venerdì 5 settembre 2025
martedì 24 giugno 2025
Visita ai nuraghi di Torralba e Silanus
Giovanni Mura
Visita ai nuraghi di Torralba e Silanus
con
il contributo dell’Associazione 50
& Più di Oristano
Visita ai nuraghi di Torralba e
Silanus
Per sabato 10 maggio,
corrente anno 2025, l’Associazione 50 & Più di Oristano, ha programmato un
interessante appuntamento con i luoghi della memoria vissuta e tramandata alcuni
millenni addietro dai nostri antenati. Quanto abbiamo ricevuto in eredità dal
lontano passato lo appureremo nella visita che condurremo nei centri di
Torralba nel Sassarese e di Silanus nel Nuorese. Si avrà a che fare con nuraghi,
pozzi sacri, tombe di giganti e con quanto dal neolitico ci è stato trasmesso ai
giorni nostri. In particolare, le nostre attenzioni di carattere visivo non
mancheranno di essere sollecitate dalle interessanti esposizioni delle guide
locali. Anche da bordo pullman, durante le fasi di avvicinamento ai siti di
maggiore impatto archeologico, sarà possibile fare affidamento alle valide
riflessioni di esperti in campo archeologico.
In questo servizio che sto cercando di stendere non potrò
essere certamente di aiuto per il lettore in quanto la sordità che mi affligge
da tempo e le aride conoscenze in materia mi impediscono di riferire quanto
viene posto in discussione. Rimedierò, peraltro, cercando di interrogare al
momento opportuno gli strumenti più efficaci e più sofisticati della tecnologia
moderna quali il computer ed il cellulare, strumenti che io definisco, alla
pari dei congiunti più stretti, con il termine di parenti di plastica di primo
grado. L’intelligenza artificiale è ormai al servizio di chicchessia.
Ed eccomi di fronte al
complesso nuragico di Santu Antine di Torralba. Ciò che impressiona maggiormente
di questa enorme struttura muraria, è la accurata disposizione con cui i
blocchi edilizi sembrano inseguirsi a perfezione tanto a livello orizzontale
che verticale. Questo si avverte soprattutto nella lettura delle recinzioni esterne
della Reggia e dei tracciati che portano verso l’alto.
Preciso intanto che nei vertici della pianta triangolare, che
è di tipo equilatero, insistono i resti di tre torri mentre nel baricentro di
detta figura geometrica trova posto la gigantesca costruzione tronco conica..
Una volta superato l’ingresso
principale, valutati i pro e di contro di un percorso non proprio adatto alle
persone della mia età, decido di soffermarmi nel corridoio principale, quello
che permette l’accesso ai vari alloggiamenti della grande torre. La guida
intanto si trova già all’opera lungo tracciati che sanno di scale, feritoie,
nicchie e camere. L’intenzione di rinunciare alla visita del singolare
monumento non mi procura nessun disagio. Bisogna, d’altro canto, tener conto dei
rischi che si corrono quando si ha a che fare con stipiti talvolta bassi, semioscurità
di alcuni settori e incauti movimenti nei vari passaggi.
Al lettore, di
questa mia scarna e scarsa presentazione del complesso nuragico torralbese,
resta ben poco da evidenziare. Sarebbe stato interessante per me, invece, avere
notizie dettagliate su alcuni dati riguardanti la torre principale ma, dalla
lettura dei dépliant e dalle richieste fatte ai parenti di plastica non ho
avuto alcun riscontro. Ad onore del vero, in partenza da Oristano mi ero
proposto di determinare:
a)
il volume in metri cubi della torre,
b)
il suo peso in tonnellate ed
c)
il
rivestimento in metri quadri della superficie esposta alla luce (superficie
laterale con superficie area superiore).
Per risolvere il primo dei tre quesiti mi sarebbero occorsi l’altezza
ed i raggi delle superfici circolari del grande solido
Nessun problema per la seconda domanda in quanto il peso
specifico del basalto è noto
Nessuna difficoltà, inoltre, per il terzo interrogativo in
quanto l’apotema della torre è ricavabile per via pitagorica.
La mancanza di dati, purtroppo, mi vieta di fare qualsiasi
calcolo.
La sosta nella corsia in cui mi trovo, un corridoio lungo una
trentina di metri, non mi impedisce, d’altro canto, di inquadrare il continuo
andirivieni dei turisti in entrata ed uscita ai vari ingressi della reggia ed
allo stesso tempo di dialogare con chi è disposto a rilasciarti indicazioni che
nulla hanno a che fare con l’archeologia. Così è avvenuto nei brevi colloqui
avuti con una verbanese, una francese ed il custode del complesso. Angelo, il
nome dell’ultimo degli intervistati, ha saputo darmi utili indicazioni sui flussi
turistici nel territorio. Durante la visita al Museo cittadino di Torralba ho
potuto constatare, nella veloce lettura di un servizio curato da un reporter negli
anni Trenta, che la retta spettante all’inserviente era decisamente improponibile.
Il pranzo, consumato
in trattoria ed in allegra compagnia, funge da buon intervallo per un secondo
tempo che avrà inizio con la partenza del pullman alla volta di Silanus e la
conclusione con la visita al nuraghe di Santa Sabina.
Vado considerando, durante questa breve trasferta che mi
porta a destinazione, che la Sardegna ha in dotazione per ogni suo comune una
ventina di questi monumenti. Parlo di numero medio ottenuto dividendo 7500 per
377 dove il primo termine sta ad indicare i nuraghi ed il secondo i centri
abitati.
Il mio paese, pur facendo parte di questa media, non vanta alcuna
presenza nuragica. Ad una estensione terriera a forma di montagnola, gli
abitanti del rione di Arasulè riservano il nome di Su Nuratze mentre quelli di
Toneri la indicano con il nominativo di Su Noratziu. In verità devo ammettere
che, pur avendo sempre avuto da giovane una gran voglia di ispezionare gli
interni di queste mega costruzioni, non sono mai riuscito a soddisfare questo
mio desiderio.
A Macomer, centro del Marghine in cui ho soggiornato per un
quinquennio da studente, ho sempre disatteso gli inviti alla visita del nuraghe
cittadino. Sarà per la prossima volta. Solamente in età avanzata ho potuto realizzare
questo mio vecchio sogno.
La presenza delle guide in Sardegna è abbastanza recente. Per
ironia della sorte posso affermare che la mia sordità ha progredito dal momento
in cui gli esperti in materia hanno iniziato a scendere in campo. Ormai, In
ogni appuntamento isolano di un certo impegno, è sempre presente un tutor.
Oggi, a distanza di una decina d’anni dal mio primo incontro con
il nuraghe di Silanus, sto per ritrovarmi con il medesimo per rinnovargli la
mia ammirazione e tributargli gli onori dovuti ai monumenti di grande rispetto.
Lasciata all’altezza di Macomer la superstrada per Cagliari,
il nostro mezzo devia verso Bortigali per interrompere la corsa in aperta
campagna dove il maniero di lusso o meglio il nuraghe di Santa Sabina, a
distanza di circa trecento metri dalla sede stradale, si concede all’attenzione
dei visitatori in forma smagliante. Eleganza, perfezione e compostezza edilizia.
Tutto sa di magia per le attenzioni rivolte a questo tronco di cono retto ed alla
chiesa bizantina che sta nelle immediate vicinanze. Ripeto che durante la mia
visita di una decina di anni addietro ero riuscito a guadagnare, per
l’occasione, il punto più elevato della costruzione in un tempo inferiore al
minuto. Oggi, purtroppo a causa di una oscurità insolita che mi impedisce di raggiungere
il primo vano scala, desisto dal farmi avanti. Nel frattempo prendo nota dei
dati che i miei congiunti non consanguinei mi passano. Mi serviranno, una volta
rientrato a casa, per dare risposta ai quesiti relativi al volume, al peso ed
al rivestimento della struttura muraria che mi sta di fronte.
Per il nuraghe di Silanus valgono queste dimensioni:
a)
Diametro
di base metri 12,60
b)
Diametro
della faccia superiore metri 8,60
c)
Altezza
metri 8,60
d)
Apotema
del tronco di cono metri 8,83
e)
Peso
specifico del basalto 2,9.
Alle formule del volume in metri in cubi, del rivestimento
esterno in metri quadrati e del peso in tonnellate del solido in questione, ad
evitare procedure di calcolo noiose per il lettore, preferisco fornire
direttamente i risultati. Gli interessati potranno eventualmente servirsi dei
suggerimenti proposti dall’intelligenza artificiale e procedere speditamente
verso le soluzioni richieste.
Questi i risultati da me ottenuti:
La torre si presenta con
a)
Un volume pari a 767 metri cubi
b)
Un peso di 2224 tonnellate. Tale valore, ottenuto dal prodotto del volume
(767 metri cubi) per il peso specifico del basalto (2,9), ha considerato come
vuoto per pieno lo spazio occupato dalle nicchie, camere, ingressi, passaggi,
feritoie ed interstizi tra i vari blocchi. Il tonnellaggio va quindi decurtato di
cifre ancora non definite ma definibili.
c)
Un rivestimento di metri quadri 351,96. Tale valore va a comprendere la
superficie laterale che è di metri quadri 293,89 e l’area della faccia
superiore del nuraghe (metri quadri 58,06). L’intero rivestimento, trova il suo
equivalente in una superficie quadrata di lato pari a 18,76 metri lineari.
sabato 29 marzo 2025
Piazze degli Zucca e di Maria Pra di Sotto
Tonara
Piazze degli Zucca e di Maria Pra di Sotto
(Pratza ‘e is Tzucas e de Maria Pra ‘e Osso)
Del rione di Toneri,
esteso quartiere del comune di Tonara, facevano parte in passato le contrade denominate
Pratza ‘e is Tzucas (Piazza degli Zucca) e Maria Pra ‘e Osso (Maria
Pra di basso).
Le testimonianze riportate
dal sacerdote Domenico Martini nel censimento parrocchiale del 1829 riferiscono
che le contrade citate erano costituite da quarantaquattro e da trentacinque
unità con una ripartizione di dodici famiglie per la prima comunità e di undici
per la seconda.
Bisogna precisare che della
prima dozzina di nuclei familiari facevano parte sei giovani coppie non ancora
trentenni e con un solo figlio al primo anno di vita. Trattavasi nel complesso
di una comunità molto giovane nella quale l’elemento più anziano veniva
segnalato da una donna di 67 anni, suocera di un capo famiglia.
La composizione degli 11
gruppi di Maria Pra di sotto, è molto varia in quanto fa registrare quasi la
metà dei residenti nell’ambito di due sole famiglie, ben sedici, con i restanti
distribuiti in contesti nei quali i genitori convivono con pochi figli. Due
vedove di 77 e 56 anni ed una nubile di 32 abitano in versione solitaria nelle
loro rispettive case. E’ considerato assente, per motivi di studio, Emanuele
Defigus, un sacerdote che aveva vissuto nella comunità tonarese, sino alla fine
dei suoi giorni, nell’abitazione di Sa Pratzitta, la singolare piazzetta
posta in alto alla sotto frazione.
Una breve descrizione
sulla ubicazione delle contrade citate.
Per il viceparroco
Domenico Martini, dover procedere al censimento del 1829, significava tener
conto, a partire dalle postazioni più elevate della frazione di Toneri, delle
seguenti contrade:
Craccalasi, Catzolaghedu, Cortzò, Pratza de is Garaus, Pratza manna, Maria Pra, Pratza de Senti Coco, Barigau, Maria Pra de Osso, Pratza de is Tzucas, Cartutzè e Morù.
Prima di definire dette
sotto frazioni riteniamo opportuno dare informazioni più precise sulle
superfici occupate da Pratza de is Garaus e Barigau.
La prima di queste ha la singolare forma di un
campetto di calcio con tanto di linea mediana che suddivide l’intera area in
due parti quasi uguali. Detta linea divisoria è evidenziata da una singolare
strettoia che in dialetto sardo viene chiamata errile. Al centro di questo
vicolo si menziona un ballatoio che sembra fungere da interessante vedetta sul panorama
rionale. Agli angoli di detta contrada possiamo citare, relativamente al
periodo degli anni quaranta e cinquanta del secolo scorso, le abitazioni dei
fratelli Deligia, del maestro Peppino Zucca, del negoziante Sebastiano Mereu e
dei coniugi Garau-Contu con aperture che davano e danno ancora sulla via Sulis,
Pratza manna, Corso Umberto e Via Vittorio Emanuele.
Barigau, la seconda delle
contrade prese in esame, occupa buona parte del rione tonarese. Essa dà, nella
parte superiore, su Pratza manna, e nella parte inferiore sul tracciato che
dalla Piazza di Vincenzo Cocco porta verso la via Macallè mentre lateralmente insegue
il percorso che comprende il classico ballatoio di Casa Porru, quello del
portico denominato Su Portzu e per ultimo la scalinata che sale verso le abitazioni
dei Succu, dei Corongiu e dei Todde.
Una ultima citazione per
Maria Pra che, nel censimento del 1829, viene scissa in due sotto frazioni:
Maria Pra e Maria Pra de Osso. La prima parte si può suddividere ancora in
Maria Pra de Susu, interessata a ricoprire il tracciato della intera via
Macallè, e Maria Pra de Mesu delegata ad inseguire la via Iosto, arteria
quest’ultima compresa tra le contrade di Barigau, Vincenzo Cocco e Cartutzè.
Non ci resta che
procedere, seguendo le indicazioni del Martini, alla identificazione delle aree
occupate dai residenti di Maria Pra de Osso e di Pratza de is Tzuccas.
Il sacerdote in questione,
partendo da Sa Pratzitta, la piazzetta che ai giorni d’oggi fronteggia l’unica
abitazione vivibile di Maria Pra di Sotto, si dirige in discesa lungo la Via
Santa Anastasia per censire, uno dopo l’altro gli undici nuclei familiari della
sotto frazione. Terminerà le sue operazioni una volta raggiunta la regione di
Su Accu, un’area definita da una rientranza del terreno che al suo interno va
ad accogliere la Piazza degli Zucca. Da tener presente che il nostro rilevatore,
prima di affrontare la non facile discesa della sotto frazione, si è lasciato
dietro le vie di Maria Pra de Susu (oggi Via Macallè) e Maria Pra de Mesu (Via
Iosto).
Intorno alla fine degli
anni quaranta erano ancora visibili sul terreno le macerie di alcune abitazioni.
Ricordo in particolare che i resti di un edificio di base quadrata e dell’altezza
non superiore al metro sembravano invitarmi, ogni volta che da ragazzino passavo
da quelle parti, a saltarci dentro per curiosare. Rileggendo il censimento del
Martini mi viene da pensare che l’area da me percorsa lungo la sua diagonale, facesse
parte del piano terreno dell’abitazione della numerosa famiglia dei coniugi
Pruneddu-Carboni. Oggi non restano che poche tracce.
La linea di confine che
circuiva buona parte della sotto frazione è rappresentata oggi da una
recinzione in cemento armato che, a forma di arco parabolico, va ad inseguire
la Via Santa Anastasia ed il tracciato che conduce verso il rione di Teliseri.
Al nostro operatore censuario,
in vista ormai della conclusione del suo lavoro, non sarà occorso tanto tempo
per raggiungere il suo scopo. Avrà ripiegato sulla breve salita che da Su Accu porta
alle contrade degli Zucca e di Cartutzè per poi procedere più comodamente sul
tratto pianeggiante della sotto frazione di Morù.
Nessuna traccia di carattere edilizio in Pratza de is Tzucas; soltanto vasti cumuli di pietre schistose e calcaree. Per raggiungere in comodità detta contrada è consigliabile portarsi sul lungo strada di Morù e da qui deviare a sinistra verso la regione Su Accu. Dopo una cinquantina di metri ci sarà spazio e modo per inseguire con la fantasia ogni immagine possibile.
Al fine di memorizzare le
contrade presentate dal Martini, vale a dire Cracalasi, Catzolaghedu, Cortzò,
Pratza de is Caraos, Pratza manna, Maria Pra, Pratza de Senti Cocco, Barigau,
Maria Pra de Osso, Pratza de is Tzuccas, Cartuzzè e Murù, potrebbe tornare
utile servirsi del seguente scioglilingua:
Alasi e Aghedu corrono e gareggiano in
Pratza manna e Maria Pra mentre Barigau vince un cartoccio di zucchero
tra Maria Pra de Osso e Murù.
Le parti in grassetto facilitano il ricorso alle denominazioni delle sotto
frazioni del rione di Toneri.
Una precisazione: Alasi (Agrifoglio), Aghedu (Aghedu) e Barigau
(Trasandato, Oltre ogni limite) si prestano, in questa tiritera, ad essere
configurati nelle vesti di atleti delle contrade di Craccalasi, Catzolaghedu
e Barigau.
Per il termine Barigau non escludiamo il suo primo significato che è di
valenza temporale ed equivale al giorno successivo al dopodomani. I primi
quattro giorni della settimana, considerando l’oggi come punto di
partenza, si presenterebbero, in dialetto tonarese, così: Oe, Crasa,
Pusticrasa e Barigau.
Può valere, sempre in vernacolo locale, anche la seguente filastrocca:
(Istepetantis chi) (Nel mentre che) Alasi e Aghedu a
s’iscoriu s’incarant a Pratza manna e Maria Pra, Barigau n’essidi
a matzuccu, dae Maria Pra de Osso a Murù, cun d’unu cartutzu ’e cocoro.
Ritengo giusto segnalare che i sostantivi iscoriu (buio), matzuccu
(bastone), cartutzu (misura di capacità da dieci litri per gli aridi) e cocoro
(noci) sottintendono le contrade di Cortzò, Pratza de is Tzuccas, Cartutzè
e Pratza de Senti Coco mentre la forma verbale incarant (da incarare=andare
verso) sta per la sotto frazione denominata Caraos o meglio Pratza de is
Caraos (alias Piazza dei Garau).
sabato 8 febbraio 2025
Gita a Cagliari
Gita a Cagliari
Visita ai suoi antichi quartieri
Sabato 25 gennaio è la
data stabilita dall’Associazione 50 & Più di Oristano per una gita alla
volta di Cagliari. Per il gruppo di cui faccio parte, una cinquantina di iscritti
in tutto, la partenza ed il rientro ad Oristano, sono fissati per le ore nove
del mattino e le diciannove della sera.
Da bordo pullman, lungo
il tragitto in superstrada, non c’è altro che da ammirare quanto la natura, rappresentata
da un paesaggio pianeggiante spesso incolto, ed in lontananza, incorniciato da
montagne mute e severe, offre. Nei pressi di Marrubiu, una pala eolica di
notevoli dimensioni, sembra invitare i passeggeri a perorare le giuste cause
sulla sua esistenza.
E’ già Cagliari quando
gli appelli griffati della pubblicità profusa dai numerosi esercizi di
periferia cominciano a venirti incontro con frequenza ed insistenza sino a
pochi metri dalla sede stradale.
Superati i quartieri
storici di Sant’Avendrace e Stampace ci troviamo sulla via Roma, di fronte al
porto, per poi proseguire nei viali Colombo e Regina Margherita. Giunti
all’altezza dei Giardini pubblici ci viene porto l’invito a scendere per dare
inizio alle visite previste dal programma. Dai più anziani, nell’affrontare la rampa
che nello spazio di un centinaio di metri conduce a Porta San Pancrazio e
quindi a Piazza Arsenale, sono da segnalare alcune difficoltà.
Siamo ormai in Castello,
il quartiere più in alto di Cagliari. D’ora in avanti e per l’intera giornata
non incontreremo altre salite.
Nessuna coda di
visitatori al Museo archeologico. Forse siamo i primi avventori della giornata.
Nel periodo invernale le visite sono sempre ridotte al minimo ma d’estate sp superano
le settecento unità giornaliere.
L’edificio, un moderno
stabile suddiviso in quattro piani, è ancorato a nord alla antica
fortificazione del rione. Salendo in ascensore si possono notare lungo alcuni
dislivelli rocciosi le feritoie sulle quali i tiratori scelti armeggiavano con archi
e archibugi.
Il tempo per inseguire la
storia dei reperti in esposizione non è mai sufficiente, per la carenza di una
opportuna guida museale, a colmare ed appagare
la curiosità dei visitatori. In cambio devi far ricorso, una volta a
casa, all’utilizzo dei depliant dati in omaggio o in mancanza di questi ai virtuosismi,
talvolta impropri, dell’intelligenza artificiale. Questo vale soprattutto per la
migliore lettura dei dipinti cinquecenteschi con olio su tavole del Cavaro,
Mainas ed altri autori sardi. Le illustrazioni di quanto è esposto in vetrina
sono abbastanza chiare. Questo vale anche per la eccelsa collezione di 23 pezzi
anatomici modellati in cera dal Susini. In quest’ultimo caso si tratta di un
lavoro a cui hanno partecipato tre illustri personaggi: Il Vicerè Carlo Felice,
in qualità di committente, l’artista fiorentino Clemente Susini, nelle vesti di
commissionario, e l’anatomista sardo Francesco Antonio Boi, assistente ai
lavori. I vari organi di senso e quelli relativi ai nostri apparati e sistemi corporei
pongono in evidenza la multiforme sfaccettatura del nostro organismo. Lo
stupore del visitatore è dato dalla cera, un materiale che si presta a simulare
efficacemente la disposizione de i vasi sanguigni, delle masse muscolari e dei
tessuti epidermici. Si tratta di un’opera fra le uniche al mondo. Onore al merito al finanziatore,
all’artista e all’accademico. Il tutto, ben custodito in teche sottovetro, è supportato
dalla attenta e continua presenza dei commessi i quali non mancano mai di
invitarti a non fotografare i reperti. All’ora del pranzo, fissata per le
tredici e trenta, non vorrei avere delle difficoltà a mandare giù qualche
boccone. Sembrano ancora inseguirmi le espressioni cadaveriche di quei modelli
anatomici ottocenteschi.
Dimenticavo di segnalare
che ogni vetrina del museo fa ricorso all’uso della lingua italiana e di quella
inglese. In una epigrafe posta all’esterno dello stabile il riferimento
linguistico si rifà all’italiano ed al sardo, quest’ultimo in dialetto campidanese.
E’ l’omaggio per eccellenza dovuto al Professor Lilliu, studioso al quale è
dedicato il Museo archeologico di Cagliari.
Appena fuori dal Museo,
il gruppo dei partecipanti si ricompone e decide di imboccare Porta Cristina per
effettuare una breve passeggiata in Viale Buoncammino. Si avrà modo così di
ammirare il panorama che dai tetti del quartiere di Stampace ti accompagna alle
aree occupate dall’Ospedale Civile, dalle Università di Leggi ed Economia, dal
suggestivo anfiteatro romano e dall’Orto botanico. Il mare, situato in fondo, definirà
al meglio le immagini di questa cartolina.
Da un breve conciliabolo
degli organizzatori si ha modo di capire che il desiderio di inquadrare gli
angoli tra i più caratteristici di Cagliari non potrà essere appagato per
questioni di tempo. La marcia indietro presso la già citata porta ci indirizza
verso la vicina Piazza Palazzo o Piazza Indipendenza. Situata nella parte più
elevata del quartiere ha per contorni la Torre di San Pancrazio, il Palazzo Sabaudo,
la Curia, il Duomo e l’Ex Museo Regio. E’ in questa Piazza di Castello che il
gruppo, tenuto conto che la maggioranza dei partecipanti conosce a perfezione i
percorsi che portano ad un ristorante di Via Sardegna, un tracciato parallelo a
quello dei portici di Via Roma, decide di sciogliersi e rispettare le libere
scelte di ognuno. Personalmente ritengo giusta detta motivazione che mi
permette di indugiare nei luoghi a me più cari del periodo vissuto in gioventù.
Nulla è cambiato rispetto
al tempo in cui usavo scendere a passo spedito lungo la Via La Marmora e la
parallela Via Canelles per guadagnare, all’esterno delle imponenti
fortificazioni del rione, gli spazi aperti che portano al Bastione ed alla
sottostante Piazza Costituzione. Da qui per poter raggiungere I Portici di Via
Roma, la principale arteria cittadina, era sufficiente proseguire, sempre in
discesa, lungo il Viale Regina Margherita oppure imboccare il Largo Carlo
Felice dopo aver ripiegato per la Via Manno. Raramente, nelle mie brevi
passeggiate, utilizzavo i vicoli tortuosi che portano, attraverso un centinaio
di insidiosi scalini all’antico e caratteristico quartiere della Marina dove è
ubicato il nostro punto di ristoro.
E’ soprattutto in Piazza Palazzo
che ritengo soffermarmi per riferire di una visita effettuata una ventina di
anni addietro al profondissimo Pozzo di San Pancrazio e di quelle più frequenti
alla vicina cattedrale.
Devo premettere intanto
che il quartiere Castello è noto non solo per le sue torri ma anche per i suoi
pozzi, ben cinque, tra i quali occorre far menzione della fonte sotterranea di
San Pancrazio, un’opera costruita al centro di Piazza Indipendenza intorno alla
prima metà del Cinquecento. Sono ben 77 i metri che corrono dall’imboccatura
sino alle falde acquatiche mentre un’altra decina vanno a interessare la massa
del liquido che scorre sui fondali. Una profondità inferiore avrebbe
compromesso ai residenti i benefici derivanti dagli apporti idrici assicurati,
dal basso verso l’alto, dal movimento rotatorio degli elevatori a tazze chiamati
norie. Bisogna precisare che tutto il lavoro svolto dagli animali, sino alla
fine del terzo decennio dell’Ottocento, avveniva all’aperto, ma successivamente,
per rimediare a questioni di decoro e di carattere igienico, si dovette operare
qualche metro al disotto del piano stradale
con la copertura di una grande volta. Relegato al piano inferiore il
cavallo non poteva più creare malcontenti a chicchessia.
Durante la mia visita di
venti anni addietro avevo potuto, accedendo da una scala a pioli posizionata
nei pressi dell’ex museo regio e da un breve sottopassaggio, prendere visione
del tutto eccezione fatta dell’assemblaggio ligneo supportato dall’imboccatura.
A partire dal 1867, con la
realizzazione dell’acquedotto progettato dall’ingegnere Felice Giordano, la
grande noria sabauda esaurì il suo compito e così fu posta la parola fine anche
al calpestio del cavallo attorno ai marchingegni dell’enorme mulino d’acqua.
Degli svariati organi che
vanno a comporre detta ruota idraulica avevo già fatto conoscenza durante una
mia visita alle campagne di Uta dove l’anziano Efisio Nonnis mi aveva reso
edotto del tutto. Tra gli elementi più importanti del complesso assemblaggio
ritengo doveroso riferire di su casteddu, is ballaustus, is rimbilleris, is
arrodeddus, is pedras de su mobinu, sa pedra soba, s’ascia de su mobinu, sa
cadena,, s’accotzu, sa petia trota, sa ghia e su baddadore. Completano il
patrimonio figurativo le parti mobili ossia le tazze delegate al sollevamento
dell’acqua in superficie. Nel dialetto cagliaritano venivano chiamate tuvus
mentre in quello oristanese congius e congioargius erano denominate le
maestranze addette alla loro lavorazione.
Per quanto riguarda le
funzioni dei singoli organi tornerà utile consultare il lavoro Norie di Sardegna.
La visita domenicale al
Duomo di Cagliari è stata per me, nel quinquennio che corre dal 1959 al 1964, una
ricorrenza consuetudinaria di tutto rispetto. Oggi ne approfitto, come allora, per
varcare uno delle tre porte che abilitano all’ingresso del tempio. Pur essendo
un giorno feriale i fedeli non mancano, anzi sono numerosi ed accalcati nelle
prime posizioni in prossimità del presbiterio, dove si sta concludendo una funzione
religiosa in favore di qualche santo protettore degli infermi. Nel parterre
quattro alfieri, disposti a quadrato, stazionano impeccabili sull’attenti, con labari
e stemmi, senza tradire il minimo disappunto. Fanno da cornice a questi
volontari tante crocerossine inappuntabili per portamento e distinzione. Il
clima tutt’intorno sa di festosità.
In questa chiesa, che
ricalca in successione gli stili romanico, gotico e barocco, aveva prestato
servizio in qualità di arcivescovo un mio conterraneo nel triennio che va dal 1837
al 1840, anno della sua morte. In precedenza. Antonio Tore, questo il suo nome,
dopo aver svolto il suo ministero sacerdotale in diversi centri della Barbagia,
era stato incaricato di reggere la diocesi di Oristano nelle vesti di Vicario
capitolare, quindi consacrato vescovo a Bosa e successivamente nominato presule
nella diocesi di Ales per il decennio che corre dal 1828.
E’ sempre un piacere sostare negli interni di questa chiesa monumentale dove gli acronimi D.O.M. e J.H.S riportati in testata alle varie epigrafi sono il riconoscimento dovuto al Padre eterno (Domino, Optimo, Maximo) ed al Suo diletto Figlio (Gesù, Salvatore degli uomini).
Giovanni Mura Con le attenzioni dell’Associazione Cinquanta & Più di Oristano
lunedì 9 dicembre 2024
Gita sul Monte Arci
Il Monte Arci è rappresentato nella Sardegna
centrale da una vasta area che funge da cuscinetto tra il Campidano di Oristano
e l’Alta Marmilla.
Seguendo le indicazioni della guida
turistica, che da bordo pullman ci fornisce interessanti anticipazioni sui punti
di maggior rilievo di detta regione, apprendiamo che il sito in oggetto ha una forma
ellittica con gli assi maggiore e minore rispettivamente di quattordici e sette
chilometri, con direzione nord-sud per il primo di essi ed ovest-est per il
secondo.
Preciso intanto che per ellisse si intende
una figura geometrica di forma ovale. Si potrebbe, ricorrendo all’utilizzo di
uno spago della lunghezza di una ventina di centimetri e di una penna,
riprodurre su un foglio di carta il grafico in questione. Per ottenere il
disegno è necessario servirsi di ambo le mani. I polpastrelli del pollice e dell’indice
del braccio sinistro, distanziati di un una decina di centimetri, eserciteranno
una leggera pressione sui capi terminali del filo mentre quelli della mano
sinistra trascineranno, facendo una certa tensione sullo spago, la punta
scrivente verso un tracciato raffigurante una mezza ellisse. Per completare il
disegno occorrerà eseguire il procedimento inverso e cioè operando sui
terminali del cavetto, con i polpastrelli del braccio destro, e sulla penna,
con quelli della mano sinistra. Un esempio pratico e veloce può essere fornito
dal taglio di una pera in due parti delle quali una di esse deve contenere il
picciolo. Si ottengono in tal modo due ellissi uguali.
Del territorio, di cui abbiamo inquadrato
con molta approssimazione i suoi contorni, la nostra guida si intrattiene a
presentare i maggiori eventi che hanno caratterizzato in passato la sua storia.
Riferisce, in proposito, di eruzioni vulcaniche, di versamenti lavici e dei
singolari materiali formatisi sul terreno a seguito del raffreddamento del
magma. In particolare si sofferma a trattare dell’ossidiana, un prodotto
esclusivo di questa montagna e di pochissimi altri siti del nostro pianeta ma,
prima di inseguire detto argomento, mi permetto, facendo riferimento a quanto
appreso a scuola, di avanzare la seguente considerazione di carattere
vulcanologico. E’ mia presunzione infatti, tenuto presente che il raggio terrestre,
calcolato in seimila chilometri, incontra in successione, gli strati di materia
a base di silicio e alluminio per il primo grado di discesa, silicio e magnesio
per il secondo e nichelio e ferro per il terzo, che l’azione eruttiva si
manifesti unicamente lungo la fascia aderente alla crosta terrestre. Di queste
forti scosse implosive ha risentito anche il nostro monte con bocche da fuoco
poste in località Trebina longa, la più alta vetta del massiccio, Trebina lada e
Su Corongiu de Sizoa, terzetto altimetrico ordinato sul terreno dalla forma di un
treppiede.
Alla valida esposizione della guida di bordo
farà seguito, una volta giunti a destinazione, il dettagliato racconto di colei
che ci accompagnerà, in mattinata, nel percorso ad anello lungo il tracciato
delle coltivazioni dell’ossidiana e, nel pomeriggio, nella visita alle varie
sale del museo di Pau, il piccolo borgo situato alla fine di una corsa che, nel
programma del nostro viaggio, ha interessato i centri di Oristano, Silì,
Simaxis, Usellus e Villaverde.
Alla presunta fermata in paese si preferisce,
con il beneplacito dei gitanti e degli organizzatori, procedere sino al punto
più basso della vicina montagna, luogo che offre la possibilità, prima di dare
inizio alla escursione naturalistica nel fitto bosco, di apprendere dalla viva
voce della guida locale una lezione sull’ossidiana.
L’officina del passato si presenta ai nostri
occhi e alla nostra curiosità con una parete incastonata dagli scarti di lavorazione
operati dai nostri predecessori del Neolitico, ossia del periodo che corre dal
Seimila al Duemila avanti Cristo. Detti resti erano ottenuti dalla
sfaccettatura di piccoli blocchi di ossidiana, operazione questa che permetteva
di ottenere scaglie e strumenti di raschiamento da esitare commercialmente
nell’area mediterranea. I nostri antenati riuscivano ad inseguire i loro programmi
di lavorazione facendo ricorso a materiali con un maggiore grado di durezza ed
agendo sui punti di maggior fragilità del materiale da scalfire.
Il pezzo informe che ci viene mostrato, di
un colore di intenso nero, assume la grandezza di un peperone. Ad occhio nudo
si possono intravedere le numerose scaglie che si susseguono e si sovrappongono
le une con le altre come le brattee ossia le foglie verdi viola di un carciofo
o anche le squame di una pigna. Dell’operazione relativa alla sfaccettatura riusciremo
ad avere. in un filmato curato dal locale museo, una buona conferma delle
procedure eseguite in illo tempore. Sempre trattando di questo vetro
purissimo ad altissimo contenuto di silicio, la guida riferisce, in chiusura, che
il medesimo ha un grado di durezza che si oppone alla scalfittura operata da
materiali più deboli. Nella scala di Mohs, l’ossidiana, al contrario del
diamante che si porta a 10, il valore più elevato, è registrata con il valore
cinque.
Inseguendo il percorso che porta su in
montagna non possiamo fare a meno di fare menzione di quanto spettacolo è
offerto dalla natura di questi luoghi. Si cammina in salita per qualche
chilometro inseguendo corsie tappezzate da piccoli frammenti di ossidiana e
rigate in lungo ed in largo dal passaggio di famelici suini alla ricerca di
ghiande, il loro cibo prelibato.
Stiamo attraversando un bosco fitto di
piante di rovere, leccio, sughero, corbezzolo e di qualche arbusto di erica
scoparia. Nel dialetto del mio paese, dove la vegetazione ricalca per sommi
capi quella del centro che ci ospita, si ricorre alla terminologia dei creccos,
iliges, suergios, illiones e framiu. Su cheleisone, ossia il frutto
del corbezzolo, dipinge il nostro percorso con i suoi colori che sanno di
giallo e di rosso. A bordo strada non sfugge ai gitanti la rigogliosa presenza
della cicoria selvatica. Si esse potziu, n’aia arregortu una bertula (se
avessi potuto ne avrei raccolto una bisaccia).
Più avanti una grande vasca antincendio,
anticipata nelle nostre immagini da grossi bocchettoni idraulici, ci riporta
ancora alla configurazione di una ellisse. Questa figura in geometria analitica
è presentata come il luogo dei punti del piano per i quali è costante la
somma delle distanze da due punti fissi chiamati fuochi. Una persona,
impegnata a percorrere il tracciato di bordo vasca confermerebbe a pieno titolo
l’assunto della citata definizione.
Non possiamo fare a meno, procedendo nel
nostro percorso, di menzionare la singolare finestra panoramica che si affaccia
da ovest ad est su buona parte dell’isola centrale. Non mi sfuggono in
lontananza le vette più elevate del Gennargentu e le loro denominazioni. Si
tratta di Punta La Marmora e della vicinissima Punta Paolina.
Si ha l’impressione di vederle quasi ad una
altimetria inferiore a quella in cui ci troviamoi ma è solo un’impressione
ottica. Anche se Trebina longa, cima che sta sopra le nostre teste ad una
altezza di 812 metri, registra un valore di tutto rispetto, è pur sempre debitrice
verso il monte barbaricino di ben 1000 metri.
La prima volta che feci visita al
Gennargentu avevo quattordici anni. Correva l’anno 1953 e correva anche il caldo
mese di agosto. Per poter assistere agli spettacoli offerti dall’alba e
dall’aurora dovetti scalare il tratto che dal Rifugio del Re porta alla vetta
durante le ore antelucane. Detto percorso ricoperto da imponenti ed insidiose
lastre di schisto è denominato Su Sciusciu ossia La Discarica.
Terminato il tortuoso percorso ad anello attorno
alla montagna, si ha modo di risalire a bordo pullman e rientrare a Pau per una
sosta compensatrice degli sforzi compiuti in mattinata.
Nel pomeriggio siamo attesi al museo
comunale dove, unitamente alle collezioni private di lavoratori dell’ossidiana
vediamo esposte in vetrina interessanti varietà di minerali provenienti dai giacimenti
del Monte Arci. La comprensione dei vari passaggi di carattere culturale è
facilitata, come al solito, dalla disponibilità e capacità della attenta guida
turistica. Una volta all’esterno ci troviamo in pieno centro dove una bella piazza
movimentata da una elegante pavimentazione di tipo basaltico funge da
anfiteatro ad un insieme in cui si affiancano, in senso quasi rotatorio, le
facciate del museo, di una villetta con un curatissimo giardino, del ristorante
che ci ha ospitato nel primo pomeriggio, di un’altra abitazione con posti a
sedere sul davanti, della casa parrocchiale e della chiesetta. Detto luogo di
culto si esprime con garbo e semplicità con un frontone corredato in alto da
una piccola croce greca, con un rosone rappresentato solo per metà e con un portone
che invita all’ingresso della messa vespertina. Di lato il campanile a vela, raggiungibile
con il ricorso a due scale a chiocciola poste sul retro della struttura campanaria,
si articola verso l’alto con una copertura di valenza baroccheggiante e con una
croce simile alla precedente. Le due campane, di diversa dimensione e fattura,
stanno in angusti abitacoli senza possibilità di comunicare tra loro. Mi vien
quasi voglia di raggiungerle dal sagrato, che sta sotto di esse meno di sette
od otto metri, ma preferisco fare una visita brevissima all’interno della
pieve. Varcato il portone, senza procedere verso la zona che conduce al
transetto ed al presbiterio, resto nella zona riservata alla bussola d’ingresso,
posizione ideale per cogliere la semplicità e il buon gusto presentati dagli
arredi delle varie cappelle e dalla composizione floreale dell’altare.
Approfitto intanto, dopo le brevi esternazioni
condotte sul tempio, per dedicare un pensiero all’Altissimo suffragato dalla
promessa di essere presente domani in Oristano alla messa domenicale. Tengo a
precisare in proposito che, nel corso della mia vita, non sono mai venuto meno,
salvo casi di forza maggiore, a detto obbligo ecclesiastico settimanale. Rispettando
detto impegno dei giorni festivi non faccio che saldare un debito di riconoscenza
che ho verso mia madre, una vera credente. Non posso dimenticare, al riguardo,
le immagini offerte dalla mamma mentre saliva in ginocchio ed in preghiera i
ventotto scalini della Scala Santa, gradini che io, bambino di tre o quattro
anni, superavo saltellando. Per queste mie irriverenze non venivo, data l’età,
mai ripreso. Fui invece ammonito con toni accesi quando, più tardi, esattamente
nel 1948, un anno prima che passasse a miglior vita, manifestai il proposito di
non andare più a messa. Fu per me una lezione esemplare.
martedì 18 giugno 2024
Gita in Marmilla
Gita in Marmilla
L’Associazione
Cinquanta & Più di Oristano ha ritenuto, con l’avvio delle prossime vacanze
estive, di chiudere la stagione primaverile con una breve gita nel dipartimento
oristanese della Marmilla. Le località definite nel programma sono Masullas,
Pompu e Turri. Alle prime due sedi sono riservati i tracciati di maggior
interesse culturale mentre alla terza è stato assegnato il compito di carattere
gastronomico.
In
particolare a Masullas, le guide locali si adopereranno per illustrare ai
partecipanti le note più salienti sui vari ambiti della chiesa parrocchiale e
del museo cittadino mentre a Pompu gli accompagnatori turistici saranno
impegnati a presentare, in reparti distribuiti in diverse salette di un caseggiato
a pian terreno, i vari processi della panificazione secondo le regole del
passato.
Il
dulcis in fundo sarà regolato a Turri nell’ampio salone di un ristorante adagiato
nella natura incontaminata del suo territorio.
La
partenza da Oristano è fissata per le otto e mezza mentre l’arrivo nella prima
località è previsto intorno alle ore nove e un quarto. I partecipanti al raduno,
nel numero di una ventina, troveranno comodamente posto nel pullman prescelto dagli
organizzatori.
Una volta
giunti a Masullas, il gruppo dei gitanti si incammina a passo spedito verso l’abitazione
di uno degli associati dove, nel piano terreno, verranno offerti aperitivi, pasticcini,
e caffè. A questa sontuosa anteprima dedicata alla colazione farà seguito la
visita alla vicina pieve, luogo di culto dedicato alla Beata Vergine delle
Grazie.
Ed
eccoci sul sagrato. Alle attente osservazioni della guida, che avrà il suo gran
da fare nell’illustrazione degli esterni e degli interni della parrocchia,
dovrò purtroppo rinunciare a causa di una sordità che non mi consente di
recepire chiaramente le fila del discorso. Per giunta mi ritrovo orfano di
entrambi gli auricolari e, fino a quando non saranno riparati, dovrò affidarmi
a ciò che vedo ed a quanto può impressionarmi.
Mentre
gli altri si trovano all’interno della chiesa, preferisco sostare sul suo
piazzale per osservare con molta attenzione la singolare ed intrigante facciata
ed il bianco campanile che la sovrasta dall’alto dei suoi trentasette metri.
Ho usato
il termine singolare in quanto il frontone, normalmente rappresentato dalla
superficie di un triangolo isoscele, assume la forma di in trapezio dove i lati
obliqui somigliano al lato ascendente ed a quello discendente della lettera
maiuscola Emme mentre la base minore funge da congiunzione tra i due vertici
con un leggera curvatura verso l’asse mediano. Il credere che detta lettera,
riscontrabile nello stile calligrafico denominato Rotondo, possa rappresentare l’iniziale
del nome della Vergine Maria, è solo frutto della mia immaginazione.
Sono
ricorso al termine intrigante per giustificare le difficoltà incontrate
nella lettura dell’iscrizione incisa sopra il portone d’ingresso. Mi auguro
comunque di essere riuscito a risolvere il quesito con la seguente traduzione:
QUESTA
OPERA E’ STATA REALIZZATA DI PROPRIA INIZIATIVA DAL SIGNORE DON FRANCESCO
MASONES NIN VESCOVO. 1694.
Preciso
che i cognomi dei genitori del vescovo della Diocesi di Ales-Usellus sono
Masones e Nin.
Riporto
intanto quanto risulta scritto nell’epigrafe:
HOC
OPPUS LABORAVIT MP A DNO DONFRAN.co M. ET NIN. EPO.1694.
In
forma corretta e sciolta si leggerebbe:
HOC
OPUS LABORAVIT M(OTU) P(ROPRIO) A D(OMI)NO DON FRAN(CIS)CO M(ASONES) ET NIN. E(PISCO)PO.
1694.
Detta
scritta, definita in caratteri lapidei lungo una sola linea orizzontale,
risulta affiancata da una duplice coppia di colonne con i capitelli che
sorreggono la base maggiore del timpano. Sulla linea mediana della facciata
risultano in chiara evidenza il rosone e il trigramma di San Bernardino.
L’intera
facciata, ad onore del vero molto bella, risponde alle regole dello stile
barocco.
Quando
i gitanti cominciano ad uscire dal tempio, colgo l’occasione per fare una
brevissima visita agli interni dove concludo con veloci osservazioni sulle
cappelle che si susseguono lungo la navata centrale. Archi a tutto sesto per la
maggior parte di esse ed archi ogivali per le cappelle che guardano più da
vicino il presbiterio. In alto a queste ultime si osservano volte a crociera
con corpose chiavi di forma tronco conica.
Prima
di chiudere con la visita alla chiesa parrocchiale tengo a precisare di non
aver avuto alcuna difficoltà nel decifrare quanto definito nell’epigrafe citata
per i seguenti motivi:
a) In terra di Marmilla sono di casa. In
particolare, nell’archivio storico della diocesi di Ales, con l’intenzione di
ricostruire i passi più importanti della vita di Antonio Tore, un mio
conterraneo tonarese vissuto tra gli ultimi decenni del Settecento e gli anni Quaranta
dell’Ottocento, ho bivaccato per una trentina di sedute da sei ore ciascuna. Come
religioso aveva svolto il suo ministero in diversi centri della Barbagia e, sempre
in età giovanile, aveva assunto le mansioni di vicario generale nella diocesi
di Oristano. Consacrato vescovo a Bosa fu incaricato di governare la diocesi di
Ales dove prestò i suoi servizi per circa un decennio. In seguito fu trasferito
a Cagliari per esercitare la delicata funzione di arcivescovo.
b) Ad Oristano, mia residenza da lungo
tempo, sempre inseguendo le orme dell’alto prelato, ho potuto utilizzare al
meglio i registri della mia parrocchia tonarese che ora risultano depositati
nell’Archivio Storico arborense. Per assolvere a questo faticoso compito ho
impiegato un tempo superiore ai dieci anni.
c) Forte dell’esperienza curata nei centri
diocesani di Oristano, Ales e Cagliari, ritengo di non aver mai trovato eccessive
difficoltà nell’esaminare i documenti di un passato che corre dalla fine del
Cinquecento ad oggi. Porto un esempio che fa riferimento alla iscrizione posta sulla
stele di una fonte tonarese e che ricalca in qualche passaggio l’epigrafe posta
in risalto sulla facciata della chiesa masullese. In essa viene riferito che l’opera
venne eseguita nel 1762 a merito del suo rettore e dei suoi tre viceparroci. In
questo caso i Cinque libri mi vennero incontro con la conferma degli estremi
anagrafici di tutti i religiosi citati nell’incisione.
Dopo
aver reso visita alla parrocchia il gruppo si ricompone ed è pronto per
indirizzarsi alla volta del vicino museo naturalistico. La maggior parte dei
componenti trova il modo, durante il trasferimento, di concedersi una breve
pausa nei pressi della casa colonica di Francesco, un signore che con molto
garbo si presta a brevi interviste sulla tenuta agraria che fronteggia la sua
abitazione. Tra noi e l’agricoltore insiste una recinzione che supera
abbondantemente il metro e mezzo d’altezza e sulla quale qualcuno si distende
con gli avambracci, dietro di lui in prima fila due ampi solchi di piantine di
melanzana, in seconda fila i cetrioli, in terza le zucchine ed al termine la
sua dimora. Alla sua sinistra una catasta
di legna d’ardere di olivastro e sparsi sul terreno strumenti del mestiere che
sanno di cesoie, roncole, zappe, rastrelli e pompe per l’irrigazione. Non vedo
piantine di pomodoro. Sono là in fondo, riferisce Francesco. Fra qualche
settimana, il raccolto di dette primizie onorerà le mense dei buongustai. I
fagiolini, intanto, hanno già fatto la loro apparizione in tavola da tempo.
Di
solito uso sempre coltivare amicizie con contadini e falegnami. Dagli uni e
dagli altri cerco sempre di carpire segreti sulle loro professioni. In questa occasione,
sento il dovere di rinnovare il mio ricordo per Peppino, un coetaneo deceduto un
semestre addietro. Due anni fa mi aveva regalato una penna modellata col tornio
su legno di castagno e sulla quale aveva inciso le sue iniziali. Una opera
d’arte, uno strumento che utilizzo con piacere nella stesura dei miei servizi.
Al
museo naturalistico, ospitato nelle salette dell’ex convento dei Cappuccini,
c’è tanto da apprendere intorno alla vasta e documentata esposizione di
minerali. Molti di essi sono presentati sia sotto l’aspetto compositivo che
cristallografico. I reperti recuperati principalmente nella zona del Monte Arci
fanno riferimento alle eruzioni vulcaniche del passato. L’ossidiana, minerale ad
alto contenuto di silicio, non può mancare in bacheca. E’ notorio che la crosta
terrestre del nostro pianeta, qualificata con l’acronimo SIAL, va ad accogliere come elementi il silicio e
l’alluminio. Per gli strati che portano al centro della terra, non interessati quindi
ai movimenti teutonici, valgono invece le definizioni SIMA E NIFE (Silicio,
Magnesio, Nichelio e Ferro).
Tra le
sostanze calcaree è in esposizione la calcite, un sale minerale i cui elementi
sono il carbonio, il calcio e l’ossigeno. Le guide al seguito si fanno apprezzare per l’esposizione
dei loro argomenti e per le risposte ai quesiti dei visitatori.
Con un
certo sforzo riesco ancora a coniugare la lettura di ciò che maggiormente
interessa le mie attenzioni con i lineamenti scolatici legati allo studio della
chimica. Ossidi ed idrati vanno d’accordo con i metalli mentre le anidridi e
gli acidi convivono con i metalloidi. Il termine di congiunzione finale è dato
dai sali. Ed in questo museo non si parla d’altro che di sali minerali,
Pompu,
paese di duecentoventi anime, è la seconda tappa del nostro excursus
mattiniero. Per arrivarci bisogna inseguire vaste distese collinari, ben
ormeggiate da piantagioni di ulivo ed olivastro, che si susseguono a perdita
d’occhio con sequenze rettangolari nelle aree curate dalla mano dell’uomo e in
ordine sparso e diseguale nelle superfici orfane dell’apporto umano.
Molto
interessante la visita condotta sui diversi tipi di panificazione elaborati secondo
le regole del passato. Il tutto viene presentato nei reparti allestiti nei
locali di un edificio comunale.
Naturalmente
si fa riferimento ai tempi in cui la macinazione del grano veniva attuata con
il concorso dell’asino, il quale, operando attorno alla mola con cerchi
concentrici, favoriva la rotazione del palmento intorno alla base fissa del
mulino. Con molta sincerità devo ammettere di non aver mai assistito alle
operazioni governate dall’animale. Eppure il contributo del paziente quadrupede
è stato determinante anche nel sollevamento dell’acqua dai pozzi. Le norie del
passato hanno ceduto il passo alle pompe idrauliche del presente.
A
Samugheo, in località Ponte Ecciu, avevo presenziato, una ventina di anni fa,
alla macinazione del grano operata con i palmenti fatti ruotare dall’acqua del
fiume.
Il mio
paese, con l’utilizzo dell’energia elettrica datata 1925, ha dovuto fare a meno
dei mulini ad acqua già dall’inizio degli anni Trenta. In quegli anni nella mia
abitazione di Via Vittorio Emanuele venne impiantato un mulino elettrico che
successivamente, verso gli inizi degli anni Quaranta, fu dislocato nella casa
dei Garau in Sa Discarriga, Devo precisare che mia madre, prima del 1936, anno
in cui convolò a nozze, aveva prestato il suo servizio nell’arte molitoria come
mugnaia.
Un ultimo
appuntamento è riservato all’immagine fotografica di un nuraghe quadrilobato
esistente ai confini del paese. Santu Miale è il nome che gli è stato assegnato
ab illo tempore. Miale sta per Michele e Mialita per Michela.
Così risulta dai registri parrocchiali tonaresi di inizio Seicento.
L’ultima
tappa si consuma in un ristorante di Turri. La capienza del salone può ospitare
comodamente sino a cento commensali. Nulla da eccepire sulla celerità dei
servizi e sulla bontà delle bevande e delle cibarie. Ad ogni inserviente ai
tavoli ho riservato il termine di Achillide, ossia Piè veloce Achille. E’
questo un neologismo che vale più di un complimento.
giovedì 13 giugno 2024
Masullas
Masullas
Iscrizione
sul frontone della chiesa parrocchiale
Trattando a grandi linee
della chiesa parrocchiale di Masullas, mi sento in dovere di partecipare ai suoi
fedeli frequentatori che la progettazione e la costruzione dell’edificio di
culto vennero portate a termine nel 1694 a merito del cagliaritano Francesco
Masones Nin, vescovo della Diocesi di Ales – Usellus.
Sul frontone, appena al
disopra del portone d’ingresso ma sotto il trigramma di San Bernardino, risulta
bene evidenziata la seguente iscrizione:
HOC OPPUS LABORAVIT MP
A DNO DONFRAN.co. M. ET NIN EPO. 1694.
Presentando il tutto in
forma sciolta e più corretta si otterranno le seguenti conclusioni: HOC OPUS
LABORAVIT M(OTU) P(ROPRIO) A D(OMI)NO DON FRAN(CIS)co M(ASONES) ET NIN
E(PISCO)PO. 1694.
Qui di seguito la mia costruzione
letterale in italiano:
QUESTA OPERA E’ STATA
REALIZZATA DI PROPRIA INIZIATIVA DAL SIGNORE DON FRANCESCO MASONES NIN VESCOVO. 1694.
‘’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’
Mi riservo di coniugare
il riscontro di questo modesto contributo con la pubblicazione a più ampio
respiro del resoconto della gita consumata domenica scorsa nel dipartimento
della Marmilla.
Oristano, 12 giugno 2024
Giovanni Mura