni reperti bellici del passato. Ben ancorati nel terreno di un'aiuola dei giardini pubblici fanno bella mostra di sé una parete del muro di Berlino, circa due metri per la base e tre per l'altezza, ed un bunker del diametro di due metri. Ad Oristano, la città in cui risiedo, è visibile, sul lungo strada che dal ponte sul Tirso porta alla Basilica del Rimedio, un fortino di ampie dimensioni. Di fortificazioni di questo tipo ne ho visto ben poche in Sardegna. La guida albanese riferisce che il numero di queste costruzioni in cemento armato è di centosettantamila. Può sembrare strano, commenta il cicerone, ma questi enormi ed immobili ratti dagli occhi neri, alla pari di quelli edificati lungo la linea Maginot in Francia, non sono mai serviti a niente.

All'imbrunire, come mi accingo a scendere dal pullman per recarmi al ristorante ho la sgradita sorpresa di incontrarmi con tre o quattro ragazzini che con incalzante ostinazione chiedono soldi ad oltranza. Visto l'insuccesso delle loro richieste si avvinghiano al mio corpo e quasi mi immobilizzano. Mi ritrovo come nei panni di Laocoonte. Ben conscio del fatto che qualche mio movimento improprio, come ad esempio uno strattone, potrebbe farmi passare dalla ragione al torto, resto per qualche attimo inerme fino a che alcuni passeggeri non provvedono a liberarmi da quelle strette inopportune.

Si cambia storia qualche metro più avanti con il quadretto offerto da un conducente che, lampeggiando in continuazione i potenti fari del suo mezzo, cerca di trovare nelle vicinanze un parcheggio impossibile. Io non m'intendo di macchine né di motori, ma certamente si sarà trattato di una macchina di gran lusso. I modelli in circolazione in Italia, a qualsiasi cilindrata appartengano, vagano per me nell'anonimato. Io non guido una automobile dal 1972, esattamente dal giorno in cui, con partenza da Conegliano, accompagnai mio padre, un combattente della Grande Guerra, a Vittorio Veneto. 

Il volo Tirana-Roma è pronto per l'imbarco dei passeggeri. All'arrivo nella città eterna, non appena il velivolo avrà spento i motori, i viaggiatori non si faranno pregare più di tanto per schizzare all'impiedi all'unisono. Lo stesso comportamento sarà tenuto, come di consueto, al termine della tratta aerea Roma-Cagliari. 




Dalla Barbagia di Ollolai alle Alpi Dinariche 
Vacanze ai confini dell'immaginario 
 Visita nella Barbagia di Ollolai 

 Dopo aver girato in lungo e in largo per l’intera mattinata di ieri nei caratteristici paesi di Olzai, Gavoi ed Ollolai e nel pomeriggio quelli di Mamoiada, Fonni e Lodine mi ritrovo dopo tanti anni ad Ovodda in casa di parenti.. Mi sento stanco ma veramente appagato di essere riuscito a completare in così breve tempo il mio itinerario nella Barbagia di Ollolai. Delle comunità citate, Ovodda è l’unica ad appartenere, contrariamente ai centri citati che ne facevano parte nei secoli addietro, alla diocesi arborense. Passo subito ad elencare le principali differenze tra la Barbagia Superiore, dove ora mi trovo, e la Barbagia Centrale della quale ho già presentato precedentemente brevi segnalazioni. Il manto vegetativo. Tra le cupolifere, che si distribuiscono con una certa regolarità nell’ampio territorio, costituito da montagne tozze e granitiche e da caratteristici fondivalle, si apprezza, rispetto ai castagneti, una maggiore presenza di querceti. Fonni, Ollolai, paesi che godono nell’isola della maggiore altimetria, sono adagiati su altopiani non tanto estesi mentre i restanti, fatta eccezione per Lodine, sembrano appollaiati sui declivi di vaste falde collinari. La cultura dell’ovile. Raramente, durante questa mia visita, mi è capitato di osservare greggi al pascolo ma le informazioni raccolta tra la gente precisano che la vocazione per gli allevamenti ovini è notevole e che la produzione dei latticini è abbondante e di buona qualità. Il formaggio di Gavoi è conosciuto dappertutto, anche all’estero. A Marktplatz, la piazza del mercato della città di Basilea, per acquistarne un chilo devi sborsare cento franchi svizzeri, l’equivalente di sessantacinque euro. E’ un’esagerazione ma non per le tasche di certi buongustai elvetici. La cultura del vestiario. E’ una linea di tendenza molto marcata quella che va ad interessare il mercato del vestiario e delle calzature. Un po’ tutti fanno sfoggio di abiti di velluto e di scarponi di buona tenuta. Abilissimi operatori del panno e del cuoio accontentano a fatica i clienti del luogo e quelli dei centri vicini. Il materiale usato in edilizia. Le abitazioni, al pari delle costruzioni degli antichi nuragici, sono nella maggior parte edificate in granito a vista. Il dialetto. Notevoli le differenze nel lessico ed in campo fonetico. Alla asprezza dei suoni, spesso duri ed aspirati, si contrappone un vocabolario non sempre abbordabile. Ciò che mi stupisce è che loro non fanno alcuna fatica a capire gli altri dialetti. Per chi assiste per la prima volta ai loro dialoghi è portato a pensare che siano afflitti da continue convulsioni. Ogni qualvolta ricorrano all’uso delle consonanti ci o effe devono giocoforza sollecitare gli organo della glottide e del diaframma. Qualcosa del genere succede quando si tossisce. Lo stupore cessa quando devono comunicare in lingua italiana. In tal caso la dizione è perfetta. Ancora sul dialetto. Hachere dal latino facere è un verbo molto ricorrente nella parlata di questi territori. Tanto per accennare a qualche comparazione con i dialetti che in Sardegna vanno per la maggiore preciso che in quello campidanese, utilizzato dal settanta per cento degli isolani, il corrispondente di fare è fai, mentre nella variante logudorese, ad uso di una percentuale inferiore al trenta per cento, è faghere. Alla partenza da questi distretti un tale mi ha augurato buone feste con Hae bonas *estas. In quel dittongo di hae e nella iniziale di estas si sottendono convulsioni a ripetizione di un certo effetto. Che dire poi dell’iato presente nell’espressione andare a *Ampidanu (andare nel Campidano) e curato efficacemente con il solito ricorso agli organi della laringe, diaframma e glottide. Su mare nostu. Fa bella mostra di sé in tutto il comprensorio la bella distesa d’acqua nel bacino artificiale del lago Gusana a Gavoi. Qualcuno dei locali ha perfino coniato l’espressione ad effetto Su mare nostu. I francesi che passano da queste parti si trovano a loro agio soprattutto nella lettura dei nomi dei paesi di questo dipartimento. Guai a contraddirli quando pronunciano Ollolè per Ollolai, Olsè per Olzai, Gavuà (Gavuà sur le lac) per Gavoi né cambiano intonazione quando in Costa Smeralda leggono Palò per Palau. Passando agli apprezzamenti di parte tedesca sui paesaggi e sugli usi e costumi di queste popolazioni, mi è capitato di sentire spesso l’aggettivo wunderbard, l’equivalente di wonderful di fede inglese. Di questa forma di compiacimento ne ho preso atto nella discussione con due anziane rappresentanti del Regno Unito. Il carnevale di Ovodda. Il top dei festeggiamenti è curato nel Mercoledì delle Ceneri. In tale centro non sembra che vengano dissacrati né il Carnevale né la Quaresima. Lo spopolamento. A soffrirne maggiormente è il centro di Olzai, quindi a seguire Mamoiada, Ollolai, Fonni, Gavoi ed Ovodda. Lodine con il suo tasso decennale dello 0,88 per cento è in crescita. Si può affermare che nel quarantennio che corre dal 1951 al 1991 la sua popolazione è aumentata del 3,52 per cento . Le altre comunità hanno fatto registrare nell’ordine questi tassi decennali :9,43 per la prima che è Olzai, 4,55 per la seconda, 3,78 per la terza, 2,94 per la quarta, 2,89 per la quinta e 1,68 per l’ultima, rappresentata da Ovodda. Sarà sufficiente moltiplicare per quattro per avere le percentuali di perdita subite nel periodo preso in considerazione. L’ospitalità. L’ospite è sacro ma a patto che vengano rispettate le regole del gioco: rispetto per la gente, per le montagne, per le acque, per le sagre, per la privacy, per il dialetto e per tutte le storie fatte di mulini, di gualchiere, di sortilegi, di tzilleris, di tzillonargios, di balli, di maschere (tumbarinos e mamuthones), di colori, di sapori, di canti, di nenie, di albe chiare e di tramonti targati Barbagia di Ollolai. La Croazia Da qualche anno va di moda visitare i litorali orientali del mare Adriatico ed i loro entroterra. Mi riferisco in particolare alle vaste regioni della ex Iugoslavia che oggi, nazioni autonome, hanno il nome di Bosnia Erzegovina, Croazia e Slovenia. Ricorrendo ad una similitudine forse un po' azzardata potrei rappresentare l'insieme con il volto di una donna (la Bosnia) che, con la capigliatura (la Croazia) ed un cappellino stile anni trenta (la Slovenia), raffigura nell'ordine le tre unità etniche. Ad onor del vero per completare la folta chioma é necessario fare ricorso ad un'altra nazione: la repubblica Srpska, un territorio, non ancora riconosciuto dagli altri stati, che funge da cuscinetto tra la Bosnia e la Serbia ad est e tra la Bosnia e il Montenegro a sud. Con la lettura dell'espressione suor Pasqua, senza far uso delle prime quattro vocali, si potrebbe tentare di pronunciare la curiosa denominazione. Sono molto ricorrenti nelle lingue slave i termini onomatopeici. Dall'utilizzo del termine Krvat, che significa croato, in Francia, nel periodo in cui una rappresentanza di soldati slavi, il cosiddetto reggimento Royal-Cravate, prestava servizio alla corte di Luigi XIV, con l'uniforme valorizzata dal caratteristico foulard, venne coniata nel 1651 la parola cravate, e per derivazione il corrispondente italiano di cravatta. In fatto di pronuncia, a complicare le cose, intervengono anche gli accenti il cui uso genera ulteriori problemi in campo fonetico. In particolare quello circonflesso, volgarmente chiamato dai triestini pipetta, come riferisce Giuliano, lo sloveno di Capo d'Istria, l'autista del mezzo del nostro gruppo, é sempre rappresentato nella scrittura in caduta libera con l'angolo rivolto verso il basso. Sul volto di donna richiamato dalla similitudine due grandi occhi tristi contrassegnano le città di Saraievo e Monstar nella Bosnia Erzegovina. Zagabria e Bagna Luca, capitali nell'ordine della Croazia e della repubblica di fatto della Srpka, sembrano essere rappresentate da coccarde pendenti dal cappellino mentre lungo i capelli fluenti, in corrispondenza del mare Adriatico, esplodono per luminosità e bellezza diverse città care alla nostra storia: Fiume, Zara, Sebenico, Spalato e Dubrovnik. Una precisazione: non cercare arenili da queste parti, non raccoglierai un secchio di sabbia in tutto il litorale croato, un percorso lungo quanto la distanza che corre da Bari a Venezia. Per quanti raggiungono l'ultima località slava direttamente dal mare, la città appare in un contesto di pietra, cui si aggiunge altra pietra, quella bianchissima e levigatissima trasportata dall'isola di Corzula, il particolare materiale lapideo che modella strade, chiese, monumenti e fortificazioni dell'antica Ragusa, l'odierna Dubrovnik. Le Alpi Dinariche di questo estremo lembo della Croazia, quasi al confine con il Montenegro, incastonano tra cielo e mare, tra rocce ed isolotti, un gioiello di rara purezza rappresentato da una fortezza medievale che affonda a guisa di stella marina i suoi bracci principali sui fondali acquatici sino a raggiungere l'antistante isolotto di Lacroma e si adagia dolcemente con i restanti appigli sui dorsali della montagna. Le costruzioni della nuova città e l'avveniristico ponte sospeso nell'aria sembrano cedere voluttuosamente alla possente stretta operata dai giganteschi tentacoli. Uno dei due piloni che sostengono la lunga campata di 512 metri soggiace al gioco dei momenti di forze che agiscono sui trentasei tiranti d'acciaio. Qualcosa di impressionante e di spettacolare. Quasi una fotocopia in formato ridotto del famoso ponte di Patrasso in Grecia. Ma queste sono cose che i croati, facendo finta di non sapere, non riferiranno mai. Il corpo del grande asteroide, definendo nei suoi perimetri esterni, costituiti da alti bastioni, torri e camminamenti, un percorso di circa due chilometri, inscrive nel suo interno una fitta rete di strade, vie, viuzze e scalinate su cui si affacciano monumenti, luoghi di culto, musei, edifici storici, case private, negozi, piccoli ristoranti e punti di ritrovo. Il panorama umano è offerto dal caldo abbraccio di una marea di anime che, in ogni momento della giornata, calca la pietra bianca di Corzula, una delle 1200 isole croate adagiate sul mare. Risalendo la costa adriatica sono obbligatorie le soste a Spalato, a Sebenico e a Zara. In quest'ultima città, ricca di storia, di romanità e di fede, alle dieci del mattino di lunedì sette agosto circa duecento fedeli assistono alla messa: 170 zaratine e 30 zaratini. Alte quelle, altissimi questi fra i quali alcuni, impettiti come delle stalagmiti animate, superano abbondantemente i due metri. La disposizione sotto la navata centrale del duomo di San Donato é regolata da due bancate di circa venti banchi ciascuna. Celebrante e credenti partecipano ai vari momenti liturgici con fede e convinzione. La nostra visita alle opere d'arte esposte nelle navate laterali non sembra infastidirli più di tanto. Nei locali interni del monastero di clausura della città le monache custodiscono con molta cura i più bei reliquari ecclesiastici. E' un patrimonio di notevole spessore storico e culturale tutto da vedere ma non da fotografare. A guardia degli oggetti preziosi sono le stesse religiose ben distribuite nelle varie sale del percorso museale. Le mantellate, statuarie per imponenza, immobili nel loro raccoglimento mistico, ieratiche nel portamento, sono veramente alte. Se socchiudi gli occhi ti sembra di inquadrare delle monofore gotiche. L'ampia veste di colore nero che le ricopre dalla testa ai piedi mette in risalto l'ampia fasciatura bianca che avvolge strettamente buona parte del viso. E' vietato fotografare ma se mi fosse permesso riserverei qualche scatto per loro. A Nin, sempre sulla costa, si trova la più piccola cattedrale del mondo. La sua superficie, compresi i muri esterni non supera gli ottanta metri quadri. A Buccari non manca l'occasione per ricollegarti alla beffa dannunziana mentre a Fiume hai modo di rivedere quello che rappresentava il vecchio confine tra Italia e Iugoslavia. Bella Fiume, aristocratica Abbazia, ma ancora più maestoso il ponte in pietra costruito dagli austriaci a monte delle due città. In alto il celebre santuario dedicato alla Madonna di Tersatto. La Croazia inoltre ha la fortuna di gestire a nord, nella regione della Licca, una vasta distesa di acqua lacustre. Gli ottanta ettari di superficie, distribuiti in una decina di laghetti comunicanti tra di loro e disposti in diversi livelli assicurano con le loro cascate e con i percorsi da sogno all'ombra di alte conifere un rilassante svago per chiunque. Per capire al meglio la flora di questo ambiente paradisiaco bisognerebbe poter contare sull’assistenza di qualche botanico. Le donne del nostro gruppo non sembrano soffrire più di tanto per la mancanza di tale figura. Fra di esse vi è chi riesce ad individuare un grande ciuffo di vischio sopra un salice e chi, quasi in colpa per non averlo riconosciuto prima, si ripaga individuando questo curioso emiparassita sui rami generosi di una ombrellifera. Cartelli espressi in diverse lingue segnalano lungo i vari specchi lacustri i rispettivi indici di altimetria, di profondità, di superficie e di dislivello. E' già tanto per chi desidera determinare i tempi e le velocità d'impatto dell'acqua nei vari salti. Ai piedi dell'ultimo punto di osservazione, dal quale la regione della Licca si congeda dalla vista del trasognato turista con una cascata di 78 metri, altri cartelli segnalano l'importanza della formazione del tufo calcareo che, sedimentandosi sui margini estremi dei vari bacini, favorisce, a spese dell'ossigeno fissato dall'acqua nella sua caduta libera e dei sali minerali presenti nelle rocce, il perpetuarsi dell'autodifesa di queste suggestivi laghetti. Prima del saluto definitivo hai ancora il tempo, con il naso rivolto all'insù, per osservare l'acqua che si distende e si scompone in mille rivoli. Se riuscirai a rendere compagnia ad uno soltanto di essi durante la sua caduta libera ti riterrai fortunato. Provaci. Io non ci sono riuscito. Ti ricordo che la durata dell'esperimento é molto limitata. Appena quattro secondi. Devi ancora raggiungere Zagabria per completare la tua visita in Croazia ma ne vale la pena. Ordinata nelle sue strade e nei suoi stili giace all'interno di una conca su cui si srotolano dall'alto dei monti le zone residenziali. Il barocco e il gotico la fanno da padrone mentre l'art nouveau é dichiarata in tutta la sua solennità in uno degli angoli più caratteristici della città: il cimitero. E qui le macchine fotografiche fanno il loro servizio incessantemente. La partecipazione dei residenti alle varie attività di culto è notevole. Sotto le ampie navate della cattedrale gotica i fedeli sono veramente tanti, anzi tantissimi. La Bosnia Erzegovina Procedendo geograficamente verso il basso, per poter raggiungere Saraievo devi prima attraversare la repubblica di fatto della Srpska con capitale Bagna Luca e quindi buona parte della Bosnia, ma, per poter arrivare a destinazione dovrai superare un centinaio di chilometri di strettissime e profondissime gole. La capitale somiglia tanto a Zagabria. Muoio dal desiderio di vedere il punto esatto in cui fu assassinato l'arciduca Ferdinando d'Austria ma quando mi accorgo che i tempi di esposizione della guida bosniaca non sono ben correlati a quelli della velocità del mezzo di trasporto é già troppo tardi in quanto il ponte che ricorda l'eccidio é già lontano di parecchio dietro le mie spalle. In cambio l'accompagnatore preferisce addentrarsi in particolari che riguardano la presentazione delle chiese bizantine e delle moschee. Cito con A) e B) alcune chicche che non mitigano minimamente l'insofferenza e la rabbia patite per il disguido citato in precedenza. A) Gli ottomani che in passato, avevano l'abitudine di visitare gli interni delle chiese ortodosse con i loro cavalli, si videro costretti ad abbandonare la loro vecchia abitudine dal momento in cui i cristiani provvidero ad abbassare gli ingressi principali ad altezze molto al disotto del garrese dei destrieri. B) La ragione principale per cui i musulmani sgranano molto velocemente i loro rosari, che io, per comodità espressiva, indico con il termine di attributari, é dovuta al fatto che le preghiere rivolte al loro dio, che altro non é che il dio di tutte le etnie, sono costituite da semplici attributi quali onnipotente, onnipresente, onnisciente e così via. In tutto novantanove aggettivi per novantanove grani. Oltre é Monstar con il suo famoso ponte di pietra bianca affiancato da numerose casette dai tetti d'ardesia. Nelle immediate vicinanze le ferite delle ultime lotte fratricide testimoniano ai visitatori lo spettacolo irreale ed irriverente offerto dalla guerra. Da queste parti sono segnalate da sempre forti tensioni tra questi e codesti, tra codesti e quelli e tra questi e quelli. Ci amiamo, ci odiamo e siamo comunque contenti di vivere nello stesso territorio avverte la guida bosniaca. I cristiani cattolici nelle loro chiese cattoliche, i cristiani ortodossi in quelle bizantine ed i musulmani nelle loro moschee spesso sono accomunati nell'ultima dimora nello stesso cimitero. Le tombe dei cattolici al contrario di quelle riservate agli ortodossi sono sempre omaggiate dai fiori mentre quelle dei musulmani sono contrassegnate da una coppia di cippi disposti alla testa ed ai piedi della sepoltura. Grandi fiumi inseguono le strettissime gole tra le montagne per poi aprirsi a dismisura in corrispondenza delle pianure. Pochi sono i paesi al mondo che hanno la fortuna di capitalizzare per il futuro un bene così tanto prezioso. La Slovenia A settentrione, a monte della regione dei laghi croati, é la Slovenia, ammantata dal verde dei suoi prati e dalla bellezza delle sue abitazioni. Sembra la continuazione dell'Austria, ma gli abitanti preferiscono presentarsi come svizzeri. Le più belle perle di questa nazione sono la sua capitale, Lubiana, dove lo stile liberty é presente un po' dappertutto e la cittadina di Postumia con le sue famose grotte. Ciò che mi colpisce di più é la presenza del piccolo abitatore delle caverne: il proteo. Lo puoi osservare mentre nuota pigramente nella piccola vasca d'acqua messa a disposizione dei visitatori, ignaro del fatto che circa seicentomila persone annualmente gli dedicano uno sguardo. Tredicimila in un solo giorno di quest'anno, un record. Ma l'anfibio é per natura cieco e non può ricambiare le attenzioni verso nessuno. Ha altre cose a cui pensare, soprattutto a non mangiare. La sua dieta può continuare per circa dodici anni. Beato lui precisa un signore di mezza età dall'indice di massa corporea molto elevato. Il turismo rappresenta la maggior fonte di guadagno ma notevoli contributi sono offerti dal settore informatico e dall'industria del legname. Altra città notevole è Nova Gorica che con Gorizia condivide la presenza del reticolato e delle dogane. Al di qua é la Slovenia e al di là é l'Italia. Al di qua la benzina costa 238, 9 talleri (un euro vale 240 talleri) al di là molto di più. Rapporti ottimi tra confinanti. Il rientro in Italia Al Marco Polo di Venezia, l'areoporto che i veneti chiamano bonariamente nel loro dialetto Marco Poeo, siamo nuovamente in Italia a governare le nostre miserie umane con gli euro mentre lasciamo definitivamente agli sloveni i loro talleri, ai croati le loro kune ed ai bosniaci i loro marchi convertiti. L'addetto alle operazioni d'imbarco, accorgendosi che il nostro gruppo é reduce dai luoghi di fede di Megiugori e di Tersatto, ci invita a ricordarlo nelle nostre preghiere. Poi sentenzia: Siamo all'inizio della fine del mondo. Quando meno te l'aspetti incontri sempre qualcuno pronto a dichiarare pubblicamente la sua fede e i suoi tristi presagi. Ringraziamenti In chiusura è doveroso ricordare il contributo offerto - da Adriana, la nostra accompagnatrice fiumana, per la sua bravura, le sue conoscenze e l'alto senso di umanità, - dalla efficace, ma per me sbadata, guida bosniaca, - dalla piccola ed esile signora ragusana che, in tempi ridottissimi, doveva offrirti le bellezze della sua città di Dubrovnik, - dalla signorina di Spalato che, con consumata esperienza e con modi molto eleganti e garbati ti presentava la Roma di Diocleziano e la bellezza dei vari musei e monumenti ed infine - dalla guida zaratina che con competenza e molto savoir faire soddisfaceva puntualmente a tutte le domande che le venivano poste. Un ringraziamento particolare é dovuto infine a monsignor Italo Schirra, parroco di San Giuseppe in Oristano, l'organizzatore principale di questa interessante vacanza ai confini dell'immaginario.