Memorie tonaresi in pratza manna

sabato 29 marzo 2025

Piazze degli Zucca e di Maria Pra di Sotto


Tonara

Piazze degli Zucca e di Maria Pra di Sotto
(Pratza ‘e is Tzucas e de Maria Pra ‘e Osso)


Del rione di Toneri, esteso quartiere del comune di Tonara, facevano parte in passato le contrade denominate Pratza ‘e is Tzucas (Piazza degli Zucca) e Maria Pra ‘e Osso (Maria Pra di basso).

Le testimonianze riportate dal sacerdote Domenico Martini nel censimento parrocchiale del 1829 riferiscono che le contrade citate erano costituite da quarantaquattro e da trentacinque unità con una ripartizione di dodici famiglie per la prima comunità e di undici per la seconda.

Bisogna precisare che della prima dozzina di nuclei familiari facevano parte sei giovani coppie non ancora trentenni e con un solo figlio al primo anno di vita. Trattavasi nel complesso di una comunità molto giovane nella quale l’elemento più anziano veniva segnalato da una donna di 67 anni, suocera di un capo famiglia.

La composizione degli 11 gruppi di Maria Pra di sotto, è molto varia in quanto fa registrare quasi la metà dei residenti nell’ambito di due sole famiglie, ben sedici, con i restanti distribuiti in contesti nei quali i genitori convivono con pochi figli. Due vedove di 77 e 56 anni ed una nubile di 32 abitano in versione solitaria nelle loro rispettive case. E’ considerato assente, per motivi di studio, Emanuele Defigus, un sacerdote che aveva vissuto nella comunità tonarese, sino alla fine dei suoi giorni, nell’abitazione di Sa Pratzitta, la singolare piazzetta posta in alto alla sotto frazione.

Una breve descrizione sulla ubicazione delle contrade citate.

Per il viceparroco Domenico Martini, dover procedere al censimento del 1829, significava tener conto, a partire dalle postazioni più elevate della frazione di Toneri, delle seguenti contrade:

Craccalasi, Catzolaghedu, Cortzò, Pratza de is Garaus, Pratza manna, Maria Pra, Pratza de Senti Coco, Barigau, Maria Pra de Osso, Pratza de is Tzucas, Cartutzè e Morù.

Prima di definire dette sotto frazioni riteniamo opportuno dare informazioni più precise sulle superfici occupate da Pratza de is Garaus e Barigau.

 La prima di queste ha la singolare forma di un campetto di calcio con tanto di linea mediana che suddivide l’intera area in due parti quasi uguali. Detta linea divisoria è evidenziata da una singolare strettoia che in dialetto sardo viene chiamata errile. Al centro di questo vicolo si menziona un ballatoio che sembra fungere da interessante vedetta sul panorama rionale. Agli angoli di detta contrada possiamo citare, relativamente al periodo degli anni quaranta e cinquanta del secolo scorso, le abitazioni dei fratelli Deligia, del maestro Peppino Zucca, del negoziante Sebastiano Mereu e dei coniugi Garau-Contu con aperture che davano e danno ancora sulla via Sulis, Pratza manna, Corso Umberto e Via Vittorio Emanuele.

Barigau, la seconda delle contrade prese in esame, occupa buona parte del rione tonarese. Essa dà, nella parte superiore, su Pratza manna, e nella parte inferiore sul tracciato che dalla Piazza di Vincenzo Cocco porta verso la via Macallè mentre lateralmente insegue il percorso che comprende il classico ballatoio di Casa Porru, quello del portico denominato Su Portzu e per ultimo la scalinata che sale verso le abitazioni dei Succu, dei Corongiu e dei Todde.

Una ultima citazione per Maria Pra che, nel censimento del 1829, viene scissa in due sotto frazioni: Maria Pra e Maria Pra de Osso. La prima parte si può suddividere ancora in Maria Pra de Susu, interessata a ricoprire il tracciato della intera via Macallè, e Maria Pra de Mesu delegata ad inseguire la via Iosto, arteria quest’ultima compresa tra le contrade di Barigau, Vincenzo Cocco e Cartutzè.

Non ci resta che procedere, seguendo le indicazioni del Martini, alla identificazione delle aree occupate dai residenti di Maria Pra de Osso e di Pratza de is Tzuccas.

Il sacerdote in questione, partendo da Sa Pratzitta, la piazzetta che ai giorni d’oggi fronteggia l’unica abitazione vivibile di Maria Pra di Sotto, si dirige in discesa lungo la Via Santa Anastasia per censire, uno dopo l’altro gli undici nuclei familiari della sotto frazione. Terminerà le sue operazioni una volta raggiunta la regione di Su Accu, un’area definita da una rientranza del terreno che al suo interno va ad accogliere la Piazza degli Zucca. Da tener presente che il nostro rilevatore, prima di affrontare la non facile discesa della sotto frazione, si è lasciato dietro le vie di Maria Pra de Susu (oggi Via Macallè) e Maria Pra de Mesu (Via Iosto).

Intorno alla fine degli anni quaranta erano ancora visibili sul terreno le macerie di alcune abitazioni. Ricordo in particolare che i resti di un edificio di base quadrata e dell’altezza non superiore al metro sembravano invitarmi, ogni volta che da ragazzino passavo da quelle parti, a saltarci dentro per curiosare. Rileggendo il censimento del Martini mi viene da pensare che l’area da me percorsa lungo la sua diagonale, facesse parte del piano terreno dell’abitazione della numerosa famiglia dei coniugi Pruneddu-Carboni. Oggi non restano che poche tracce.

La linea di confine che circuiva buona parte della sotto frazione è rappresentata oggi da una recinzione in cemento armato che, a forma di arco parabolico, va ad inseguire la Via Santa Anastasia ed il tracciato che conduce verso il rione di Teliseri.

Al nostro operatore censuario, in vista ormai della conclusione del suo lavoro, non sarà occorso tanto tempo per raggiungere il suo scopo. Avrà ripiegato sulla breve salita che da Su Accu porta alle contrade degli Zucca e di Cartutzè per poi procedere più comodamente sul tratto pianeggiante della sotto frazione di Morù.

Nessuna traccia di carattere edilizio in Pratza de is Tzucas; soltanto vasti cumuli di pietre schistose e calcaree. Per raggiungere in comodità detta contrada è consigliabile portarsi sul lungo strada di Morù e da qui deviare a sinistra verso la regione Su Accu. Dopo una cinquantina di metri ci sarà spazio e modo per inseguire con la fantasia ogni immagine possibile. 

Al fine di memorizzare le contrade presentate dal Martini, vale a dire Cracalasi, Catzolaghedu, Cortzò, Pratza de is Caraos, Pratza manna, Maria Pra, Pratza de Senti Cocco, Barigau, Maria Pra de Osso, Pratza de is Tzuccas, Cartuzzè e Murù, potrebbe tornare utile servirsi del seguente scioglilingua:

Alasi e Aghedu corrono e gareggiano in Pratza manna e Maria Pra mentre Barigau vince un cartoccio di zucchero tra Maria Pra de Osso e Murù.

Le parti in grassetto facilitano il ricorso alle denominazioni delle sotto frazioni del rione di Toneri.

Una precisazione: Alasi (Agrifoglio), Aghedu (Aghedu) e Barigau (Trasandato, Oltre ogni limite) si prestano, in questa tiritera, ad essere configurati nelle vesti di atleti delle contrade di Craccalasi, Catzolaghedu e Barigau.

Per il termine Barigau non escludiamo il suo primo significato che è di valenza temporale ed equivale al giorno successivo al dopodomani. I primi quattro giorni della settimana, considerando l’oggi come punto di partenza, si presenterebbero, in dialetto tonarese, così: Oe, Crasa, Pusticrasa e Barigau.

Può valere, sempre in vernacolo locale, anche la seguente filastrocca:

(Istepetantis chi) (Nel mentre che) Alasi e Aghedu a s’iscoriu s’incarant a Pratza manna e Maria Pra, Barigau n’essidi a matzuccu, dae Maria Pra de Osso a Murù, cun d’unu cartutzu ’e cocoro.

Ritengo giusto segnalare che i sostantivi iscoriu (buio), matzuccu (bastone), cartutzu (misura di capacità da dieci litri per gli aridi) e cocoro (noci) sottintendono le contrade di Cortzò, Pratza de is Tzuccas, Cartutzè e Pratza de Senti Coco mentre la forma verbale incarant (da incarare=andare verso) sta per la sotto frazione denominata Caraos o meglio Pratza de is Caraos (alias Piazza dei Garau).

 


sabato 8 febbraio 2025

Gita a Cagliari

  

Gita a Cagliari

Visita ai suoi antichi quartieri

 

Sabato 25 gennaio è la data stabilita dall’Associazione 50 & Più di Oristano per una gita alla volta di Cagliari. Per il gruppo di cui faccio parte, una cinquantina di iscritti in tutto, la partenza ed il rientro ad Oristano, sono fissati per le ore nove del mattino e le diciannove della sera.

Da bordo pullman, lungo il tragitto in superstrada, non c’è altro che da ammirare quanto la natura, rappresentata da un paesaggio pianeggiante spesso incolto, ed in lontananza, incorniciato da montagne mute e severe, offre. Nei pressi di Marrubiu, una pala eolica di notevoli dimensioni, sembra invitare i passeggeri a perorare le giuste cause sulla sua esistenza.

E’ già Cagliari quando gli appelli griffati della pubblicità profusa dai numerosi esercizi di periferia cominciano a venirti incontro con frequenza ed insistenza sino a pochi metri dalla sede stradale.

Superati i quartieri storici di Sant’Avendrace e Stampace ci troviamo sulla via Roma, di fronte al porto, per poi proseguire nei viali Colombo e Regina Margherita. Giunti all’altezza dei Giardini pubblici ci viene porto l’invito a scendere per dare inizio alle visite previste dal programma. Dai più anziani, nell’affrontare la rampa che nello spazio di un centinaio di metri conduce a Porta San Pancrazio e quindi a Piazza Arsenale, sono da segnalare alcune difficoltà.

Siamo ormai in Castello, il quartiere più in alto di Cagliari. D’ora in avanti e per l’intera giornata non incontreremo altre salite.

Nessuna coda di visitatori al Museo archeologico. Forse siamo i primi avventori della giornata. Nel periodo invernale le visite sono sempre ridotte al minimo ma d’estate sp superano le settecento unità giornaliere.

L’edificio, un moderno stabile suddiviso in quattro piani, è ancorato a nord alla antica fortificazione del rione. Salendo in ascensore si possono notare lungo alcuni dislivelli rocciosi le feritoie sulle quali i tiratori scelti armeggiavano con archi e archibugi.

Il tempo per inseguire la storia dei reperti in esposizione non è mai sufficiente, per la carenza di una opportuna guida museale, a colmare ed appagare  la curiosità dei visitatori. In cambio devi far ricorso, una volta a casa, all’utilizzo dei depliant dati in omaggio o in mancanza di questi ai virtuosismi, talvolta impropri, dell’intelligenza artificiale. Questo vale soprattutto per la migliore lettura dei dipinti cinquecenteschi con olio su tavole del Cavaro, Mainas ed altri autori sardi. Le illustrazioni di quanto è esposto in vetrina sono abbastanza chiare. Questo vale anche per la eccelsa collezione di 23 pezzi anatomici modellati in cera dal Susini. In quest’ultimo caso si tratta di un lavoro a cui hanno partecipato tre illustri personaggi: Il Vicerè Carlo Felice, in qualità di committente, l’artista fiorentino Clemente Susini, nelle vesti di commissionario, e l’anatomista sardo Francesco Antonio Boi, assistente ai lavori. I vari organi di senso e quelli relativi ai nostri apparati e sistemi corporei pongono in evidenza la multiforme sfaccettatura del nostro organismo. Lo stupore del visitatore è dato dalla cera, un materiale che si presta a simulare efficacemente la disposizione de i vasi sanguigni, delle masse muscolari e dei tessuti epidermici. Si tratta di un’opera fra le uniche  al mondo. Onore al merito al finanziatore, all’artista e all’accademico. Il tutto, ben custodito in teche sottovetro, è supportato dalla attenta e continua presenza dei commessi i quali non mancano mai di invitarti a non fotografare i reperti. All’ora del pranzo, fissata per le tredici e trenta, non vorrei avere delle difficoltà a mandare giù qualche boccone. Sembrano ancora inseguirmi le espressioni cadaveriche di quei modelli anatomici ottocenteschi.

Dimenticavo di segnalare che ogni vetrina del museo fa ricorso all’uso della lingua italiana e di quella inglese. In una epigrafe posta all’esterno dello stabile il riferimento linguistico si rifà all’italiano ed al sardo, quest’ultimo in dialetto campidanese. E’ l’omaggio per eccellenza dovuto al Professor Lilliu, studioso al quale è dedicato il Museo archeologico di Cagliari.

Appena fuori dal Museo, il gruppo dei partecipanti si ricompone e decide di imboccare Porta Cristina per effettuare una breve passeggiata in Viale Buoncammino. Si avrà modo così di ammirare il panorama che dai tetti del quartiere di Stampace ti accompagna alle aree occupate dall’Ospedale Civile, dalle Università di Leggi ed Economia, dal suggestivo anfiteatro romano e dall’Orto botanico. Il mare, situato in fondo, definirà al meglio le immagini di questa cartolina.

Da un breve conciliabolo degli organizzatori si ha modo di capire che il desiderio di inquadrare gli angoli tra i più caratteristici di Cagliari non potrà essere appagato per questioni di tempo. La marcia indietro presso la già citata porta ci indirizza verso la vicina Piazza Palazzo o Piazza Indipendenza. Situata nella parte più elevata del quartiere ha per contorni la Torre di San Pancrazio, il Palazzo Sabaudo, la Curia, il Duomo e l’Ex Museo Regio. E’ in questa Piazza di Castello che il gruppo, tenuto conto che la maggioranza dei partecipanti conosce a perfezione i percorsi che portano ad un ristorante di Via Sardegna, un tracciato parallelo a quello dei portici di Via Roma, decide di sciogliersi e rispettare le libere scelte di ognuno. Personalmente ritengo giusta detta motivazione che mi permette di indugiare nei luoghi a me più cari del periodo vissuto  in gioventù.

Nulla è cambiato rispetto al tempo in cui usavo scendere a passo spedito lungo la Via La Marmora e la parallela Via Canelles per guadagnare, all’esterno delle imponenti fortificazioni del rione, gli spazi aperti che portano al Bastione ed alla sottostante Piazza Costituzione. Da qui per poter raggiungere I Portici di Via Roma, la principale arteria cittadina, era sufficiente proseguire, sempre in discesa, lungo il Viale Regina Margherita oppure imboccare il Largo Carlo Felice dopo aver ripiegato per la Via Manno. Raramente, nelle mie brevi passeggiate, utilizzavo i vicoli tortuosi che portano, attraverso un centinaio di insidiosi scalini all’antico e caratteristico quartiere della Marina dove è ubicato il nostro punto di ristoro.

E’ soprattutto in Piazza Palazzo che ritengo soffermarmi per riferire di una visita effettuata una ventina di anni addietro al profondissimo Pozzo di San Pancrazio e di quelle più frequenti alla vicina cattedrale.

Devo premettere intanto che il quartiere Castello è noto non solo per le sue torri ma anche per i suoi pozzi, ben cinque, tra i quali occorre far menzione della fonte sotterranea di San Pancrazio, un’opera costruita al centro di Piazza Indipendenza intorno alla prima metà del Cinquecento. Sono ben 77 i metri che corrono dall’imboccatura sino alle falde acquatiche mentre un’altra decina vanno a interessare la massa del liquido che scorre sui fondali. Una profondità inferiore avrebbe compromesso ai residenti i benefici derivanti dagli apporti idrici assicurati, dal basso verso l’alto, dal movimento rotatorio degli elevatori a tazze chiamati norie. Bisogna precisare che tutto il lavoro svolto dagli animali, sino alla fine del terzo decennio dell’Ottocento, avveniva all’aperto, ma successivamente, per rimediare a questioni di decoro e di carattere igienico, si dovette operare qualche metro al disotto del piano stradale  con la copertura di una grande volta. Relegato al piano inferiore il cavallo non poteva più creare malcontenti a chicchessia.

Durante la mia visita di venti anni addietro avevo potuto, accedendo da una scala a pioli posizionata nei pressi dell’ex museo regio e da un breve sottopassaggio, prendere visione del tutto eccezione fatta dell’assemblaggio ligneo supportato dall’imboccatura.

A partire dal 1867, con la realizzazione dell’acquedotto progettato dall’ingegnere Felice Giordano, la grande noria sabauda esaurì il suo compito e così fu posta la parola fine anche al calpestio del cavallo attorno ai marchingegni dell’enorme mulino d’acqua.

Degli svariati organi che vanno a comporre detta ruota idraulica avevo già fatto conoscenza durante una mia visita alle campagne di Uta dove l’anziano Efisio Nonnis mi aveva reso edotto del tutto. Tra gli elementi più importanti del complesso assemblaggio ritengo doveroso riferire di su casteddu, is ballaustus, is rimbilleris, is arrodeddus, is pedras de su mobinu, sa pedra soba, s’ascia de su mobinu, sa cadena,, s’accotzu, sa petia trota, sa ghia e su baddadore. Completano il patrimonio figurativo le parti mobili ossia le tazze delegate al sollevamento dell’acqua in superficie. Nel dialetto cagliaritano venivano chiamate tuvus mentre in quello oristanese congius e congioargius erano denominate le maestranze addette alla loro lavorazione.

Per quanto riguarda le funzioni dei singoli organi tornerà utile consultare il lavoro Norie di Sardegna.

La visita domenicale al Duomo di Cagliari è stata per me, nel quinquennio che corre dal 1959 al 1964, una ricorrenza consuetudinaria di tutto rispetto. Oggi ne approfitto, come allora, per varcare uno delle tre porte che abilitano all’ingresso del tempio. Pur essendo un giorno feriale i fedeli non mancano, anzi sono numerosi ed accalcati nelle prime posizioni in prossimità del presbiterio, dove si sta concludendo una funzione religiosa in favore di qualche santo protettore degli infermi. Nel parterre quattro alfieri, disposti a quadrato, stazionano impeccabili sull’attenti, con labari e stemmi, senza tradire il minimo disappunto. Fanno da cornice a questi volontari tante crocerossine inappuntabili per portamento e distinzione. Il clima tutt’intorno sa di festosità.

In questa chiesa, che ricalca in successione gli stili romanico, gotico e barocco, aveva prestato servizio in qualità di arcivescovo un mio conterraneo nel triennio che va dal 1837 al 1840, anno della sua morte. In precedenza. Antonio Tore, questo il suo nome, dopo aver svolto il suo ministero sacerdotale in diversi centri della Barbagia, era stato incaricato di reggere la diocesi di Oristano nelle vesti di Vicario capitolare, quindi consacrato vescovo a Bosa e successivamente nominato presule nella diocesi di Ales per il decennio che corre dal 1828.

E’ sempre un piacere sostare negli interni di questa chiesa monumentale dove gli acronimi D.O.M. e J.H.S riportati in testata alle varie epigrafi sono il riconoscimento dovuto al Padre eterno (Domino, Optimo, Maximo) ed al Suo diletto Figlio (Gesù, Salvatore degli uomini).

Giovanni Mura 
Con le attenzioni dell’Associazione Cinquanta & Più di Oristano





lunedì 9 dicembre 2024

Gita sul Monte Arci

 
                         Monte Arci sulle tracce dell'ossidiana



 

   Il Monte Arci è rappresentato nella Sardegna centrale da una vasta area che funge da cuscinetto tra il Campidano di Oristano e l’Alta Marmilla.

   Seguendo le indicazioni della guida turistica, che da bordo pullman ci fornisce interessanti anticipazioni sui punti di maggior rilievo di detta regione, apprendiamo che il sito in oggetto ha una forma ellittica con gli assi maggiore e minore rispettivamente di quattordici e sette chilometri, con direzione nord-sud per il primo di essi ed ovest-est per il secondo.

   Preciso intanto che per ellisse si intende una figura geometrica di forma ovale. Si potrebbe, ricorrendo all’utilizzo di uno spago della lunghezza di una ventina di centimetri e di una penna, riprodurre su un foglio di carta il grafico in questione. Per ottenere il disegno è necessario servirsi di ambo le mani. I polpastrelli del pollice e dell’indice del braccio sinistro, distanziati di un una decina di centimetri, eserciteranno una leggera pressione sui capi terminali del filo mentre quelli della mano sinistra trascineranno, facendo una certa tensione sullo spago, la punta scrivente verso un tracciato raffigurante una mezza ellisse. Per completare il disegno occorrerà eseguire il procedimento inverso e cioè operando sui terminali del cavetto, con i polpastrelli del braccio destro, e sulla penna, con quelli della mano sinistra. Un esempio pratico e veloce può essere fornito dal taglio di una pera in due parti delle quali una di esse deve contenere il picciolo. Si ottengono in tal modo due ellissi uguali.

   Del territorio, di cui abbiamo inquadrato con molta approssimazione i suoi contorni, la nostra guida si intrattiene a presentare i maggiori eventi che hanno caratterizzato in passato la sua storia. Riferisce, in proposito, di eruzioni vulcaniche, di versamenti lavici e dei singolari materiali formatisi sul terreno a seguito del raffreddamento del magma. In particolare si sofferma a trattare dell’ossidiana, un prodotto esclusivo di questa montagna e di pochissimi altri siti del nostro pianeta ma, prima di inseguire detto argomento, mi permetto, facendo riferimento a quanto appreso a scuola, di avanzare la seguente considerazione di carattere vulcanologico. E’ mia presunzione infatti, tenuto presente che il raggio terrestre, calcolato in seimila chilometri, incontra in successione, gli strati di materia a base di silicio e alluminio per il primo grado di discesa, silicio e magnesio per il secondo e nichelio e ferro per il terzo, che l’azione eruttiva si manifesti unicamente lungo la fascia aderente alla crosta terrestre. Di queste forti scosse implosive ha risentito anche il nostro monte con bocche da fuoco poste in località Trebina longa, la più alta vetta del massiccio, Trebina lada e Su Corongiu de Sizoa, terzetto altimetrico ordinato sul terreno dalla forma di un treppiede.

   Alla valida esposizione della guida di bordo farà seguito, una volta giunti a destinazione, il dettagliato racconto di colei che ci accompagnerà, in mattinata, nel percorso ad anello lungo il tracciato delle coltivazioni dell’ossidiana e, nel pomeriggio, nella visita alle varie sale del museo di Pau, il piccolo borgo situato alla fine di una corsa che, nel programma del nostro viaggio, ha interessato i centri di Oristano, Silì, Simaxis, Usellus e Villaverde.

   Alla presunta fermata in paese si preferisce, con il beneplacito dei gitanti e degli organizzatori, procedere sino al punto più basso della vicina montagna, luogo che offre la possibilità, prima di dare inizio alla escursione naturalistica nel fitto bosco, di apprendere dalla viva voce della guida locale una lezione sull’ossidiana.

   L’officina del passato si presenta ai nostri occhi e alla nostra curiosità con una parete incastonata dagli scarti di lavorazione operati dai nostri predecessori del Neolitico, ossia del periodo che corre dal Seimila al Duemila avanti Cristo. Detti resti erano ottenuti dalla sfaccettatura di piccoli blocchi di ossidiana, operazione questa che permetteva di ottenere scaglie e strumenti di raschiamento da esitare commercialmente nell’area mediterranea. I nostri antenati riuscivano ad inseguire i loro programmi di lavorazione facendo ricorso a materiali con un maggiore grado di durezza ed agendo sui punti di maggior fragilità del materiale da scalfire.

   Il pezzo informe che ci viene mostrato, di un colore di intenso nero, assume la grandezza di un peperone. Ad occhio nudo si possono intravedere le numerose scaglie che si susseguono e si sovrappongono le une con le altre come le brattee ossia le foglie verdi viola di un carciofo o anche le squame di una pigna. Dell’operazione relativa alla sfaccettatura riusciremo ad avere. in un filmato curato dal locale museo, una buona conferma delle procedure eseguite in illo tempore. Sempre trattando di questo vetro purissimo ad altissimo contenuto di silicio, la guida riferisce, in chiusura, che il medesimo ha un grado di durezza che si oppone alla scalfittura operata da materiali più deboli. Nella scala di Mohs, l’ossidiana, al contrario del diamante che si porta a 10, il valore più elevato, è registrata con il valore cinque.

   Inseguendo il percorso che porta su in montagna non possiamo fare a meno di fare menzione di quanto spettacolo è offerto dalla natura di questi luoghi. Si cammina in salita per qualche chilometro inseguendo corsie tappezzate da piccoli frammenti di ossidiana e rigate in lungo ed in largo dal passaggio di famelici suini alla ricerca di ghiande, il loro cibo prelibato.

   Stiamo attraversando un bosco fitto di piante di rovere, leccio, sughero, corbezzolo e di qualche arbusto di erica scoparia. Nel dialetto del mio paese, dove la vegetazione ricalca per sommi capi quella del centro che ci ospita, si ricorre alla terminologia dei creccos, iliges, suergios, illiones e framiu. Su cheleisone, ossia il frutto del corbezzolo, dipinge il nostro percorso con i suoi colori che sanno di giallo e di rosso. A bordo strada non sfugge ai gitanti la rigogliosa presenza della cicoria selvatica. Si esse potziu, n’aia arregortu una bertula (se avessi potuto ne avrei raccolto una bisaccia).

   Più avanti una grande vasca antincendio, anticipata nelle nostre immagini da grossi bocchettoni idraulici, ci riporta ancora alla configurazione di una ellisse. Questa figura in geometria analitica è presentata come il luogo dei punti del piano per i quali è costante la somma delle distanze da due punti fissi chiamati fuochi. Una persona, impegnata a percorrere il tracciato di bordo vasca confermerebbe a pieno titolo l’assunto della citata definizione.

   Non possiamo fare a meno, procedendo nel nostro percorso, di menzionare la singolare finestra panoramica che si affaccia da ovest ad est su buona parte dell’isola centrale. Non mi sfuggono in lontananza le vette più elevate del Gennargentu e le loro denominazioni. Si tratta di Punta La Marmora e della vicinissima Punta Paolina.

   Si ha l’impressione di vederle quasi ad una altimetria inferiore a quella in cui ci troviamoi ma è solo un’impressione ottica. Anche se Trebina longa, cima che sta sopra le nostre teste ad una altezza di 812 metri, registra un valore di tutto rispetto, è pur sempre debitrice verso il monte barbaricino di ben 1000 metri.

   La prima volta che feci visita al Gennargentu avevo quattordici anni. Correva l’anno 1953 e correva anche il caldo mese di agosto. Per poter assistere agli spettacoli offerti dall’alba e dall’aurora dovetti scalare il tratto che dal Rifugio del Re porta alla vetta durante le ore antelucane. Detto percorso ricoperto da imponenti ed insidiose lastre di schisto è denominato Su Sciusciu ossia La Discarica.

   Terminato il tortuoso percorso ad anello attorno alla montagna, si ha modo di risalire a bordo pullman e rientrare a Pau per una sosta compensatrice degli sforzi compiuti in mattinata.

   Nel pomeriggio siamo attesi al museo comunale dove, unitamente alle collezioni private di lavoratori dell’ossidiana vediamo esposte in vetrina interessanti varietà di minerali provenienti dai giacimenti del Monte Arci. La comprensione dei vari passaggi di carattere culturale è facilitata, come al solito, dalla disponibilità e capacità della attenta guida turistica. Una volta all’esterno ci troviamo in pieno centro dove una bella piazza movimentata da una elegante pavimentazione di tipo basaltico funge da anfiteatro ad un insieme in cui si affiancano, in senso quasi rotatorio, le facciate del museo, di una villetta con un curatissimo giardino, del ristorante che ci ha ospitato nel primo pomeriggio, di un’altra abitazione con posti a sedere sul davanti, della casa parrocchiale e della chiesetta. Detto luogo di culto si esprime con garbo e semplicità con un frontone corredato in alto da una piccola croce greca, con un rosone rappresentato solo per metà e con un portone che invita all’ingresso della messa vespertina. Di lato il campanile a vela, raggiungibile con il ricorso a due scale a chiocciola poste sul retro della struttura campanaria, si articola verso l’alto con una copertura di valenza baroccheggiante e con una croce simile alla precedente. Le due campane, di diversa dimensione e fattura, stanno in angusti abitacoli senza possibilità di comunicare tra loro. Mi vien quasi voglia di raggiungerle dal sagrato, che sta sotto di esse meno di sette od otto metri, ma preferisco fare una visita brevissima all’interno della pieve. Varcato il portone, senza procedere verso la zona che conduce al transetto ed al presbiterio, resto nella zona riservata alla bussola d’ingresso, posizione ideale per cogliere la semplicità e il buon gusto presentati dagli arredi delle varie cappelle e dalla composizione floreale dell’altare.

   Approfitto intanto, dopo le brevi esternazioni condotte sul tempio, per dedicare un pensiero all’Altissimo suffragato dalla promessa di essere presente domani in Oristano alla messa domenicale. Tengo a precisare in proposito che, nel corso della mia vita, non sono mai venuto meno, salvo casi di forza maggiore, a detto obbligo ecclesiastico settimanale. Rispettando detto impegno dei giorni festivi non faccio che saldare un debito di riconoscenza che ho verso mia madre, una vera credente. Non posso dimenticare, al riguardo, le immagini offerte dalla mamma mentre saliva in ginocchio ed in preghiera i ventotto scalini della Scala Santa, gradini che io, bambino di tre o quattro anni, superavo saltellando. Per queste mie irriverenze non venivo, data l’età, mai ripreso. Fui invece ammonito con toni accesi quando, più tardi, esattamente nel 1948, un anno prima che passasse a miglior vita, manifestai il proposito di non andare più a messa. Fu per me una lezione esemplare.

 

 

 

 

martedì 18 giugno 2024

Gita in Marmilla

 

Gita in Marmilla


L’Associazione Cinquanta & Più di Oristano ha ritenuto, con l’avvio delle prossime vacanze estive, di chiudere la stagione primaverile con una breve gita nel dipartimento oristanese della Marmilla. Le località definite nel programma sono Masullas, Pompu e Turri. Alle prime due sedi sono riservati i tracciati di maggior interesse culturale mentre alla terza è stato assegnato il compito di carattere gastronomico.

In particolare a Masullas, le guide locali si adopereranno per illustrare ai partecipanti le note più salienti sui vari ambiti della chiesa parrocchiale e del museo cittadino mentre a Pompu gli accompagnatori turistici saranno impegnati a presentare, in reparti distribuiti in diverse salette di un caseggiato a pian terreno, i vari processi della panificazione secondo le regole del passato.

Il dulcis in fundo sarà regolato a Turri nell’ampio salone di un ristorante adagiato nella natura incontaminata del suo territorio.

La partenza da Oristano è fissata per le otto e mezza mentre l’arrivo nella prima località è previsto intorno alle ore nove e un quarto. I partecipanti al raduno, nel numero di una ventina, troveranno comodamente posto nel pullman prescelto dagli organizzatori.  

Una volta giunti a Masullas, il gruppo dei gitanti si incammina a passo spedito verso l’abitazione di uno degli associati dove, nel piano terreno, verranno offerti aperitivi, pasticcini, e caffè. A questa sontuosa anteprima dedicata alla colazione farà seguito la visita alla vicina pieve, luogo di culto dedicato alla Beata Vergine delle Grazie.

Ed eccoci sul sagrato. Alle attente osservazioni della guida, che avrà il suo gran da fare nell’illustrazione degli esterni e degli interni della parrocchia, dovrò purtroppo rinunciare a causa di una sordità che non mi consente di recepire chiaramente le fila del discorso. Per giunta mi ritrovo orfano di entrambi gli auricolari e, fino a quando non saranno riparati, dovrò affidarmi a ciò che vedo ed a quanto può impressionarmi.

Mentre gli altri si trovano all’interno della chiesa, preferisco sostare sul suo piazzale per osservare con molta attenzione la singolare ed intrigante facciata ed il bianco campanile che la sovrasta dall’alto dei suoi trentasette metri.

Ho usato il termine singolare in quanto il frontone, normalmente rappresentato dalla superficie di un triangolo isoscele, assume la forma di in trapezio dove i lati obliqui somigliano al lato ascendente ed a quello discendente della lettera maiuscola Emme mentre la base minore funge da congiunzione tra i due vertici con un leggera curvatura verso l’asse mediano. Il credere che detta lettera, riscontrabile nello stile calligrafico denominato Rotondo, possa rappresentare l’iniziale del nome della Vergine Maria, è solo frutto della mia immaginazione.

Sono ricorso al termine intrigante per giustificare le difficoltà incontrate nella lettura dell’iscrizione incisa sopra il portone d’ingresso. Mi auguro comunque di essere riuscito a risolvere il quesito con la seguente traduzione:

QUESTA OPERA E’ STATA REALIZZATA DI PROPRIA INIZIATIVA DAL SIGNORE DON FRANCESCO MASONES NIN VESCOVO. 1694.  

Preciso che i cognomi dei genitori del vescovo della Diocesi di Ales-Usellus sono Masones e Nin.

Riporto intanto quanto risulta scritto nell’epigrafe:

HOC OPPUS LABORAVIT MP A DNO DONFRAN.co M. ET NIN. EPO.1694.

In forma corretta e sciolta si leggerebbe:

HOC OPUS LABORAVIT M(OTU) P(ROPRIO) A D(OMI)NO DON FRAN(CIS)CO M(ASONES) ET NIN. E(PISCO)PO. 1694.

Detta scritta, definita in caratteri lapidei lungo una sola linea orizzontale, risulta affiancata da una duplice coppia di colonne con i capitelli che sorreggono la base maggiore del timpano. Sulla linea mediana della facciata risultano in chiara evidenza il rosone e il trigramma di San Bernardino.

L’intera facciata, ad onore del vero molto bella, risponde alle regole dello stile barocco.

Quando i gitanti cominciano ad uscire dal tempio, colgo l’occasione per fare una brevissima visita agli interni dove concludo con veloci osservazioni sulle cappelle che si susseguono lungo la navata centrale. Archi a tutto sesto per la maggior parte di esse ed archi ogivali per le cappelle che guardano più da vicino il presbiterio. In alto a queste ultime si osservano volte a crociera con corpose chiavi di forma tronco conica.

Prima di chiudere con la visita alla chiesa parrocchiale tengo a precisare di non aver avuto alcuna difficoltà nel decifrare quanto definito nell’epigrafe citata per i seguenti motivi:

a)     In terra di Marmilla sono di casa. In particolare, nell’archivio storico della diocesi di Ales, con l’intenzione di ricostruire i passi più importanti della vita di Antonio Tore, un mio conterraneo tonarese vissuto tra gli ultimi decenni del Settecento e gli anni Quaranta dell’Ottocento, ho bivaccato per una trentina di sedute da sei ore ciascuna. Come religioso aveva svolto il suo ministero in diversi centri della Barbagia e, sempre in età giovanile, aveva assunto le mansioni di vicario generale nella diocesi di Oristano. Consacrato vescovo a Bosa fu incaricato di governare la diocesi di Ales dove prestò i suoi servizi per circa un decennio. In seguito fu trasferito a Cagliari per esercitare la delicata funzione di arcivescovo.

b)     Ad Oristano, mia residenza da lungo tempo, sempre inseguendo le orme dell’alto prelato, ho potuto utilizzare al meglio i registri della mia parrocchia tonarese che ora risultano depositati nell’Archivio Storico arborense. Per assolvere a questo faticoso compito ho impiegato un tempo superiore ai dieci anni.

c)      Forte dell’esperienza curata nei centri diocesani di Oristano, Ales e Cagliari, ritengo di non aver mai trovato eccessive difficoltà nell’esaminare i documenti di un passato che corre dalla fine del Cinquecento ad oggi. Porto un esempio che fa riferimento alla iscrizione posta sulla stele di una fonte tonarese e che ricalca in qualche passaggio l’epigrafe posta in risalto sulla facciata della chiesa masullese. In essa viene riferito che l’opera venne eseguita nel 1762 a merito del suo rettore e dei suoi tre viceparroci. In questo caso i Cinque libri mi vennero incontro con la conferma degli estremi anagrafici di tutti i religiosi citati nell’incisione.

Dopo aver reso visita alla parrocchia il gruppo si ricompone ed è pronto per indirizzarsi alla volta del vicino museo naturalistico. La maggior parte dei componenti trova il modo, durante il trasferimento, di concedersi una breve pausa nei pressi della casa colonica di Francesco, un signore che con molto garbo si presta a brevi interviste sulla tenuta agraria che fronteggia la sua abitazione. Tra noi e l’agricoltore insiste una recinzione che supera abbondantemente il metro e mezzo d’altezza e sulla quale qualcuno si distende con gli avambracci, dietro di lui in prima fila due ampi solchi di piantine di melanzana, in seconda fila i cetrioli, in terza le zucchine ed al termine la sua dimora.  Alla sua sinistra una catasta di legna d’ardere di olivastro e sparsi sul terreno strumenti del mestiere che sanno di cesoie, roncole, zappe, rastrelli e pompe per l’irrigazione. Non vedo piantine di pomodoro. Sono là in fondo, riferisce Francesco. Fra qualche settimana, il raccolto di dette primizie onorerà le mense dei buongustai. I fagiolini, intanto, hanno già fatto la loro apparizione in tavola da tempo.

Di solito uso sempre coltivare amicizie con contadini e falegnami. Dagli uni e dagli altri cerco sempre di carpire segreti sulle loro professioni. In questa occasione, sento il dovere di rinnovare il mio ricordo per Peppino, un coetaneo deceduto un semestre addietro. Due anni fa mi aveva regalato una penna modellata col tornio su legno di castagno e sulla quale aveva inciso le sue iniziali. Una opera d’arte, uno strumento che utilizzo con piacere nella stesura dei miei servizi.

Al museo naturalistico, ospitato nelle salette dell’ex convento dei Cappuccini, c’è tanto da apprendere intorno alla vasta e documentata esposizione di minerali. Molti di essi sono presentati sia sotto l’aspetto compositivo che cristallografico. I reperti recuperati principalmente nella zona del Monte Arci fanno riferimento alle eruzioni vulcaniche del passato. L’ossidiana, minerale ad alto contenuto di silicio, non può mancare in bacheca. E’ notorio che la crosta terrestre del nostro pianeta, qualificata con l’acronimo SIAL, va ad   accogliere come elementi il silicio e l’alluminio. Per gli strati che portano al centro della terra, non interessati quindi ai movimenti teutonici, valgono invece le definizioni SIMA E NIFE (Silicio, Magnesio, Nichelio e Ferro).

Tra le sostanze calcaree è in esposizione la calcite, un sale minerale i cui elementi sono il carbonio, il calcio e l’ossigeno.  Le guide al seguito si fanno apprezzare per l’esposizione dei loro argomenti e per le risposte ai quesiti dei visitatori.  

Con un certo sforzo riesco ancora a coniugare la lettura di ciò che maggiormente interessa le mie attenzioni con i lineamenti scolatici legati allo studio della chimica. Ossidi ed idrati vanno d’accordo con i metalli mentre le anidridi e gli acidi convivono con i metalloidi. Il termine di congiunzione finale è dato dai sali. Ed in questo museo non si parla d’altro che di sali minerali,

Pompu, paese di duecentoventi anime, è la seconda tappa del nostro excursus mattiniero. Per arrivarci bisogna inseguire vaste distese collinari, ben ormeggiate da piantagioni di ulivo ed olivastro, che si susseguono a perdita d’occhio con sequenze rettangolari nelle aree curate dalla mano dell’uomo e in ordine sparso e diseguale nelle superfici orfane dell’apporto umano.

Molto interessante la visita condotta sui diversi tipi di panificazione elaborati secondo le regole del passato. Il tutto viene presentato nei reparti allestiti nei locali di un edificio comunale.

Naturalmente si fa riferimento ai tempi in cui la macinazione del grano veniva attuata con il concorso dell’asino, il quale, operando attorno alla mola con cerchi concentrici, favoriva la rotazione del palmento intorno alla base fissa del mulino. Con molta sincerità devo ammettere di non aver mai assistito alle operazioni governate dall’animale. Eppure il contributo del paziente quadrupede è stato determinante anche nel sollevamento dell’acqua dai pozzi. Le norie del passato hanno ceduto il passo alle pompe idrauliche del presente.

A Samugheo, in località Ponte Ecciu, avevo presenziato, una ventina di anni fa, alla macinazione del grano operata con i palmenti fatti ruotare dall’acqua del fiume.

Il mio paese, con l’utilizzo dell’energia elettrica datata 1925, ha dovuto fare a meno dei mulini ad acqua già dall’inizio degli anni Trenta. In quegli anni nella mia abitazione di Via Vittorio Emanuele venne impiantato un mulino elettrico che successivamente, verso gli inizi degli anni Quaranta, fu dislocato nella casa dei Garau in Sa Discarriga, Devo precisare che mia madre, prima del 1936, anno in cui convolò a nozze, aveva prestato il suo servizio nell’arte molitoria come mugnaia.

Un ultimo appuntamento è riservato all’immagine fotografica di un nuraghe quadrilobato esistente ai confini del paese. Santu Miale è il nome che gli è stato assegnato ab illo tempore. Miale sta per Michele e Mialita per Michela. Così risulta dai registri parrocchiali tonaresi di inizio Seicento.

L’ultima tappa si consuma in un ristorante di Turri. La capienza del salone può ospitare comodamente sino a cento commensali. Nulla da eccepire sulla celerità dei servizi e sulla bontà delle bevande e delle cibarie. Ad ogni inserviente ai tavoli ho riservato il termine di Achillide, ossia Piè veloce Achille. E’ questo un neologismo che vale più di un complimento.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

giovedì 13 giugno 2024

Masullas

 

Masullas    

Iscrizione sul frontone della chiesa parrocchiale

Trattando a grandi linee della chiesa parrocchiale di Masullas, mi sento in dovere di partecipare ai suoi fedeli frequentatori che la progettazione e la costruzione dell’edificio di culto vennero portate a termine nel 1694 a merito del cagliaritano Francesco Masones Nin, vescovo della Diocesi di Ales – Usellus.

Sul frontone, appena al disopra del portone d’ingresso ma sotto il trigramma di San Bernardino, risulta bene evidenziata la seguente iscrizione:

HOC OPPUS LABORAVIT MP A DNO DONFRAN.co. M. ET NIN EPO. 1694.

Presentando il tutto in forma sciolta e più corretta si otterranno le seguenti conclusioni: HOC OPUS LABORAVIT M(OTU) P(ROPRIO) A D(OMI)NO DON FRAN(CIS)co M(ASONES) ET NIN E(PISCO)PO. 1694.

Qui di seguito la mia costruzione letterale in italiano:

QUESTA OPERA E’ STATA REALIZZATA DI PROPRIA INIZIATIVA DAL SIGNORE DON FRANCESCO MASONES NIN  VESCOVO. 1694.

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Mi riservo di coniugare il riscontro di questo modesto contributo con la pubblicazione a più ampio respiro del resoconto della gita consumata domenica scorsa nel dipartimento della Marmilla.

Oristano, 12 giugno 2024

Giovanni Mura

giovedì 30 maggio 2024

Nuraghe Losa

 

Parco di Santa Cristina e villaggio di Nuraghe Losa

 

E’ da diversi anni che faccio parte dell’Associazione 50 & Più di Oristano. Detto Ente, con sede principale in Roma ma con ramificazione capillare in tutta Italia, si prefigge lo scopo di promuovere gli aspetti culturali e ricreativi di quanti hanno superato i cinquanta anni di età.

E’ ovvio che i tracciati definiti nei programmi relativi alle gite domenicali o ai più impegnativi viaggi oltre mare non possono non tenere conto delle prestazioni di carattere gastronomico. E’ immancabile dunque il riferimento alle voci dettagliate del menù.

Questa possibilità di coniugare gli obiettivi culturali con quelli decantati dalle ricche e sontuose tavolate mi è stata offerta nello scorso mese con la partecipazione alla visita dei siti archeologici di Santa Cristina e di Nuraghe Losa nei territori di Paulilatino e di Abbasanta.

Le bevande e cibarie ed il dulcis in fundo sono stati curati in un tipico ristorante della campagna norbellese. 

Per ciò che concerne le manifestazioni di carattere culturale devo rifarmi a quanto avvenuto domenica 28 aprile durante la mattinata e nelle ore successive.

Quanti mi hanno preceduto nello scendere dal pullman, parcheggiato a brevissima distanza dall’ingresso al sito archeologico, si ritrovano ora in prima fila, a ridosso del lungo bancone del bar, ad attendere alle loro consumazioni. Ai ritardatari sono riservate le seconde e terze file. E’ questa la mia prima lettura sui quaranta partecipanti alla gita.

Di solito, alle lungaggini di queste soste al buffet, preferisco soprassedere e, in questa occasione, preferisco incamminarmi a passo lento lungo una discesa che porta alla chiesetta campestre di Santa Cristina, luogo di culto dove è previsto l’incontro con la guida locale. Tanto alla sinistra quanto alla destra di questo breve percorso si succedono decine di curiose casette edificate con materiale vulcanico e tanta malta. Alla stessa tonalità scura delle pietre basaltiche si associano anche i serramenti delle aperture. Queste costruzioni, con la loro disposizione a semicerchio, sembrano omaggiare i numerosi turisti di passaggio, ignari questi ultimi che il senso della vera accoglienza sarà tributato a chicchessia durante i nove giorni che precedono la festa religiosa. Solo in questo lasso di tempo regolato dal novenario sarà possibile ammirare e sbirciare attraverso gli usci e le altre piccole vedute gli interni di queste piccole abitazoni, definite nel tempo con i termini di cumbessias o anche di muristenes.

La chiesa, disposta in fondo alla breve discesa e raccolta in un ampio piazzale, vanta origini antichissime.  Le fonti storiche riferiscono che l’edificazione è stata curata dai frati camaldolesi intorno al Mille e Duecento.

I muristenes sono sorti molto dopo, ma non prima del 1582. A questa definizione temporale sono pervenuto rifacendomi alla pastorale dell’arcivescovo Francesco Figo, il quale, nel paragrafo relativo al comportamento tenuto dai fedeli nelle chiese campestri ordina quanto segue:

In is deplus cresias campestras quj de una milla ajnantj antj a jstarj de su pobladu aundj particularis devotionis multus accudintj decretaus et ordinaus e ais preditus beneficiadus rectoris curadus et oberaius cumandaus quj jn ditas jsglesias no bolanta premjtirj ni p(er)mjtanta (nel testo pmjtanta) quj nixunu homjnj de doxj anus jnsusu apustj sa posta de su solu fina asa exida (dal tramonto del sole sino all’alba) no apanta a jstarj njn dormjrj jn cuddas cresias.

Il documento in oggetto risulta catalogato nell’Archivio storico diocesano di Oristano alla voce Gesturi (Quinque Libri).

La costruzione di dette cumbessias non poté quindi avvenire nelle comunità arborensi che in tempi successivi alla data di emanazione del citato decreto. Nella pastorale, che nei vari passaggi fa anche riferimento ai dettami del Concilio Tridentino, è espressamente ordinato il divieto d’ingresso in dette chiese di campagna, durante le ore notturne, a tutti i maschi di età superiore ai dodici anni. Penso che, a seguito di detta ordinanza, qualcuno dei fedeli abbia optato per l’edificazione dei primi alloggi nelle vicinanze dei santuari campestri.

Dagli interni della chiesetta, dove, unitamente agli altri partecipanti, ho potuto seguire le interessanti e convincenti relazioni della guida si esce nuovamente all’aperto per procedere, in un ambiente mozzafiato curato egregiamente da madre natura, su tracciati che superano di migliaia di anni i tempi fissati dal calendario cristiano. La penombra riservata al visitatore dalla rigogliosa vegetazione di ulivi ultrasecolari crea la giusta atmosfera per favorire al meglio un appagante ingresso nella civiltà nuragica.

Si inizia con la visita ad un piccolo nuraghe che, a detta della guida, assume particolare importanza per le segnalazioni che, in coincidenza delle ricorrenze annuali dei solstizi e degli equinozi, rilascia dal punto di vista astronomico.

Si prosegue, a brevissima distanza, con l’ispezione al pozzo sacro. In questo sito è possibile verificare, in tempo di lunistizio, fatto che si verifica ogni diciotto anni e mezzo, 18,6 per esattezza, che il fascio di luce lunare si riflette verticalmente nello specchio d’acqua in fondo al pozzo dopo aver superato l’unica imboccatura di superficie del diametro di appena ventisette centimetri. Per una migliore comprensione preciso che la luna, l’orifizio esterno e la pozza d’acqua si dispongono lungo un fascio luminoso una sola volta ogni ventennio. L’appuntamento è per il prossimo anno. E se la giornata è nuvolosa? E’ quel che mi preoccupa di più, risponde la guida.

Dopo i doverosi ringraziamenti all’accompagnatore, che con competenza e maestria è riuscito, anche avvalendosi delle videate del suo portatile, a curare al meglio la descrizione dei siti incontrati, si ritorna con molta calma al mezzo di servizio che in brevissimo tempo ci condurrà al villaggio di Nuraghe Losa.

La sosta temporanea del pullman nel piazzale antistante il nuraghe mi consente, data la mia decisione affrettata e sofferta di non effettuare, per motivi precauzionali, alcuna visita all’interno del villaggio, di fare un breve resoconto delle osservazioni condotte dalla mia postazione a bordo macchina.

Intorno a me la visuale sull’immenso anfiteatro naturale che mi circonda è completamente libera in ogni settore.

Di fronte, a distanza di un centinaio di metri, si estende una lunga ed alta recinzione di massi basaltici che mi impedisce di vedere le costruzioni circolari innescate alla base della grande struttura.

Alla mia sinistra non vedo nulla di particolare ad eccezione di due strade asfaltate che si inseguono per breve tratto salvo svoltare chissà dove e scomparire nel nulla. Una di queste è denominata Curva di Nuraghe Losa, via di comunicazione sulla quale mi intratterrò al termine della mia esposizione.

Alla mia destra una campagna verdeggiante che in lontananza sembra abbracciare vari centri abitati del Marghine per i quali la visuale mi garantisce le possibili coordinate ma non i rispettivi confini territoriali.

Di spalle, la folta vegetazione delle piante ghiandifere e certi dislivelli di tipo altimetrico mi impediscono di osservare la grande distesa d’acqua  del Lago Omodeo che, con solennità sembra governare, col supporto della diga, i contenuti idrici del suo bacino. Il corso d’acqua che al termine del suo tragitto promuove l’immenso invaso, della capacità di circa ottocento milioni di metri cubi, funge da linea divisoria tra i territori del Guilcier e del Mandrolisai, distretti nei quali sono osservabili le caratteristiche cumbessias di San Serafino alle porte di Ghilarza e quelle di San Mauro tra Ortueri e Sorgono. Disposizione a semicerchio per le prime e successione “in duplice filar” per le seconde.

Fungono da cornice a questo interessante quadrante le vette più elevate della nostra isola. Su Punta Paolina e su Punta La Marmora, i miei scarponi di settantanni addietro avevano calcato le loro orme.

Ma ritorniamo al quadrante che interessa maggiormente il nostro viaggio.

Quanti hanno modo di osservare attentamente in cartolina o nelle riviste specializzate i lineamenti del nuraghe trilobato non possono disattendere la mia informazione visiva che lo paragona ad una scarpa a doppio plantare, dell’altezza di un ventina di metri, e a tre scatole di lucido che si elevano dal terreno di poche spanne. Il primo articolo di calzatura varrebbe per la struttura tronco conica mentre il secondo per le costruzioni circolari.

Galoppando con la fantasia tento di immaginare quale dimensione potrebbe avere il personaggio mitologico incaricato di calzare quella scarpa. Il ricorso allo studio delle proporzioni potrebbe assegnare a detta figura un’altezza di circa duecento metri, dimensione questa di gran lunga inferiore alle super altezze delle maxi torri eoliche dei giorni nostri. Mi sto riferendo a quei mostri d’acciaio che nell’assemblaggio di piloni, rotori e pale ci consegneranno con le loro evoluzioni un cielo rigato a quadretti. Il dio dei venti incontrerebbe certamente delle difficoltà a supportare le grandi pretese energetiche di un parco eolico distribuito a dismisura nella nostra isola.

Doveroso in chiusura ricordare quanto avvenne di tragico, in una notte primaverile della seconda metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, nell’abbordare in macchina la fatidica curva che porta “chissà dove”. Tre ragazzi di Oristano persero la vita durante il rientro da Macomer alla loro città. Uno di questi era stato un mio compagno di scuola nel capoluogo del Marghine. La morte bianca, aveva teso l’agguato proprio nei pressi del villaggio nuragico. Per ironia della sorte, la circolazione in Sardegna delle macchine private, in quei tempi, era molto ridotta. I rivenditori di torrone di Tonara, si servivano ancora per i lunghi viaggi di carretta e cavallo.

Giovanni Mura

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Parco di Santa Cristina

e

Villaggio di Nuraghe Losa

 

 

 

 

 

 

 

 

Con

le attenzioni dell’Associazione Cinquanta & Più di Oristano


martedì 12 dicembre 2023

Visita ai Giganti di Monte Prama

 

Visita ai Giganti di Monte Prama


   L’incontro di carattere culturale con i Giganti di Monte Prama è fissato per sabato 25 novembre 2023.

Il programma, definito dall’Associazione 50 & più di Oristano, prevede tre soste di cui la prima tratterà gli aspetti più significativi sugli scavi operati nella zona collinare del monte citato, la seconda riguarderà la visita al Museo di Cabras, sede in cui sono esposti i reperti archeologici di maggiore interesse e la terza sarà riservata al pranzo.

Da Oristano si partirà alle ore nove con un pullman prenotato per una trentina di passeggeri. Il tragitto non supererà, tra andata e ritorno, i venti chilometri.

L’attesa per questo rendez-vous è da parte dei partecipanti molto condivisa, salvo la comune preoccupazione per le avverse condizioni meteorologiche avanzate dagli esperti nel corso della settimana. Le previsioni hanno fatto continuamente riferimento a temporali, mareggiate e venti di notevole intensità in tutta la Sardegna.

Contrariamente a quanto segnalato sul maltempo da coloro che si erano affidati al supporto dei modelli matematici ho potuto constatare, già dalle prime luci del giorno della partenza, che dall’interno della mia abitazione il cielo era limpido in ogni dove mentre all’esterno si avvertiva soltanto un po' di freddo.

Dopo queste osservazioni di carattere climatico vado convincendomi sempre di più che a farne le spese, talvolta, sono proprio i modelli probabilistici citati.

Al punto di partenza, fissato come riferito per le ore nove, vedo molti visi sorridenti che pregustano quanto succederà in itinere nell’arco dell’intera giornata.

Tra coloro che vanno ad occupare i loro posti rivedo le solite persone, gli habitué delle gite programmate dall’organizzazione, ma anche qualcuno che ritenevo avesse scelto di fare un’eterna vacanza altrove. Presumo che costui avesse pensato la stessa cosa su di me che, non sempre, mi trovo disponibile a seguire i distensivi tracciati dell’Associazione. Faccio queste considerazioni tenendo conto che l’età media degli affiliati si aggira intorno alla settantina. Il più anziano ha ottantotto anni, la moglie 84 mentre il sottoscritto è prossimo agli ottantacinque. A bordo pullman la gioventù, eccezione fatta per il conduttore del mezzo, latita. Fanno parte della comitiva un piemontese ed una istriana, residenti in Sardegna da lungo tempo, mentre tutti gli altri sono isolani.

   Ci troviamo ora, dopo appena un quarto d’ora di viaggio, in aperta campagna, in prossimità della zona interessata agli scavi. Si tratta di un’area della superficie di poco superiore a quella di un campo di calcio. L’ingresso, cui fa seguito una recinzione curata a dovere, è costantemente tenuto d’osservazione da una custode con tanto di divisa nera da sembrare un funzionario in alta uniforme. A pochi metri staziona, radente al suolo, una costruzione in legno d’abete con all’interno una sedia ed alcune borse con tanti documenti.

Al manufatto in legno che funge da segreteria, avrei preferito un abitacolo in stile neo nuragico. In gioventù mi ero permesso di costruirne uno di fronte a casa mia con materiale di riporto ritrovato nei dintorni. Avevo impiegato mezza giornata per elevarlo a circa un metro e mezzo d’altezza ed i commenti dei curiosi, dato l’interesse suscitato, non si fecero attendere.

All’esterno, in un breve spazio riservato ai visitatori di turno, la guida è pronta ad accoglierci con un sorriso molto accattivante. Alta, di bell’aspetto, sembra una sacerdotessa della dea Vesta.

Non piove e non pioverà ma in cambio il vento di maestrale sibila in continuazione. Almeno su questo elemento i modelli matematici hanno avuto ragione.

L’oratrice, inizialmente, per soddisfare la nostra sete di sapere, cerca, e ci riesce, di fare del suo meglio presentandosi con assaggi di tipo teorico, molto simili a quelli curati in classe dagli insegnanti. In seguito, ci invita a seguirla nella zona degli scavi. E qui la lezione diventa di tipo pratico.

Dobbiamo precisare che le informazioni che ci vengono fornite sono soggette in campo archeologico a numerose mutazioni nel tempo. Le variabili in gioco sono tante ed i risultati non sempre incontrano i favori degli analisti. Si va comunque avanti, anche se a tentoni.

Sino ad una ventina di anni fa non sapevo nulla delle statue di calcare dissepolte nella penisola del Sinis, l’area magica su cui insiste Monte Prama. Di detti primi ritrovamenti si era parlato tanto intorno alla metà degli anni Settanta, 1974 per l’esattezza, quando un contadino avvertì, in fase di aratura del terreno in cui operava, che il suo trattore agricolo faceva molta fatica a procedere oltre. Io sono rimasto all’oscuro di tutto.

In questo territorio, compreso tra stagno, terra e mare, avevo svolto da cicloamatore i miei allenamenti sportivi. Mi permisi anche il lusso di organizzare, nella seconda metà degli anni Settanta, ben quattro edizioni de Su Fassoni, titolo quest’ultimo da me assegnato a queste manifestazioni cicloturistiche denominate Gran Fondo.

È da una ventina di anni che ho potuto avere qualche conoscenza intorno agli ormai famosi Giganti, mentre, è da circa un decennio, esattamente da quando ho fatto visita al museo di Cabras, sito in cui sono conservati i reperti, che sono riuscito a saperne di più. Il tutto restava slegato dalla presenza dell’elemento umano. La lettura dell’oggi, dopo le delucidazioni della guida, mi ha permesso di risolvere molti miei dubbi. I Giganti, da enigmatici, misteriosi, laconici, incomprensibili ed indecifrabili, sono diventati più espressivi, chiari e significativi. Dal silenzio irreale si è passati ad un silenzio eloquente quasi che dalla materia si fosse sprigionato uno spirito umano.

L’evidente contrasto definito nello sfondo dal colore bianco di dette sculture con quello nero delle pareti del museo ben si concilia con l’imponenza delle dimensioni dei Giganti medesimi, presentati nelle vesti di guerrieri, arcieri e pugilatori. Il tutto genera nell’osservatore stupore, incredulità e senso di disorientamento.

Ma ritorniamo alla visita odierna ed ai tracciati che la guida ci presenta attraverso la definizione di vari settori chiave. Il primo di questi ci permette di osservare una duplice fila di tombe a pozzetto, il secondo presenta i punti di ritrovamento dei frammenti delle statue dei Giganti ed il terzo le basi in pietra di edifici che si presume fossero votati alle cerimonie relative al culto dei trapassati. Oltre questi settori le attività agricole del giorno d’oggi fanno riferimento a vigneti e carciofeti.

La nostra sacerdotessa, attenta ed intenta a non spegnere il fuoco delle nostre attenzioni come da dovere imposto ad ogni Vestale, fraseggia con eleganza nel campo funebre, ad una distanza da noi non superiore ai dieci metri, servendosi di ampi gesti delle mani per indicare i punti più meritevoli di citazione. Siamo in un cimitero dell’antichità. Siamo in una necropoli di tutto rispetto.

Avrei delle domande da porre, ma, per il mio alto deficit uditivo, che mi impedisce di interloquire con chi opera ad una certa distanza, e per non urtare la sensibilità di qualcuno, preferisco starmene zitto e ricorrere successivamente alle interrogazioni sul mio cellulare.

Venivano, i nostri trapassati, inumati in verticale o in orizzontale? A questo quesito mi è stata data risposta osservando in Internet un disegno curato con molta efficacia dagli esperti del settore. In detto schizzo, l’inumato, rannicchiato su sé stesso, va ad occupare un loculo di forma cilindrica della profondità di una settantina di centimetri e con la base superiore regolata da una lastra piatta di forma quadrata o anche circolare. Intravedo anche delle coperture rivestite di ciottoli d’arenaria che nell’insieme danno l’idea di un coperchio di forma conica e di altezza non superiore ai venti centimetri.

Se può risultare un po' difficile questa mia spiegazione posso tentare di rappresentare il defunto nella sistemazione che sogliono assumere i campioni di sci nelle loro discese libere. Posizione a uovo. Non vorrei essere irriverente con il defunto in questo accostamento sportivo quando affermo che il nostro trapassato, in posizione da fermo, è stato in grado di effettuare sinora salti nel tempo che durano da ben trenta, ventotto e ventisei secoli. Forse sarà meglio parlare di dieci, otto o sei secoli avanti Cristo. Dall’età del ferro o dal neolitico, tanto per intenderci. Per la datazione di questi lunghi tempi si è fatto sempre ricorso da parte degli archeologi al metodo del carbonio, procedimento col quale vengono trattati piccoli campioni di materiale organico.

Altra domanda è quella relativa alla funzione avuta dalle statue dei Giganti all’interno della necropoli. Forse saranno state posizionate per onorare la memoria dei defunti di maggior peso e talento.

Al vicino museo di Cabras posso constatare che l’esposizione di molti nuovi reperti è avvenuta in locali più idonei alla loro collocazione e fruibilità. Non solo Giganti ma anche arnesi in materiale ferroso e suppellettili in ceramica. Non sfugge all’attenzione degli osservatori un modellino di nuraghe con tre torrioni che simula con molta chiarezza la forma della imponente costruzione di Orroli.

Ultimate le nostre visite, compresa la pausa pranzo, ci apprestiamo a ripartire per Oristano, la città dei grandi Portali. In fila, e con molta calma, ciascuno sale a bordo del mezzo permettendo al sottoscritto di fare una ideale conta dei viaggiatori e la lettura dei loro nomi. Particolarmente soddisfatti dell’escursione sono Augusto, Carlo e Lidia di Oristano, Maria Grazia di Tinnura, Mario di Paulilatino e Alice di Nurachi.

Avrebbe potuto far parte di questa interessante gita anche Terenzio di Treviso ma i suoi impegni familiari e culturali lo hanno sempre disatteso ma non dissuaso. I suoi passatempi preferiti sono sempre stati dedicati all’affetto per i nipotini ed alle continue visite al Montello e alle Dolomiti. Ma i Giganti del Monte dalle palme nane non demordono. Restano in attesa anche dei ritardatari.

Giovanni Mura