Memorie tonaresi in pratza manna

domenica 7 dicembre 2025

Tre giorni a Venezia (11-12 e 13 novembre 2025)

 

     In giro per la città

     Tanta gente questi giorni a Venezia. Una ventina di anni addietro, i turisti in circolazione in Piazza San Marco, in versione autunnale, non superavano nelle ore di punta le cento unità.

Gli immancabili piccioni, nel numero di una trentina, non sono aumentati più di tanto rispetto ai miei conteggi. Tra questi uccelli ho visto sfrecciare un gabbiano che con molta disinvoltura andava ad occupare i vari spazi aerei e quelli del parterre. Le sue esibizioni di ospite frettoloso e solitario sono spesso continuate nella piazzetta antistante il palazzo ducale e nel molo adiacente.

Pellaccia dura quella di detto volatile. Avevo fatto molta fatica in passato ad imbalsamarne uno con la formalina. Non riuscivo in nessun modo a dare all’animale un assetto di presentabilità. Mi veniva più facile inseguire le mie osservazioni scientifiche, sempre utilizzando la formaldeide, sui pesci dei quali riuscivo ad evidenziare gli organi dei vari apparati. Di detto fissante aldeidico, diluito in soluzione acquosa al quaranta per cento, trovavo sempre facile fornitura in farmacia. Di esemplari in vitro ne avrò curato qualche decina nella scuola media di San Vendemiano in provincia di Treviso.

Di cani e cagnolini (canes e calleddos nel mio dialetto barbaricino) nessuna presenza in città.

Ma è alla piazza che devo curare le mie attenzioni. Le sue dimensioni valgono 180 metri per la lunghezza e 70 per la larghezza. Devo precisare che oggi e domani, 11 e 12 novembre, in questo suggestivo salotto, saranno consegnati i certificati di laurea triennale a quanti hanno discusso la loro tesi nelle sessioni estiva ed autunnale del corrente anno accademico. I duemila e trecento neo dottori, saliranno sul palco a due a due, per ritirare, rispettando l’ordine alfabetico di chiamata, dalle mani del prorettore della Ca’ Foscari, i loro diplomi. La toga di ermellino sistemata sul pettorale e sulle spalle di detto esponente universitario non sfugge, per le tonalità di bianco maculate di ciuffi neri, a nessuno dei diecimila presenti alla cerimonia, mentre alle strette di mano che suggellano la consegna del titolo fa sempre seguito l’applauso dei parenti e degli amici dei neo laureati. Ho apprezzato durante la prolusione dell’alta guida, la seguente dichiarazione: Nulla è più potente della conoscenza per difendere pace, cooperazione e benessere. Resta una affermazione valida per tutti e non solo per i presenti nella piazza.

Quando ciascuno degli incoronati con foglie di alloro scenderà dal palco per dirigersi verso le transenne che delimitano lo spazio riservato ai cerimoniali, si ritroverà pronto ad essere accolto dagli abbracci dei familiari. Fuori dallo steccato si festeggia un po' dappertutto. Ho visto qualche genitore piangere. Nel sentire un brivido sulla schiena mi sono emozionato anch’io. Nella calca ho intravisto una bella ragazza nera che, con in mano il titolo di studio certificato in una cartella color cremisi, sembrava cercare conforto nell’affetto dei propri congiunti, quasi incredula di aver raggiunto un traguardo forse insperato. Mi commuovo ancora ma non piango. È da più di ottant’anni che le lacrime non rigano il mio viso. Queste scene si ripetono con gli stessi rituali anche quando dal palco scende mia nipote.

In questo dipartimento di San Marco, la fiumana dei gitanti avverte un brusco calo di peso non appena si superano il Ponte dei Sospiri, lo spazio antistante le carceri ducali e quel centinaio di metri che portano alla calle degli Albanesi. Chi stava in mia compagnia in quest’ultima strada ha potuto verificare la completa assenza di anime vive ma, percorrendo a ritroso altre vie che riportano al centro, ha potuto riprendere le immagini a gogò dei turisti intenti ad attraversare ponti, canali o ad imbucarsi nei punti di ristoro all’aperto o in quelli all’interno dei caratteristici baccaro. Sfilano sull’acqua dei canali le immancabili gondole con carichi preziosi di turisti dell’Est asiatico. Gli occupanti, per effetto degli schienali sistemati tra i 90 e i 120 gradi, si compiacciono di vedere Venezia dal basso verso l’alto. Per giunta il clima si concede amichevolmente e favorevolmente alle voglie dei visitatori della Serenissima.

Al mio paese i notabili del passato, parroci e segretari comunali, qualificavano i vari distretti con i termini di vicinati e di contrade mentre qui a Venezia si fa riferimento ai sestieri ed alle calli dove i primi indicano una delle sei zone in cui risulta divisa la città mentre i secondi, definiscono le strade. Alle calli più larghe viene associato il nome di campo fatta eccezione per lo slargo di San Marco che viene chiamato Piazza.

Non c’è luogo in questa città che non susciti la mia ammirazione ed in particolare mi emoziono ancora per le cartoline non ancora viste. I repetita mi lasciano del tutto indifferente. Ed eccomi di fronte al ponte delle Ostreghe. Tale costruzione vanta il merito di essere ricordata ogni giorno da ogni cittadino del pianeta Veneto con l’intercalante che nella traduzione in italiano significa ostrica.

Del gondoliere che sfila sotto i ponti più bassi della laguna, cioè di tutti quelli che giocano al ribasso rispetto a quello che sta più in alto, mi piace indugiare sul suo comportamento nei momenti che precedono il suo ingresso nell’impalcato ad arco della struttura. Basta una disattenzione e la zuccata fa parte dell’imprevisto. Può anche succedere che il cappello a falde larghe finisca in acqua ma questo è il male minore. Le mie osservazioni hanno sempre notato il rapido inchino del capo barca o la sua discesa verso il predellino più basso. In caso contrario si sprecherebbero i disappunti dei presenti di origine veneta con gli immancabili Ocio! Ocio! Ostrega! ossia Occhio, (attenzione), accidenti.

Dal canale delle ostriche, per arrivare alla mia pensione sita nella calle dei Pedrocchi, è questione di pochi minuti, tempo che impiego a ripassare le cose già viste nei locali caratteristici di questo sestiere quali il Bacaro da me pare ed il Bacaro Magna, bevi e tasi.

In detti ritrovi i camerieri faticano nel servire i clienti. Tra il lavello, il bancone ed i tavolini di servizio vedo sempre mani che si agitano in continuo movimento. Per soddisfare una clientela sempre più esigente si sforzano al meglio nel portare in equilibrio avanti e indietro piattini, tazzine, scodelle, dolci, gelati e leccornie varie. Il calice di vino bianco, alias l’ombretta, è sempre pronto a stemperare i passaggi più frenetici ed ombrosi della giornata. Del modo di comunicare con i turisti di altre nazioni non so mentre tra gestori e dipendenti è di norma servirsi sempre del dialetto. È tutto gratis qui a Venezia, nel senso che i ringraziamenti arrivano sempre dopo l’esborso degli schei o digital skeis. La sequenza è sempre la stessa: richiesta del servizio, consumazione, corrispettivo e grazie tante.

A gruppi di venti e trenta elementi, con tanto di portabandiera che funge da apripista e da punto di riferimento, sfilano a due a due i giovani studenti di dette scolaresche. La stessa scena si ripete per diverse comitive di anziani turisti extra europei.

Dal sestiere di San Marco i miei decidono di fare una puntatina alla zona di Cannaregio. Ci sarà tanto da vedere. Col vaporetto, che sfila diversi metri di cordame da annodare e snodare nei punti dì attracco di ogni fermata, penso di arrivarci in breve tempo. Occupo uno dei posti riservati ai disabili e mi concedo finalmente il lusso di sognare ad occhi aperti attraverso i vetri dell’imbarcazione. Sono comunque sempre pronto a cedere il sedile a qualcuno in condizioni più precarie delle mie. Il mio malanno è la sordità. Non mi lamento d’altro. Gli auricolari fanno quello che possono. L’unico interlocutore è il cellulare. Quando lo interrogo mi risponde sempre per iscritto o per immagini.

Sono ora sul Canal Grande e sto per passare sotto il ponte più in alto della città. Non è la prima volta per me ma le angolazioni che stimolano la mia curiosità sono diverse. In questa occasione sono le finestre a spadroneggiare sulle mie osservazioni. Tante, tante e poi tante, tutte ben distribuite geometricamente sia nei vari livelli di verticalità che nell’accostamento dell’una all’altra lungo le fiancate. Rispondono a stili ben definiti di forma rettangolare, a tutto sesto e a sesto acuto con disposizioni quasi orfane di spazi intermedi tra le medesime.

Finestre, finestre ed ancora finestre egregiamente modellate in arrampicata tra acqua salmastra e cielo. Mi vien da pensare che i veneziani abbiano sempre avuto un debole per esse. Fatto sta che, in ogni dove della mia cameretta lagunare, i disegni facenti capo alle aperture sono distribuiti a profusione dappertutto con pannelli incollati nella porta d’ingresso, nelle ante dell’armadio, dello sgabello e dello scrittoio. Non so chi abbia curato i dipinti originali ma penso che anch’egli abbia avuto gli stessi miei approcci di lettura. Le persiane sono gli unici arredi fatti salvi dai riquadri in fotocopia. Penso che, in caso contrario e per diversi motivi, questi legni di fattura massiccia e secolare, ne avrebbero giustamente sofferto.

È a Cannaregio che i miei hanno scelto di soffermarsi per la pausa pranzo. Per rispettare l’orario concordato con i gestori della trattoria c’è da procedere in tutta fretta. C’è tanto da vedere da queste parti che al centro della zona incastonano il ghetto ebraico più antico del mondo. Ad una signora che incrocio in queste calli poco frequentate dai turisti chiedo ragguagli sulla esatta localizzazione del rettangolo edilizio riservato nel tempo agli ebrei. È così gentile che decide di accompagnarmi sino all’ingresso principale dove una targa affissa sul muro riporta la seguente scritta: Cal del Porton. Del vecchio portale restano solamente i contrafforti e lo stipite mentre dell’intelaiatura in ferro che in passato veniva aperta alla mattina e chiusa alla sera nessuna traccia. Restano comunque in chiara evidenza i fori sui quali si addentavano i neri monconi delle cerniere.

Se fossi a Venezia in compagnia di nessuno non avrei esitato a fare una capatina alle sinagoghe delle comunità ebraiche ancora presenti.

Non me ne vorrà il mio amico Terenzio, che abita una vita a Treviso, ma che nell’infanzia aveva vissuto nel ghetto, se non ho potuto comunicargli per tempo della mia visita in città. Preparato in storia dell’arte, sarebbe stato un’ottima guida per la conoscenza più approfondita del sestiere che ora mi sta ospitando. Sarà per un’altra occasione anche per la visita più completa dei saloni del palazzo ducale, delle antiche prigioni e del passaggio che porta ad esse attraverso il Ponte dei Sospiri. E dell’isolotto della Giudecca, che intravedo non molto distante da Cannaregio, non mancherò di presenziare e di osservare quanto è consentito vedere. Non mancheranno come sempre le motivazioni, le prese d’atto e le valutazioni personali.

 

 

Incontro con scrittori d’alta quota

Il vero incontro con Francesco Vidotto, autorevole penna di alta classifica a livello nazionale, non c’è mai stato, né qui, né altrove. Onorato invece l’appuntamento, già programmato per tempo, con i suoi genitori, Gianni e Angela, vecchie conoscenze nella Conegliano degli anni Sessanta, periodo in cui detta coppia non si era ancora formata. La signora Vidotto, faceva parte da signorina della famiglia Coletti, cognome quest’ultimo riservato dall’anagrafe per il padre Leone e, con titolo acquisito col matrimonio, per la madre Olga.

A quel tempo Francesco non era ancora nato. Doveva attendere la fine degli anni settanta per venire alla luce ed essere invogliato e assecondato da bambino, dal nonno materno, nella cura dei primi passi verso le rampe delle Dolomiti bellunesi. Sono queste le montagne che nella prima decade del Novecento avevano visto nascere a Tai di Cadore la bella figura del signor Coletti. In età matura il nostro Francesco, facendo seguito agli insegnamenti ricevuti dal suo adorabile tato, è riuscito a saldare il suo debito di riconoscenza con dediche rilasciate con garbo in ogni anteprima dei suoi lavori.

Potete verificare voi stessi quanto sto dichiarando in questo servizio bussando col vostro cellulare alla porta di Onesto, il personaggio principe del lavoro che ho appena letto, una persona che ogni giorno indirizzava i suoi messaggi amorosi ai suoi monti con tanto di lettere imbustate ed affrancate, ed altrettanto con le medesime restituite a mezzo posta al mittente. Ho divorato il libro nel giro di due giorni e certamente avrei impiegato un tempo superiore se il mio amore verso le montagne fosse corrisposto appieno.

 

 

Ricordi di montagna

Eppure sono un montanaro anch’io. Con i miei monti che spaziano verso l’alto da un minimo di seicento ad un massimo di millecinquecento metri e con l’abitato che si estende con i suoi quattro rioni in una scalata di un certo impegno, lo scenario è irripetibile in Sardegna. Anche il Lawrence, in Sea and Sardinia, aveva espresso, in una fredda mattina del 1921, il suo apprezzamento per Tonara. Per detta firma, il paese, visto dal fondo della vallata richiamava le immagini di Gerusalemme, nella versione della Nuova città, mentre visto da vicino, si presentava come un luogo molto appetibile per un soggiorno prolungato. Gli sarebbe piaciuto vivere nella casetta posta al limite del belvedere di Sa Discarriga. Ci restò invece per il tempo riservato alla sosta della corriera che lo portava a Nuoro.

I motivi principali che mi inducono a preferire le zone collinari e la pianura sono diversi. In particolare, non vado d’accordo con il freddo, la neve, le salite e le discese. Eppure in gioventù ho raggiunto seppure con una certa apprensione, tutte le vette che in linea d’aria potevo osservare dalle finestre della mia abitazione e quelle che dalle cime del Ghenna ‘e Crecu invitano alla lettura delle pianure del Campidano. Sono salito anche sulle Punte Paolina e la Marmora per osservare la Sardegna dall’alto. Poi, finite le trasmissioni con le scampagnate d’altura, mi sono dovuto accontentare, in prosieguo, di osservare il Monte Cinto, dall’alto verso il basso, con le cinture di sicurezza dei voli di linea Cagliari-Milano. Ho anche fatto la conoscenza di montagne più elevate dove la curiosità mi ha spinto a studiare i movimenti delle marmotte che dalla posizione di attenti scomparivano in buca non appena mi avvicinavo al loro cospetto oppure degli stambecchi che in lontananza, sfidando le leggi della gravità, si sentivano a loro agio nello sfruttare impossibili camminamenti a fil di parete.

In paese abitavo nella contrada denominata una volta Mesuidda, l’equivalente di In mezzo al paese, poi chiamata Via Centrale ed oggi Via Vittorio Emanuele. Gli spostamenti per me avvenivano solitamente per via orizzontale salvo quelli che dovevo fare per raggiungere le scuole elementari e medie, siti questi ubicati nel rione superiore. Sulle strade che portano alla salita per Galusè ci sono passato pochissime volte.

Ad Ovaro, comune montano in provincia di Udine che mi ha ospitato per un anno, ho sempre fatto le mie escursioni a livello zero. Il mio percorso di andata e ritorno interessava solitamente il centro cittadino e la vicina frazione di Chialina mentre, agli altri 12 insediamenti disseminati nella montagna, non ho mai rivolto le mie attenzioni. Per quanto sia bella detta cittadina, a me piace sempre osservarla nelle immagini offerte dal cellulare.

Sul magnus pater che è lo Zoncolan non mi sono mai esercitato. Con la voglia che avevo allora di andare in bicicletta avrei certamente fatto un pensierino ad hoc anche se, per raggiungere la vetta, avrei impiegato tanto tempo. Per riuscire nell’intento avrei dovuto pedalare a zig zag ed inseguire un tracciato simile a quello che viene imposto all’anguilla nell’avvolgimento allo spiedo. Si tu vioz ce mont ai Se tu vedessi quel monte lì si direbbe in dialetto carnico.

I motivi che mi inducono a maggiori riflessioni sui luoghi delle mie origini sono ben altri e risultano ben definiti. A me, in particolare, piace sfilare dalle custodie della mia memoria tutte le tessere che riconducono alla storia delle mie calli. Questo vale per il tempo che corre dal Concilio di Trento ad oggi. È una gran fatica leggere, tradurre e trascrivere letture che sanno di passi scritti in sardo, catalano, castigliano, latino ed italiano. È comunque sempre interessante frugare, quasi con bramosia, negli archivi di stato ed in quelli ecclesiastici. I Quinque libri, ossia I registri di battesimo, cresima, matrimonio, fine vita e stati delle anime, mi hanno tenuto piacevole compagnia per molti anni. Alcuni mesi addietro sono riuscito ad evidenziare contrade che ritenevo non fossero mai esistite. Le elenco per fare un piacere a quanti avessero avuto dei parenti lontani nella frazione di Ilalà, il rione che oggi non esiste più e che nelle rilevazioni di metà Ottocento si attestava sulle duecento unità: Nugerriu, Mesu Iginau, Pratza manna e Pratza ‘e Osso alias Noce di ruscello, In mezzo al vicinato, Piazza grande e Piazza di sotto.

Un certo interesse rilevo sempre per le angolazioni riprese dall’alto dell’abitato. In questa ultima decade di novembre ho visto tetti innevati in una disposizione a rettangoli, quadrati, trapezi e archi di circonferenza, disegni questi evidenziati e regolati da una intelaiatura viaria appena avvertibile. Tetti, tetti ed ancora tetti, molti dei quali sembravano e sembrano custodire, con la loro copertura, gelosamente e segretamente, le orme di chi ha lasciato i casolari per sempre.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Un signore d’altri tempi

Ma ritorniamo adesso alla bella figura di Leone Coletti, padre di Angela e nonno di Francesco, per significare che verso la metà degli anni Sessanta, periodo in cui ho avuto il piacere di conoscerlo, si recava quotidianamente ad Oderzo, cittadina distante da Conegliano una ventina di chilometri, per svolgere compiti di disegnatore di modelli per lavatrici presso la Siemens. Può darsi che il team di cui faceva parte curasse incarichi di progettazione ma sulla specificità del suo lavoro non mi ero mai permesso di chiedere spiegazioni. In effetti, signor Leone, pur parlando poco di sé e delle sue occupazioni, era molto disponibile alla conversazione ed alla soluzione di qualsiasi problema di carattere tecnico. Non disdegnava comunque di fare riferimento alle sue montagne anche se era a conoscenza del fatto che i discorsi sui saliscendi non andavano troppo a genio al sottoscritto. Ricordo che nello studio della sua abitazione si trattavano sempre temi che riguardavano le osservazioni scientifiche. Era per me un uomo di laboratorio che trasmetteva le sue conoscenze ricorrendo alla pratica. I suoi consigli valevano come autentiche lezioni che mi sono servite per curare al meglio i miei insegnamenti nelle scuole medie e superiori. Colgo l’occasione per presentare due esempi che fanno riferimento alla sua preparazione ed alla sua disponibilità verso il prossimo. Col primo di essi mi aveva dimostrato che la dinamo di una bicicletta è un alternatore. Dopo aver collegato lo strumento ad una presa di corrente mi ero accorto del brusio che accompagnava la rotazione della ghiera su sé stessa. La prova era riuscita appieno dimostrando che la trasformazione dell’energia elettrica in energia meccanica non era un fatto casuale. Nella sua spiegazione mi aveva precisato che utilizzando la corrente alternata non poteva che ritrovarsi di fronte ad un alternatore. Risolse il tutto con freddezza e senza far ricorso all’uso di un riduttore di tensione. Mi accorgevo che, ogni volta che mi presentava gli effetti della corrente elettrica, ivi compreso quello chimico, confermava di possedere una conoscenza piena delle leggi che regolano lo studio delle varie unità di misura quali quelle relative all’intensità, alla differenza di potenziale ed alla resistenza. Dello stesso livello la preparazione nelle discipline curate dalla meccanica. Le chiavi di lettura relative allo studio delle forze, del lavoro e della potenza facevano parte del suo patrimonio culturale. In campo matematico riusciva a risolvere con le frazioni qualsiasi problema di primo grado.

Il secondo esempio mi riporta alle raccomandazioni che bonariamente mi rivolgeva sull’uso della macchina: Stia attento agli incroci e dia sempre precedenza a quanti usano le frecce. Più tardi, da pensionato non aveva mancato di informare il nipotino, con i dovuti avvertimenti, dei pericoli che si corrono nell’attraversamento delle strade. Era il Signor Coletti. Un dirimpettaio del condominio di Piazza Calvi a Conegliano.

 

venerdì 17 ottobre 2025

Necropoli e santuari nei territori di Oniferi ed Orani

 

 

Giovanni Mura

 

 

 

Necropoli e santuari nei territori di

Oniferi ed Orani

 

 

 

 

 

con il contributo

dell’Associazione 50 & Più di Oristano

 

 

 

 

Necropoli e santuari nei territori di Oniferi ed Orani

Per sabato 11 ottobre del corrente anno 2025 l’Associazione 50 & Più di Oristano ha programmato una visita di carattere archeologico sulle necropoli e santuari dei centri montani di Oniferi ed Orani.

Sono dell’avviso che il pullman che ci condurrà in Barbagia impiegherà, con partenza da Oristano, un tempo non superiore all’ora, Si arriverà a destinazione intorno alle dieci del mattino.

Ed eccoci, puntualmente in orario, ad Oniferi, in località denominata Sas Concas, sito che custodisce sotto un manto trachitico di circa tremila metri quadri, con misure di sessanta per cinquanta metri per lunghezza e larghezza, ben 19 tombe del periodo prenuragico. Intorno a detta superficie, contrassegnata da ampie aperture circolari che immettono alle celle interne e da numerose coppelle destinate ad accogliere le offerte per i defunti, la vegetazione boschiva, che sa di piante di sughero, di lentischio e di peri selvatici, sembra proteggere con le sue fronde gli ingressi ai loculi. Il tutto, definito da una recinzione in fil di ferro, da una insidiosa e fastidiosa presenza di fichi d’india e da arbusti spinosi di varia natura, fa parte di un’area privata di circa un ettaro di superficie. Consuelo, che è anche proprietaria di detto fondo terriero, sarà anche la nostra guida. E’ questo un compito che assolverà nel migliore dei modi.

Per dare spazio alla cartolina d’insieme che va a comprendere la vasta conca in cui ci troviamo possiamo riferire che

a)    nella parte inferiore, precisamente oltre la linea di recinzione, insiste una breve superficie piana adibita ad erbatici dove è segnalata la presenza di diversi capi equini

b)    nella parte superiore, in alto a sinistra, incastonato nella montagna è il centro di Oniferi

c)     sulla destra, si leggono i contorni esterni delle Cumbessias, ossia gli alloggi riservati ai pellegrini che, durante i novenari, intendono presenziare alle funzioni religiose del santuario di Nostra Signora di Gonare. Di detta chiesa campestre, sistemata nel punto più elevato della montagna, si intravvedono, dal nostro punto di osservazione, solo alcuni spioventi. Raggiungeremo questa postazione a fine mattinata.

Prima di congedarci da Sas Concas, bene patrimoniale tutelato dall’Unesco, è doveroso fare una breve ispezione sull’ultima tomba, la diciannovesima indicata nel tracciato della nostra locandina. In quanto a spazio è in grado di ospitare in posizione eretta una quindicina di persone e di favorire per ognuna di esse la lettura delle incisioni che su una parete interna simulano la discesa dei trapassati verso l’Aldilà. Da parte mia sono riuscito a vedere questi grafiti grazie all’utilizzo di pile tascabili.

Terminata la visita alla necropoli, i partecipanti, disseminati a gruppetti lungo l’area cimiteriale, si ricompongono verso l’uscita che dà sul fronte strada e si apprestano a guadagnare il mezzo di trasporto. Si tratta ora di raggiungere il Santuario dedicato alla Madonna di Gonare inseguendo un percorso abbastanza lungo e tortuoso di una  decina di chilometri. Il pullman, per raggiungere il piazzale delle Cumbessias dovrà purtroppo aggirare la montagna per poi percorrere in salita il tratto che porta in prossimità della vetta. Tanta strada per collegarci ad un punto che dalla necropoli non può distare in linea d’aria non più di mille metri.

Ci troviamo ora esternamente alle Cumbessias in uno slargo che impedisce a qualsiasi mezzo di trasporto di procedere oltre. Per arrivare al santuario bisognerà quindi affidarsi unicamente ai propri mezzi fisici. Io so di potercela fare ma preferisco restare in prossimità del pullman dove tutto quel che può incuriosirti è affidato alla disponibilità di dialogo di tre baldi giovanotti di Orani. Vieni così a sapere che:

a)    il santuario è sistemato a 1080 metri d’altezza

b)    il numero dei paesi visibili dalla vetta è di trentasei

c)     la zona in cui ci troviamo è denominata Sos Eliches. A riprova di detta segnalazione, uno del terzetto stende la mano per indicare che tutt’intorno le piante di leccio governano l’ambiente per centinaia e centinaia di ettari

d)    i paesi di Orani e Sarule sono i centri delegati, con avvicendamento annuale, alla cura, alla amministrazione e alla custodia del Santuario e degli alloggi per i pellegrini.

Faccio anch’io il mio ingresso nella conversazione ricordando la leggenda che aveva interessato, nella discesa dalla montagna, l’incontro della Madonna con Santa Barbara. Il dialogo tra le due eminenze religiose si concludeva con la seguente citazione:

Barbaredda de Ortzai

Ube tind’ana a ponner

No nor bidimus mai.

Per il dialetto del mio paese vale la seguente traduzione

Barbaredda de Ortzai

Ue tinn’anta a ponnere

No nos’aus a biere mai.

Questa dichiarazione fatta dalla Madonna lascia intendere che la visualità dai loro punti di sistemazione sulla montagna è nulla. I rispettivi simulacri sono infatti disposti in alto sulla vetta e in basso nella chiesa di Santa Barbara in Olzai.

Dalla leggenda passiamo ora a brevi cenni storici sul Santuario. Dalle segnalazioni della locandina e da brevi ricerche al computer apprendiamo che

a)    l’impianto architettonico di detta chiesa campestre risale al 1618. Ne fanno prova i dettagli in stile gotico delle volte a crociera delle varie cappelle

b)    l’esistenza della Chiesa è citata nel Cinquecento dal Fara nella sua Corografia

c)     il santuario è segnalato nelle Rationes Decimarum Italiae in una donazione fatta dal Rettore di Gonare. E’ l’anno 1391

Dalle mie ricerche condotte sui Cinque libri della diocesi di Oristano sono riuscito a carpire qualcosa di interessante sulla vita ecclesiastica condotta in Sardegna alla fine del Cinquecento.

All’interno di questi registri, esattamente in quelli riguardanti il centro di Gesturi, ho trovato un documento datato 1582 che fa riferimento ai decreti rilasciati dall’arcivescovo di Oristano monsignor Francesco Figo. Ecco quanto risulta da detta pastorale sulle Chiese campestri.

Devozioni particolari dei fedeli all’interno alle chiese

In is deplus cresias campestras quj de una milla ajnantj antj a jstarj de su pobladu aundj particularis devotionis multus acudintj decretaus et ordinaus e ais preditus beneficiadus rectoris curadus et oberaius cumandaus quj jn ditas jsglesias no bolanta premjtirj ni p(er)mjtanta (nel testo pmjtanta)

 

 

Divieto per gli uomini di età superiore ai dodici anni di dormire in chiesa

qui nixunu homjnj de doxj anus jnsusu apustj sa posta de su solu fina asa exida (dal tramonto del sole sino all’alba) no apanta a jstarj njn dormjrj jn cuddas cresias

Queste segnalazioni lasciano intendere che gli alloggi dei pellegrini in visita ai vari santuari della Sardegna, a seguito dei decreti rilasciati dai vari vescovi ed arcivescovi sardi ed in obbedienza dei dettami del Concilio di Trento, siano sorti in epoca posteriore al penultimo decennio del Cinquecento.

Alle tredici in punto, al rientro alla spicciolata di quanti hanno osato salire sin lassù, il pullman è pronto per portarci, sempre in aperta campagna in una località di Orani denominata Usurtala dove saremo ospitati per la pausa pranzo.

Si mangerà bene e la conferma risulterà dai voti assegnati da molti di noi ai ristoratori. Mentre alcuni hanno dato dell’ottimo ed altri del lodevole, io ho preferito solo annuire alle loro proposte riservandomi, in cuor mio, di esternare in questo servizio un commento più esaustivo. Posso infatti riferire che le pietanze e le bevande si sono succedute in ogni portata nei tempi giusti e nelle più azzeccate combinazioni. Il tutto sapeva di pennellate pittoriche, di adagi musicali e di rime poetiche.

Ed ora, sempre con il mezzo a disposizione si va alla volta di Orani dove si ha modo di visitare il locale museo e la sartoria di Modolo. Anche qui, come a pranzo, le pennellate d’autore di Nivola e Delitala non mancheranno di suscitare nell’animo del visitatore il più vivo apprezzamento. Pennellate poetiche anche per i lavori di Paolo Modolo, lo stilista che ha saputo, forte dell’esperienza del suo passato, coniugare a perfezione il gusto dell’innovazione con il sogno di diventare un primo della classe. Dell’abito che mi confezionò una ventina di anni addietro ho sempre la massima cura. Sarà sempre di moda. Anche per il mio post mortem.

martedì 24 giugno 2025

Visita ai nuraghi di Torralba e Silanus

 

 

Giovanni Mura

 

 

 

 

 

Visita ai nuraghi di Torralba e Silanus

 

 

 

 

 

 

 

con

il contributo dell’Associazione 50 & Più di Oristano

 

 

 

 

 

Visita ai nuraghi di Torralba e Silanus

   Per sabato 10 maggio, corrente anno 2025, l’Associazione 50 & Più di Oristano, ha programmato un interessante appuntamento con i luoghi della memoria vissuta e tramandata alcuni millenni addietro dai nostri antenati. Quanto abbiamo ricevuto in eredità dal lontano passato lo appureremo nella visita che condurremo nei centri di Torralba nel Sassarese e di Silanus nel Nuorese. Si avrà a che fare con nuraghi, pozzi sacri, tombe di giganti e con quanto dal neolitico ci è stato trasmesso ai giorni nostri. In particolare, le nostre attenzioni di carattere visivo non mancheranno di essere sollecitate dalle interessanti esposizioni delle guide locali. Anche da bordo pullman, durante le fasi di avvicinamento ai siti di maggiore impatto archeologico, sarà possibile fare affidamento alle valide riflessioni di esperti in campo archeologico.

In questo servizio che sto cercando di stendere non potrò essere certamente di aiuto per il lettore in quanto la sordità che mi affligge da tempo e le aride conoscenze in materia mi impediscono di riferire quanto viene posto in discussione. Rimedierò, peraltro, cercando di interrogare al momento opportuno gli strumenti più efficaci e più sofisticati della tecnologia moderna quali il computer ed il cellulare, strumenti che io definisco, alla pari dei congiunti più stretti, con il termine di parenti di plastica di primo grado. L’intelligenza artificiale è ormai al servizio di chicchessia.

   Ed eccomi di fronte al complesso nuragico di Santu Antine di Torralba. Ciò che impressiona maggiormente di questa enorme struttura muraria, è la accurata disposizione con cui i blocchi edilizi sembrano inseguirsi a perfezione tanto a livello orizzontale che verticale. Questo si avverte soprattutto nella lettura delle recinzioni esterne della Reggia e dei tracciati che portano verso l’alto.

Preciso intanto che nei vertici della pianta triangolare, che è di tipo equilatero, insistono i resti di tre torri mentre nel baricentro di detta figura geometrica trova posto la gigantesca costruzione tronco conica..

   Una volta superato l’ingresso principale, valutati i pro e di contro di un percorso non proprio adatto alle persone della mia età, decido di soffermarmi nel corridoio principale, quello che permette l’accesso ai vari alloggiamenti della grande torre. La guida intanto si trova già all’opera lungo tracciati che sanno di scale, feritoie, nicchie e camere. L’intenzione di rinunciare alla visita del singolare monumento non mi procura nessun disagio. Bisogna, d’altro canto, tener conto dei rischi che si corrono quando si ha a che fare con stipiti talvolta bassi, semioscurità di alcuni settori e incauti movimenti nei vari passaggi.

   Al lettore, di questa mia scarna e scarsa presentazione del complesso nuragico torralbese, resta ben poco da evidenziare. Sarebbe stato interessante per me, invece, avere notizie dettagliate su alcuni dati riguardanti la torre principale ma, dalla lettura dei dépliant e dalle richieste fatte ai parenti di plastica non ho avuto alcun riscontro. Ad onore del vero, in partenza da Oristano mi ero proposto di determinare:

a)      il volume in metri cubi della torre,

b)      il suo peso in tonnellate ed

c)      il rivestimento in metri quadri della superficie esposta alla luce (superficie laterale con superficie area superiore).

Per risolvere il primo dei tre quesiti mi sarebbero occorsi l’altezza ed i raggi delle superfici circolari del grande solido

Nessun problema per la seconda domanda in quanto il peso specifico del basalto è noto

Nessuna difficoltà, inoltre, per il terzo interrogativo in quanto l’apotema della torre è ricavabile per via pitagorica.

La mancanza di dati, purtroppo, mi vieta di fare qualsiasi calcolo.

La sosta nella corsia in cui mi trovo, un corridoio lungo una trentina di metri, non mi impedisce, d’altro canto, di inquadrare il continuo andirivieni dei turisti in entrata ed uscita ai vari ingressi della reggia ed allo stesso tempo di dialogare con chi è disposto a rilasciarti indicazioni che nulla hanno a che fare con l’archeologia. Così è avvenuto nei brevi colloqui avuti con una verbanese, una francese ed il custode del complesso. Angelo, il nome dell’ultimo degli intervistati, ha saputo darmi utili indicazioni sui flussi turistici nel territorio. Durante la visita al Museo cittadino di Torralba ho potuto constatare, nella veloce lettura di un servizio curato da un reporter negli anni Trenta, che la retta spettante all’inserviente era decisamente improponibile.

   Il pranzo, consumato in trattoria ed in allegra compagnia, funge da buon intervallo per un secondo tempo che avrà inizio con la partenza del pullman alla volta di Silanus e la conclusione con la visita al nuraghe di Santa Sabina.

Vado considerando, durante questa breve trasferta che mi porta a destinazione, che la Sardegna ha in dotazione per ogni suo comune una ventina di questi monumenti. Parlo di numero medio ottenuto dividendo 7500 per 377 dove il primo termine sta ad indicare i nuraghi ed il secondo i centri abitati.

Il mio paese, pur facendo parte di questa media, non vanta alcuna presenza nuragica. Ad una estensione terriera a forma di montagnola, gli abitanti del rione di Arasulè riservano il nome di Su Nuratze mentre quelli di Toneri la indicano con il nominativo di Su Noratziu. In verità devo ammettere che, pur avendo sempre avuto da giovane una gran voglia di ispezionare gli interni di queste mega costruzioni, non sono mai riuscito a soddisfare questo mio desiderio.

A Macomer, centro del Marghine in cui ho soggiornato per un quinquennio da studente, ho sempre disatteso gli inviti alla visita del nuraghe cittadino. Sarà per la prossima volta. Solamente in età avanzata ho potuto realizzare questo mio vecchio sogno.

La presenza delle guide in Sardegna è abbastanza recente. Per ironia della sorte posso affermare che la mia sordità ha progredito dal momento in cui gli esperti in materia hanno iniziato a scendere in campo. Ormai, In ogni appuntamento isolano di un certo impegno, è sempre presente un tutor.

Oggi, a distanza di una decina d’anni dal mio primo incontro con il nuraghe di Silanus, sto per ritrovarmi con il medesimo per rinnovargli la mia ammirazione e tributargli gli onori dovuti ai monumenti di grande rispetto.

Lasciata all’altezza di Macomer la superstrada per Cagliari, il nostro mezzo devia verso Bortigali per interrompere la corsa in aperta campagna dove il maniero di lusso o meglio il nuraghe di Santa Sabina, a distanza di circa trecento metri dalla sede stradale, si concede all’attenzione dei visitatori in forma smagliante. Eleganza, perfezione e compostezza edilizia. Tutto sa di magia per le attenzioni rivolte a questo tronco di cono retto ed alla chiesa bizantina che sta nelle immediate vicinanze. Ripeto che durante la mia visita di una decina di anni addietro ero riuscito a guadagnare, per l’occasione, il punto più elevato della costruzione in un tempo inferiore al minuto. Oggi, purtroppo a causa di una oscurità insolita che mi impedisce di raggiungere il primo vano scala, desisto dal farmi avanti. Nel frattempo prendo nota dei dati che i miei congiunti non consanguinei mi passano. Mi serviranno, una volta rientrato a casa, per dare risposta ai quesiti relativi al volume, al peso ed al rivestimento della struttura muraria che mi sta di fronte.

Per il nuraghe di Silanus valgono queste dimensioni:

a)     Diametro di base metri 12,60

b)     Diametro della faccia superiore metri 8,60

c)      Altezza metri 8,60

d)     Apotema del tronco di cono metri 8,83

e)     Peso specifico del basalto 2,9.

Alle formule del volume in metri in cubi, del rivestimento esterno in metri quadrati e del peso in tonnellate del solido in questione, ad evitare procedure di calcolo noiose per il lettore, preferisco fornire direttamente i risultati. Gli interessati potranno eventualmente servirsi dei suggerimenti proposti dall’intelligenza artificiale e procedere speditamente verso le soluzioni richieste.

Questi i risultati da me ottenuti:

La torre si presenta con

a)     Un volume pari a 767 metri cubi

b)     Un peso di 2224 tonnellate. Tale valore, ottenuto dal prodotto del volume (767 metri cubi) per il peso specifico del basalto (2,9), ha considerato come vuoto per pieno lo spazio occupato dalle nicchie, camere, ingressi, passaggi, feritoie ed interstizi tra i vari blocchi. Il tonnellaggio va quindi decurtato di cifre ancora non definite ma definibili.

c)      Un rivestimento di metri quadri 351,96. Tale valore va a comprendere la superficie laterale che è di metri quadri 293,89 e l’area della faccia superiore del nuraghe (metri quadri 58,06). L’intero rivestimento, trova il suo equivalente in una superficie quadrata di lato pari a 18,76 metri lineari.

 

sabato 29 marzo 2025

Piazze degli Zucca e di Maria Pra di Sotto


Tonara

Piazze degli Zucca e di Maria Pra di Sotto
(Pratza ‘e is Tzucas e de Maria Pra ‘e Osso)


Del rione di Toneri, esteso quartiere del comune di Tonara, facevano parte in passato le contrade denominate Pratza ‘e is Tzucas (Piazza degli Zucca) e Maria Pra ‘e Osso (Maria Pra di basso).

Le testimonianze riportate dal sacerdote Domenico Martini nel censimento parrocchiale del 1829 riferiscono che le contrade citate erano costituite da quarantaquattro e da trentacinque unità con una ripartizione di dodici famiglie per la prima comunità e di undici per la seconda.

Bisogna precisare che della prima dozzina di nuclei familiari facevano parte sei giovani coppie non ancora trentenni e con un solo figlio al primo anno di vita. Trattavasi nel complesso di una comunità molto giovane nella quale l’elemento più anziano veniva segnalato da una donna di 67 anni, suocera di un capo famiglia.

La composizione degli 11 gruppi di Maria Pra di sotto, è molto varia in quanto fa registrare quasi la metà dei residenti nell’ambito di due sole famiglie, ben sedici, con i restanti distribuiti in contesti nei quali i genitori convivono con pochi figli. Due vedove di 77 e 56 anni ed una nubile di 32 abitano in versione solitaria nelle loro rispettive case. E’ considerato assente, per motivi di studio, Emanuele Defigus, un sacerdote che aveva vissuto nella comunità tonarese, sino alla fine dei suoi giorni, nell’abitazione di Sa Pratzitta, la singolare piazzetta posta in alto alla sotto frazione.

Una breve descrizione sulla ubicazione delle contrade citate.

Per il viceparroco Domenico Martini, dover procedere al censimento del 1829, significava tener conto, a partire dalle postazioni più elevate della frazione di Toneri, delle seguenti contrade:

Craccalasi, Catzolaghedu, Cortzò, Pratza de is Garaus, Pratza manna, Maria Pra, Pratza de Senti Coco, Barigau, Maria Pra de Osso, Pratza de is Tzucas, Cartutzè e Morù.

Prima di definire dette sotto frazioni riteniamo opportuno dare informazioni più precise sulle superfici occupate da Pratza de is Garaus e Barigau.

 La prima di queste ha la singolare forma di un campetto di calcio con tanto di linea mediana che suddivide l’intera area in due parti quasi uguali. Detta linea divisoria è evidenziata da una singolare strettoia che in dialetto sardo viene chiamata errile. Al centro di questo vicolo si menziona un ballatoio che sembra fungere da interessante vedetta sul panorama rionale. Agli angoli di detta contrada possiamo citare, relativamente al periodo degli anni quaranta e cinquanta del secolo scorso, le abitazioni dei fratelli Deligia, del maestro Peppino Zucca, del negoziante Sebastiano Mereu e dei coniugi Garau-Contu con aperture che davano e danno ancora sulla via Sulis, Pratza manna, Corso Umberto e Via Vittorio Emanuele.

Barigau, la seconda delle contrade prese in esame, occupa buona parte del rione tonarese. Essa dà, nella parte superiore, su Pratza manna, e nella parte inferiore sul tracciato che dalla Piazza di Vincenzo Cocco porta verso la via Macallè mentre lateralmente insegue il percorso che comprende il classico ballatoio di Casa Porru, quello del portico denominato Su Portzu e per ultimo la scalinata che sale verso le abitazioni dei Succu, dei Corongiu e dei Todde.

Una ultima citazione per Maria Pra che, nel censimento del 1829, viene scissa in due sotto frazioni: Maria Pra e Maria Pra de Osso. La prima parte si può suddividere ancora in Maria Pra de Susu, interessata a ricoprire il tracciato della intera via Macallè, e Maria Pra de Mesu delegata ad inseguire la via Iosto, arteria quest’ultima compresa tra le contrade di Barigau, Vincenzo Cocco e Cartutzè.

Non ci resta che procedere, seguendo le indicazioni del Martini, alla identificazione delle aree occupate dai residenti di Maria Pra de Osso e di Pratza de is Tzuccas.

Il sacerdote in questione, partendo da Sa Pratzitta, la piazzetta che ai giorni d’oggi fronteggia l’unica abitazione vivibile di Maria Pra di Sotto, si dirige in discesa lungo la Via Santa Anastasia per censire, uno dopo l’altro gli undici nuclei familiari della sotto frazione. Terminerà le sue operazioni una volta raggiunta la regione di Su Accu, un’area definita da una rientranza del terreno che al suo interno va ad accogliere la Piazza degli Zucca. Da tener presente che il nostro rilevatore, prima di affrontare la non facile discesa della sotto frazione, si è lasciato dietro le vie di Maria Pra de Susu (oggi Via Macallè) e Maria Pra de Mesu (Via Iosto).

Intorno alla fine degli anni quaranta erano ancora visibili sul terreno le macerie di alcune abitazioni. Ricordo in particolare che i resti di un edificio di base quadrata e dell’altezza non superiore al metro sembravano invitarmi, ogni volta che da ragazzino passavo da quelle parti, a saltarci dentro per curiosare. Rileggendo il censimento del Martini mi viene da pensare che l’area da me percorsa lungo la sua diagonale, facesse parte del piano terreno dell’abitazione della numerosa famiglia dei coniugi Pruneddu-Carboni. Oggi non restano che poche tracce.

La linea di confine che circuiva buona parte della sotto frazione è rappresentata oggi da una recinzione in cemento armato che, a forma di arco parabolico, va ad inseguire la Via Santa Anastasia ed il tracciato che conduce verso il rione di Teliseri.

Al nostro operatore censuario, in vista ormai della conclusione del suo lavoro, non sarà occorso tanto tempo per raggiungere il suo scopo. Avrà ripiegato sulla breve salita che da Su Accu porta alle contrade degli Zucca e di Cartutzè per poi procedere più comodamente sul tratto pianeggiante della sotto frazione di Morù.

Nessuna traccia di carattere edilizio in Pratza de is Tzucas; soltanto vasti cumuli di pietre schistose e calcaree. Per raggiungere in comodità detta contrada è consigliabile portarsi sul lungo strada di Morù e da qui deviare a sinistra verso la regione Su Accu. Dopo una cinquantina di metri ci sarà spazio e modo per inseguire con la fantasia ogni immagine possibile. 

Al fine di memorizzare le contrade presentate dal Martini, vale a dire Cracalasi, Catzolaghedu, Cortzò, Pratza de is Caraos, Pratza manna, Maria Pra, Pratza de Senti Cocco, Barigau, Maria Pra de Osso, Pratza de is Tzuccas, Cartuzzè e Murù, potrebbe tornare utile servirsi del seguente scioglilingua:

Alasi e Aghedu corrono e gareggiano in Pratza manna e Maria Pra mentre Barigau vince un cartoccio di zucchero tra Maria Pra de Osso e Murù.

Le parti in grassetto facilitano il ricorso alle denominazioni delle sotto frazioni del rione di Toneri.

Una precisazione: Alasi (Agrifoglio), Aghedu (Aghedu) e Barigau (Trasandato, Oltre ogni limite) si prestano, in questa tiritera, ad essere configurati nelle vesti di atleti delle contrade di Craccalasi, Catzolaghedu e Barigau.

Per il termine Barigau non escludiamo il suo primo significato che è di valenza temporale ed equivale al giorno successivo al dopodomani. I primi quattro giorni della settimana, considerando l’oggi come punto di partenza, si presenterebbero, in dialetto tonarese, così: Oe, Crasa, Pusticrasa e Barigau.

Può valere, sempre in vernacolo locale, anche la seguente filastrocca:

(Istepetantis chi) (Nel mentre che) Alasi e Aghedu a s’iscoriu s’incarant a Pratza manna e Maria Pra, Barigau n’essidi a matzuccu, dae Maria Pra de Osso a Murù, cun d’unu cartutzu ’e cocoro.

Ritengo giusto segnalare che i sostantivi iscoriu (buio), matzuccu (bastone), cartutzu (misura di capacità da dieci litri per gli aridi) e cocoro (noci) sottintendono le contrade di Cortzò, Pratza de is Tzuccas, Cartutzè e Pratza de Senti Coco mentre la forma verbale incarant (da incarare=andare verso) sta per la sotto frazione denominata Caraos o meglio Pratza de is Caraos (alias Piazza dei Garau).

 


sabato 8 febbraio 2025

Gita a Cagliari

  

Gita a Cagliari

Visita ai suoi antichi quartieri

 

Sabato 25 gennaio è la data stabilita dall’Associazione 50 & Più di Oristano per una gita alla volta di Cagliari. Per il gruppo di cui faccio parte, una cinquantina di iscritti in tutto, la partenza ed il rientro ad Oristano, sono fissati per le ore nove del mattino e le diciannove della sera.

Da bordo pullman, lungo il tragitto in superstrada, non c’è altro che da ammirare quanto la natura, rappresentata da un paesaggio pianeggiante spesso incolto, ed in lontananza, incorniciato da montagne mute e severe, offre. Nei pressi di Marrubiu, una pala eolica di notevoli dimensioni, sembra invitare i passeggeri a perorare le giuste cause sulla sua esistenza.

E’ già Cagliari quando gli appelli griffati della pubblicità profusa dai numerosi esercizi di periferia cominciano a venirti incontro con frequenza ed insistenza sino a pochi metri dalla sede stradale.

Superati i quartieri storici di Sant’Avendrace e Stampace ci troviamo sulla via Roma, di fronte al porto, per poi proseguire nei viali Colombo e Regina Margherita. Giunti all’altezza dei Giardini pubblici ci viene porto l’invito a scendere per dare inizio alle visite previste dal programma. Dai più anziani, nell’affrontare la rampa che nello spazio di un centinaio di metri conduce a Porta San Pancrazio e quindi a Piazza Arsenale, sono da segnalare alcune difficoltà.

Siamo ormai in Castello, il quartiere più in alto di Cagliari. D’ora in avanti e per l’intera giornata non incontreremo altre salite.

Nessuna coda di visitatori al Museo archeologico. Forse siamo i primi avventori della giornata. Nel periodo invernale le visite sono sempre ridotte al minimo ma d’estate sp superano le settecento unità giornaliere.

L’edificio, un moderno stabile suddiviso in quattro piani, è ancorato a nord alla antica fortificazione del rione. Salendo in ascensore si possono notare lungo alcuni dislivelli rocciosi le feritoie sulle quali i tiratori scelti armeggiavano con archi e archibugi.

Il tempo per inseguire la storia dei reperti in esposizione non è mai sufficiente, per la carenza di una opportuna guida museale, a colmare ed appagare  la curiosità dei visitatori. In cambio devi far ricorso, una volta a casa, all’utilizzo dei depliant dati in omaggio o in mancanza di questi ai virtuosismi, talvolta impropri, dell’intelligenza artificiale. Questo vale soprattutto per la migliore lettura dei dipinti cinquecenteschi con olio su tavole del Cavaro, Mainas ed altri autori sardi. Le illustrazioni di quanto è esposto in vetrina sono abbastanza chiare. Questo vale anche per la eccelsa collezione di 23 pezzi anatomici modellati in cera dal Susini. In quest’ultimo caso si tratta di un lavoro a cui hanno partecipato tre illustri personaggi: Il Vicerè Carlo Felice, in qualità di committente, l’artista fiorentino Clemente Susini, nelle vesti di commissionario, e l’anatomista sardo Francesco Antonio Boi, assistente ai lavori. I vari organi di senso e quelli relativi ai nostri apparati e sistemi corporei pongono in evidenza la multiforme sfaccettatura del nostro organismo. Lo stupore del visitatore è dato dalla cera, un materiale che si presta a simulare efficacemente la disposizione de i vasi sanguigni, delle masse muscolari e dei tessuti epidermici. Si tratta di un’opera fra le uniche  al mondo. Onore al merito al finanziatore, all’artista e all’accademico. Il tutto, ben custodito in teche sottovetro, è supportato dalla attenta e continua presenza dei commessi i quali non mancano mai di invitarti a non fotografare i reperti. All’ora del pranzo, fissata per le tredici e trenta, non vorrei avere delle difficoltà a mandare giù qualche boccone. Sembrano ancora inseguirmi le espressioni cadaveriche di quei modelli anatomici ottocenteschi.

Dimenticavo di segnalare che ogni vetrina del museo fa ricorso all’uso della lingua italiana e di quella inglese. In una epigrafe posta all’esterno dello stabile il riferimento linguistico si rifà all’italiano ed al sardo, quest’ultimo in dialetto campidanese. E’ l’omaggio per eccellenza dovuto al Professor Lilliu, studioso al quale è dedicato il Museo archeologico di Cagliari.

Appena fuori dal Museo, il gruppo dei partecipanti si ricompone e decide di imboccare Porta Cristina per effettuare una breve passeggiata in Viale Buoncammino. Si avrà modo così di ammirare il panorama che dai tetti del quartiere di Stampace ti accompagna alle aree occupate dall’Ospedale Civile, dalle Università di Leggi ed Economia, dal suggestivo anfiteatro romano e dall’Orto botanico. Il mare, situato in fondo, definirà al meglio le immagini di questa cartolina.

Da un breve conciliabolo degli organizzatori si ha modo di capire che il desiderio di inquadrare gli angoli tra i più caratteristici di Cagliari non potrà essere appagato per questioni di tempo. La marcia indietro presso la già citata porta ci indirizza verso la vicina Piazza Palazzo o Piazza Indipendenza. Situata nella parte più elevata del quartiere ha per contorni la Torre di San Pancrazio, il Palazzo Sabaudo, la Curia, il Duomo e l’Ex Museo Regio. E’ in questa Piazza di Castello che il gruppo, tenuto conto che la maggioranza dei partecipanti conosce a perfezione i percorsi che portano ad un ristorante di Via Sardegna, un tracciato parallelo a quello dei portici di Via Roma, decide di sciogliersi e rispettare le libere scelte di ognuno. Personalmente ritengo giusta detta motivazione che mi permette di indugiare nei luoghi a me più cari del periodo vissuto  in gioventù.

Nulla è cambiato rispetto al tempo in cui usavo scendere a passo spedito lungo la Via La Marmora e la parallela Via Canelles per guadagnare, all’esterno delle imponenti fortificazioni del rione, gli spazi aperti che portano al Bastione ed alla sottostante Piazza Costituzione. Da qui per poter raggiungere I Portici di Via Roma, la principale arteria cittadina, era sufficiente proseguire, sempre in discesa, lungo il Viale Regina Margherita oppure imboccare il Largo Carlo Felice dopo aver ripiegato per la Via Manno. Raramente, nelle mie brevi passeggiate, utilizzavo i vicoli tortuosi che portano, attraverso un centinaio di insidiosi scalini all’antico e caratteristico quartiere della Marina dove è ubicato il nostro punto di ristoro.

E’ soprattutto in Piazza Palazzo che ritengo soffermarmi per riferire di una visita effettuata una ventina di anni addietro al profondissimo Pozzo di San Pancrazio e di quelle più frequenti alla vicina cattedrale.

Devo premettere intanto che il quartiere Castello è noto non solo per le sue torri ma anche per i suoi pozzi, ben cinque, tra i quali occorre far menzione della fonte sotterranea di San Pancrazio, un’opera costruita al centro di Piazza Indipendenza intorno alla prima metà del Cinquecento. Sono ben 77 i metri che corrono dall’imboccatura sino alle falde acquatiche mentre un’altra decina vanno a interessare la massa del liquido che scorre sui fondali. Una profondità inferiore avrebbe compromesso ai residenti i benefici derivanti dagli apporti idrici assicurati, dal basso verso l’alto, dal movimento rotatorio degli elevatori a tazze chiamati norie. Bisogna precisare che tutto il lavoro svolto dagli animali, sino alla fine del terzo decennio dell’Ottocento, avveniva all’aperto, ma successivamente, per rimediare a questioni di decoro e di carattere igienico, si dovette operare qualche metro al disotto del piano stradale  con la copertura di una grande volta. Relegato al piano inferiore il cavallo non poteva più creare malcontenti a chicchessia.

Durante la mia visita di venti anni addietro avevo potuto, accedendo da una scala a pioli posizionata nei pressi dell’ex museo regio e da un breve sottopassaggio, prendere visione del tutto eccezione fatta dell’assemblaggio ligneo supportato dall’imboccatura.

A partire dal 1867, con la realizzazione dell’acquedotto progettato dall’ingegnere Felice Giordano, la grande noria sabauda esaurì il suo compito e così fu posta la parola fine anche al calpestio del cavallo attorno ai marchingegni dell’enorme mulino d’acqua.

Degli svariati organi che vanno a comporre detta ruota idraulica avevo già fatto conoscenza durante una mia visita alle campagne di Uta dove l’anziano Efisio Nonnis mi aveva reso edotto del tutto. Tra gli elementi più importanti del complesso assemblaggio ritengo doveroso riferire di su casteddu, is ballaustus, is rimbilleris, is arrodeddus, is pedras de su mobinu, sa pedra soba, s’ascia de su mobinu, sa cadena,, s’accotzu, sa petia trota, sa ghia e su baddadore. Completano il patrimonio figurativo le parti mobili ossia le tazze delegate al sollevamento dell’acqua in superficie. Nel dialetto cagliaritano venivano chiamate tuvus mentre in quello oristanese congius e congioargius erano denominate le maestranze addette alla loro lavorazione.

Per quanto riguarda le funzioni dei singoli organi tornerà utile consultare il lavoro Norie di Sardegna.

La visita domenicale al Duomo di Cagliari è stata per me, nel quinquennio che corre dal 1959 al 1964, una ricorrenza consuetudinaria di tutto rispetto. Oggi ne approfitto, come allora, per varcare uno delle tre porte che abilitano all’ingresso del tempio. Pur essendo un giorno feriale i fedeli non mancano, anzi sono numerosi ed accalcati nelle prime posizioni in prossimità del presbiterio, dove si sta concludendo una funzione religiosa in favore di qualche santo protettore degli infermi. Nel parterre quattro alfieri, disposti a quadrato, stazionano impeccabili sull’attenti, con labari e stemmi, senza tradire il minimo disappunto. Fanno da cornice a questi volontari tante crocerossine inappuntabili per portamento e distinzione. Il clima tutt’intorno sa di festosità.

In questa chiesa, che ricalca in successione gli stili romanico, gotico e barocco, aveva prestato servizio in qualità di arcivescovo un mio conterraneo nel triennio che va dal 1837 al 1840, anno della sua morte. In precedenza. Antonio Tore, questo il suo nome, dopo aver svolto il suo ministero sacerdotale in diversi centri della Barbagia, era stato incaricato di reggere la diocesi di Oristano nelle vesti di Vicario capitolare, quindi consacrato vescovo a Bosa e successivamente nominato presule nella diocesi di Ales per il decennio che corre dal 1828.

E’ sempre un piacere sostare negli interni di questa chiesa monumentale dove gli acronimi D.O.M. e J.H.S riportati in testata alle varie epigrafi sono il riconoscimento dovuto al Padre eterno (Domino, Optimo, Maximo) ed al Suo diletto Figlio (Gesù, Salvatore degli uomini).

Giovanni Mura 
Con le attenzioni dell’Associazione Cinquanta & Più di Oristano