Memorie tonaresi in pratza manna

lunedì 9 dicembre 2024

Gita sul Monte Arci

 
                         Monte Arci sulle tracce dell'ossidiana



 

   Il Monte Arci è rappresentato nella Sardegna centrale da una vasta area che funge da cuscinetto tra il Campidano di Oristano e l’Alta Marmilla.

   Seguendo le indicazioni della guida turistica, che da bordo pullman ci fornisce interessanti anticipazioni sui punti di maggior rilievo di detta regione, apprendiamo che il sito in oggetto ha una forma ellittica con gli assi maggiore e minore rispettivamente di quattordici e sette chilometri, con direzione nord-sud per il primo di essi ed ovest-est per il secondo.

   Preciso intanto che per ellisse si intende una figura geometrica di forma ovale. Si potrebbe, ricorrendo all’utilizzo di uno spago della lunghezza di una ventina di centimetri e di una penna, riprodurre su un foglio di carta il grafico in questione. Per ottenere il disegno è necessario servirsi di ambo le mani. I polpastrelli del pollice e dell’indice del braccio sinistro, distanziati di un una decina di centimetri, eserciteranno una leggera pressione sui capi terminali del filo mentre quelli della mano sinistra trascineranno, facendo una certa tensione sullo spago, la punta scrivente verso un tracciato raffigurante una mezza ellisse. Per completare il disegno occorrerà eseguire il procedimento inverso e cioè operando sui terminali del cavetto, con i polpastrelli del braccio destro, e sulla penna, con quelli della mano sinistra. Un esempio pratico e veloce può essere fornito dal taglio di una pera in due parti delle quali una di esse deve contenere il picciolo. Si ottengono in tal modo due ellissi uguali.

   Del territorio, di cui abbiamo inquadrato con molta approssimazione i suoi contorni, la nostra guida si intrattiene a presentare i maggiori eventi che hanno caratterizzato in passato la sua storia. Riferisce, in proposito, di eruzioni vulcaniche, di versamenti lavici e dei singolari materiali formatisi sul terreno a seguito del raffreddamento del magma. In particolare si sofferma a trattare dell’ossidiana, un prodotto esclusivo di questa montagna e di pochissimi altri siti del nostro pianeta ma, prima di inseguire detto argomento, mi permetto, facendo riferimento a quanto appreso a scuola, di avanzare la seguente considerazione di carattere vulcanologico. E’ mia presunzione infatti, tenuto presente che il raggio terrestre, calcolato in seimila chilometri, incontra in successione, gli strati di materia a base di silicio e alluminio per il primo grado di discesa, silicio e magnesio per il secondo e nichelio e ferro per il terzo, che l’azione eruttiva si manifesti unicamente lungo la fascia aderente alla crosta terrestre. Di queste forti scosse implosive ha risentito anche il nostro monte con bocche da fuoco poste in località Trebina longa, la più alta vetta del massiccio, Trebina lada e Su Corongiu de Sizoa, terzetto altimetrico ordinato sul terreno dalla forma di un treppiede.

   Alla valida esposizione della guida di bordo farà seguito, una volta giunti a destinazione, il dettagliato racconto di colei che ci accompagnerà, in mattinata, nel percorso ad anello lungo il tracciato delle coltivazioni dell’ossidiana e, nel pomeriggio, nella visita alle varie sale del museo di Pau, il piccolo borgo situato alla fine di una corsa che, nel programma del nostro viaggio, ha interessato i centri di Oristano, Silì, Simaxis, Usellus e Villaverde.

   Alla presunta fermata in paese si preferisce, con il beneplacito dei gitanti e degli organizzatori, procedere sino al punto più basso della vicina montagna, luogo che offre la possibilità, prima di dare inizio alla escursione naturalistica nel fitto bosco, di apprendere dalla viva voce della guida locale una lezione sull’ossidiana.

   L’officina del passato si presenta ai nostri occhi e alla nostra curiosità con una parete incastonata dagli scarti di lavorazione operati dai nostri predecessori del Neolitico, ossia del periodo che corre dal Seimila al Duemila avanti Cristo. Detti resti erano ottenuti dalla sfaccettatura di piccoli blocchi di ossidiana, operazione questa che permetteva di ottenere scaglie e strumenti di raschiamento da esitare commercialmente nell’area mediterranea. I nostri antenati riuscivano ad inseguire i loro programmi di lavorazione facendo ricorso a materiali con un maggiore grado di durezza ed agendo sui punti di maggior fragilità del materiale da scalfire.

   Il pezzo informe che ci viene mostrato, di un colore di intenso nero, assume la grandezza di un peperone. Ad occhio nudo si possono intravedere le numerose scaglie che si susseguono e si sovrappongono le une con le altre come le brattee ossia le foglie verdi viola di un carciofo o anche le squame di una pigna. Dell’operazione relativa alla sfaccettatura riusciremo ad avere. in un filmato curato dal locale museo, una buona conferma delle procedure eseguite in illo tempore. Sempre trattando di questo vetro purissimo ad altissimo contenuto di silicio, la guida riferisce, in chiusura, che il medesimo ha un grado di durezza che si oppone alla scalfittura operata da materiali più deboli. Nella scala di Mohs, l’ossidiana, al contrario del diamante che si porta a 10, il valore più elevato, è registrata con il valore cinque.

   Inseguendo il percorso che porta su in montagna non possiamo fare a meno di fare menzione di quanto spettacolo è offerto dalla natura di questi luoghi. Si cammina in salita per qualche chilometro inseguendo corsie tappezzate da piccoli frammenti di ossidiana e rigate in lungo ed in largo dal passaggio di famelici suini alla ricerca di ghiande, il loro cibo prelibato.

   Stiamo attraversando un bosco fitto di piante di rovere, leccio, sughero, corbezzolo e di qualche arbusto di erica scoparia. Nel dialetto del mio paese, dove la vegetazione ricalca per sommi capi quella del centro che ci ospita, si ricorre alla terminologia dei creccos, iliges, suergios, illiones e framiu. Su cheleisone, ossia il frutto del corbezzolo, dipinge il nostro percorso con i suoi colori che sanno di giallo e di rosso. A bordo strada non sfugge ai gitanti la rigogliosa presenza della cicoria selvatica. Si esse potziu, n’aia arregortu una bertula (se avessi potuto ne avrei raccolto una bisaccia).

   Più avanti una grande vasca antincendio, anticipata nelle nostre immagini da grossi bocchettoni idraulici, ci riporta ancora alla configurazione di una ellisse. Questa figura in geometria analitica è presentata come il luogo dei punti del piano per i quali è costante la somma delle distanze da due punti fissi chiamati fuochi. Una persona, impegnata a percorrere il tracciato di bordo vasca confermerebbe a pieno titolo l’assunto della citata definizione.

   Non possiamo fare a meno, procedendo nel nostro percorso, di menzionare la singolare finestra panoramica che si affaccia da ovest ad est su buona parte dell’isola centrale. Non mi sfuggono in lontananza le vette più elevate del Gennargentu e le loro denominazioni. Si tratta di Punta La Marmora e della vicinissima Punta Paolina.

   Si ha l’impressione di vederle quasi ad una altimetria inferiore a quella in cui ci troviamoi ma è solo un’impressione ottica. Anche se Trebina longa, cima che sta sopra le nostre teste ad una altezza di 812 metri, registra un valore di tutto rispetto, è pur sempre debitrice verso il monte barbaricino di ben 1000 metri.

   La prima volta che feci visita al Gennargentu avevo quattordici anni. Correva l’anno 1953 e correva anche il caldo mese di agosto. Per poter assistere agli spettacoli offerti dall’alba e dall’aurora dovetti scalare il tratto che dal Rifugio del Re porta alla vetta durante le ore antelucane. Detto percorso ricoperto da imponenti ed insidiose lastre di schisto è denominato Su Sciusciu ossia La Discarica.

   Terminato il tortuoso percorso ad anello attorno alla montagna, si ha modo di risalire a bordo pullman e rientrare a Pau per una sosta compensatrice degli sforzi compiuti in mattinata.

   Nel pomeriggio siamo attesi al museo comunale dove, unitamente alle collezioni private di lavoratori dell’ossidiana vediamo esposte in vetrina interessanti varietà di minerali provenienti dai giacimenti del Monte Arci. La comprensione dei vari passaggi di carattere culturale è facilitata, come al solito, dalla disponibilità e capacità della attenta guida turistica. Una volta all’esterno ci troviamo in pieno centro dove una bella piazza movimentata da una elegante pavimentazione di tipo basaltico funge da anfiteatro ad un insieme in cui si affiancano, in senso quasi rotatorio, le facciate del museo, di una villetta con un curatissimo giardino, del ristorante che ci ha ospitato nel primo pomeriggio, di un’altra abitazione con posti a sedere sul davanti, della casa parrocchiale e della chiesetta. Detto luogo di culto si esprime con garbo e semplicità con un frontone corredato in alto da una piccola croce greca, con un rosone rappresentato solo per metà e con un portone che invita all’ingresso della messa vespertina. Di lato il campanile a vela, raggiungibile con il ricorso a due scale a chiocciola poste sul retro della struttura campanaria, si articola verso l’alto con una copertura di valenza baroccheggiante e con una croce simile alla precedente. Le due campane, di diversa dimensione e fattura, stanno in angusti abitacoli senza possibilità di comunicare tra loro. Mi vien quasi voglia di raggiungerle dal sagrato, che sta sotto di esse meno di sette od otto metri, ma preferisco fare una visita brevissima all’interno della pieve. Varcato il portone, senza procedere verso la zona che conduce al transetto ed al presbiterio, resto nella zona riservata alla bussola d’ingresso, posizione ideale per cogliere la semplicità e il buon gusto presentati dagli arredi delle varie cappelle e dalla composizione floreale dell’altare.

   Approfitto intanto, dopo le brevi esternazioni condotte sul tempio, per dedicare un pensiero all’Altissimo suffragato dalla promessa di essere presente domani in Oristano alla messa domenicale. Tengo a precisare in proposito che, nel corso della mia vita, non sono mai venuto meno, salvo casi di forza maggiore, a detto obbligo ecclesiastico settimanale. Rispettando detto impegno dei giorni festivi non faccio che saldare un debito di riconoscenza che ho verso mia madre, una vera credente. Non posso dimenticare, al riguardo, le immagini offerte dalla mamma mentre saliva in ginocchio ed in preghiera i ventotto scalini della Scala Santa, gradini che io, bambino di tre o quattro anni, superavo saltellando. Per queste mie irriverenze non venivo, data l’età, mai ripreso. Fui invece ammonito con toni accesi quando, più tardi, esattamente nel 1948, un anno prima che passasse a miglior vita, manifestai il proposito di non andare più a messa. Fu per me una lezione esemplare.

 

 

 

 

martedì 18 giugno 2024

Gita in Marmilla

 

Gita in Marmilla


L’Associazione Cinquanta & Più di Oristano ha ritenuto, con l’avvio delle prossime vacanze estive, di chiudere la stagione primaverile con una breve gita nel dipartimento oristanese della Marmilla. Le località definite nel programma sono Masullas, Pompu e Turri. Alle prime due sedi sono riservati i tracciati di maggior interesse culturale mentre alla terza è stato assegnato il compito di carattere gastronomico.

In particolare a Masullas, le guide locali si adopereranno per illustrare ai partecipanti le note più salienti sui vari ambiti della chiesa parrocchiale e del museo cittadino mentre a Pompu gli accompagnatori turistici saranno impegnati a presentare, in reparti distribuiti in diverse salette di un caseggiato a pian terreno, i vari processi della panificazione secondo le regole del passato.

Il dulcis in fundo sarà regolato a Turri nell’ampio salone di un ristorante adagiato nella natura incontaminata del suo territorio.

La partenza da Oristano è fissata per le otto e mezza mentre l’arrivo nella prima località è previsto intorno alle ore nove e un quarto. I partecipanti al raduno, nel numero di una ventina, troveranno comodamente posto nel pullman prescelto dagli organizzatori.  

Una volta giunti a Masullas, il gruppo dei gitanti si incammina a passo spedito verso l’abitazione di uno degli associati dove, nel piano terreno, verranno offerti aperitivi, pasticcini, e caffè. A questa sontuosa anteprima dedicata alla colazione farà seguito la visita alla vicina pieve, luogo di culto dedicato alla Beata Vergine delle Grazie.

Ed eccoci sul sagrato. Alle attente osservazioni della guida, che avrà il suo gran da fare nell’illustrazione degli esterni e degli interni della parrocchia, dovrò purtroppo rinunciare a causa di una sordità che non mi consente di recepire chiaramente le fila del discorso. Per giunta mi ritrovo orfano di entrambi gli auricolari e, fino a quando non saranno riparati, dovrò affidarmi a ciò che vedo ed a quanto può impressionarmi.

Mentre gli altri si trovano all’interno della chiesa, preferisco sostare sul suo piazzale per osservare con molta attenzione la singolare ed intrigante facciata ed il bianco campanile che la sovrasta dall’alto dei suoi trentasette metri.

Ho usato il termine singolare in quanto il frontone, normalmente rappresentato dalla superficie di un triangolo isoscele, assume la forma di in trapezio dove i lati obliqui somigliano al lato ascendente ed a quello discendente della lettera maiuscola Emme mentre la base minore funge da congiunzione tra i due vertici con un leggera curvatura verso l’asse mediano. Il credere che detta lettera, riscontrabile nello stile calligrafico denominato Rotondo, possa rappresentare l’iniziale del nome della Vergine Maria, è solo frutto della mia immaginazione.

Sono ricorso al termine intrigante per giustificare le difficoltà incontrate nella lettura dell’iscrizione incisa sopra il portone d’ingresso. Mi auguro comunque di essere riuscito a risolvere il quesito con la seguente traduzione:

QUESTA OPERA E’ STATA REALIZZATA DI PROPRIA INIZIATIVA DAL SIGNORE DON FRANCESCO MASONES NIN VESCOVO. 1694.  

Preciso che i cognomi dei genitori del vescovo della Diocesi di Ales-Usellus sono Masones e Nin.

Riporto intanto quanto risulta scritto nell’epigrafe:

HOC OPPUS LABORAVIT MP A DNO DONFRAN.co M. ET NIN. EPO.1694.

In forma corretta e sciolta si leggerebbe:

HOC OPUS LABORAVIT M(OTU) P(ROPRIO) A D(OMI)NO DON FRAN(CIS)CO M(ASONES) ET NIN. E(PISCO)PO. 1694.

Detta scritta, definita in caratteri lapidei lungo una sola linea orizzontale, risulta affiancata da una duplice coppia di colonne con i capitelli che sorreggono la base maggiore del timpano. Sulla linea mediana della facciata risultano in chiara evidenza il rosone e il trigramma di San Bernardino.

L’intera facciata, ad onore del vero molto bella, risponde alle regole dello stile barocco.

Quando i gitanti cominciano ad uscire dal tempio, colgo l’occasione per fare una brevissima visita agli interni dove concludo con veloci osservazioni sulle cappelle che si susseguono lungo la navata centrale. Archi a tutto sesto per la maggior parte di esse ed archi ogivali per le cappelle che guardano più da vicino il presbiterio. In alto a queste ultime si osservano volte a crociera con corpose chiavi di forma tronco conica.

Prima di chiudere con la visita alla chiesa parrocchiale tengo a precisare di non aver avuto alcuna difficoltà nel decifrare quanto definito nell’epigrafe citata per i seguenti motivi:

a)     In terra di Marmilla sono di casa. In particolare, nell’archivio storico della diocesi di Ales, con l’intenzione di ricostruire i passi più importanti della vita di Antonio Tore, un mio conterraneo tonarese vissuto tra gli ultimi decenni del Settecento e gli anni Quaranta dell’Ottocento, ho bivaccato per una trentina di sedute da sei ore ciascuna. Come religioso aveva svolto il suo ministero in diversi centri della Barbagia e, sempre in età giovanile, aveva assunto le mansioni di vicario generale nella diocesi di Oristano. Consacrato vescovo a Bosa fu incaricato di governare la diocesi di Ales dove prestò i suoi servizi per circa un decennio. In seguito fu trasferito a Cagliari per esercitare la delicata funzione di arcivescovo.

b)     Ad Oristano, mia residenza da lungo tempo, sempre inseguendo le orme dell’alto prelato, ho potuto utilizzare al meglio i registri della mia parrocchia tonarese che ora risultano depositati nell’Archivio Storico arborense. Per assolvere a questo faticoso compito ho impiegato un tempo superiore ai dieci anni.

c)      Forte dell’esperienza curata nei centri diocesani di Oristano, Ales e Cagliari, ritengo di non aver mai trovato eccessive difficoltà nell’esaminare i documenti di un passato che corre dalla fine del Cinquecento ad oggi. Porto un esempio che fa riferimento alla iscrizione posta sulla stele di una fonte tonarese e che ricalca in qualche passaggio l’epigrafe posta in risalto sulla facciata della chiesa masullese. In essa viene riferito che l’opera venne eseguita nel 1762 a merito del suo rettore e dei suoi tre viceparroci. In questo caso i Cinque libri mi vennero incontro con la conferma degli estremi anagrafici di tutti i religiosi citati nell’incisione.

Dopo aver reso visita alla parrocchia il gruppo si ricompone ed è pronto per indirizzarsi alla volta del vicino museo naturalistico. La maggior parte dei componenti trova il modo, durante il trasferimento, di concedersi una breve pausa nei pressi della casa colonica di Francesco, un signore che con molto garbo si presta a brevi interviste sulla tenuta agraria che fronteggia la sua abitazione. Tra noi e l’agricoltore insiste una recinzione che supera abbondantemente il metro e mezzo d’altezza e sulla quale qualcuno si distende con gli avambracci, dietro di lui in prima fila due ampi solchi di piantine di melanzana, in seconda fila i cetrioli, in terza le zucchine ed al termine la sua dimora.  Alla sua sinistra una catasta di legna d’ardere di olivastro e sparsi sul terreno strumenti del mestiere che sanno di cesoie, roncole, zappe, rastrelli e pompe per l’irrigazione. Non vedo piantine di pomodoro. Sono là in fondo, riferisce Francesco. Fra qualche settimana, il raccolto di dette primizie onorerà le mense dei buongustai. I fagiolini, intanto, hanno già fatto la loro apparizione in tavola da tempo.

Di solito uso sempre coltivare amicizie con contadini e falegnami. Dagli uni e dagli altri cerco sempre di carpire segreti sulle loro professioni. In questa occasione, sento il dovere di rinnovare il mio ricordo per Peppino, un coetaneo deceduto un semestre addietro. Due anni fa mi aveva regalato una penna modellata col tornio su legno di castagno e sulla quale aveva inciso le sue iniziali. Una opera d’arte, uno strumento che utilizzo con piacere nella stesura dei miei servizi.

Al museo naturalistico, ospitato nelle salette dell’ex convento dei Cappuccini, c’è tanto da apprendere intorno alla vasta e documentata esposizione di minerali. Molti di essi sono presentati sia sotto l’aspetto compositivo che cristallografico. I reperti recuperati principalmente nella zona del Monte Arci fanno riferimento alle eruzioni vulcaniche del passato. L’ossidiana, minerale ad alto contenuto di silicio, non può mancare in bacheca. E’ notorio che la crosta terrestre del nostro pianeta, qualificata con l’acronimo SIAL, va ad   accogliere come elementi il silicio e l’alluminio. Per gli strati che portano al centro della terra, non interessati quindi ai movimenti teutonici, valgono invece le definizioni SIMA E NIFE (Silicio, Magnesio, Nichelio e Ferro).

Tra le sostanze calcaree è in esposizione la calcite, un sale minerale i cui elementi sono il carbonio, il calcio e l’ossigeno.  Le guide al seguito si fanno apprezzare per l’esposizione dei loro argomenti e per le risposte ai quesiti dei visitatori.  

Con un certo sforzo riesco ancora a coniugare la lettura di ciò che maggiormente interessa le mie attenzioni con i lineamenti scolatici legati allo studio della chimica. Ossidi ed idrati vanno d’accordo con i metalli mentre le anidridi e gli acidi convivono con i metalloidi. Il termine di congiunzione finale è dato dai sali. Ed in questo museo non si parla d’altro che di sali minerali,

Pompu, paese di duecentoventi anime, è la seconda tappa del nostro excursus mattiniero. Per arrivarci bisogna inseguire vaste distese collinari, ben ormeggiate da piantagioni di ulivo ed olivastro, che si susseguono a perdita d’occhio con sequenze rettangolari nelle aree curate dalla mano dell’uomo e in ordine sparso e diseguale nelle superfici orfane dell’apporto umano.

Molto interessante la visita condotta sui diversi tipi di panificazione elaborati secondo le regole del passato. Il tutto viene presentato nei reparti allestiti nei locali di un edificio comunale.

Naturalmente si fa riferimento ai tempi in cui la macinazione del grano veniva attuata con il concorso dell’asino, il quale, operando attorno alla mola con cerchi concentrici, favoriva la rotazione del palmento intorno alla base fissa del mulino. Con molta sincerità devo ammettere di non aver mai assistito alle operazioni governate dall’animale. Eppure il contributo del paziente quadrupede è stato determinante anche nel sollevamento dell’acqua dai pozzi. Le norie del passato hanno ceduto il passo alle pompe idrauliche del presente.

A Samugheo, in località Ponte Ecciu, avevo presenziato, una ventina di anni fa, alla macinazione del grano operata con i palmenti fatti ruotare dall’acqua del fiume.

Il mio paese, con l’utilizzo dell’energia elettrica datata 1925, ha dovuto fare a meno dei mulini ad acqua già dall’inizio degli anni Trenta. In quegli anni nella mia abitazione di Via Vittorio Emanuele venne impiantato un mulino elettrico che successivamente, verso gli inizi degli anni Quaranta, fu dislocato nella casa dei Garau in Sa Discarriga, Devo precisare che mia madre, prima del 1936, anno in cui convolò a nozze, aveva prestato il suo servizio nell’arte molitoria come mugnaia.

Un ultimo appuntamento è riservato all’immagine fotografica di un nuraghe quadrilobato esistente ai confini del paese. Santu Miale è il nome che gli è stato assegnato ab illo tempore. Miale sta per Michele e Mialita per Michela. Così risulta dai registri parrocchiali tonaresi di inizio Seicento.

L’ultima tappa si consuma in un ristorante di Turri. La capienza del salone può ospitare comodamente sino a cento commensali. Nulla da eccepire sulla celerità dei servizi e sulla bontà delle bevande e delle cibarie. Ad ogni inserviente ai tavoli ho riservato il termine di Achillide, ossia Piè veloce Achille. E’ questo un neologismo che vale più di un complimento.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

giovedì 13 giugno 2024

Masullas

 

Masullas    

Iscrizione sul frontone della chiesa parrocchiale

Trattando a grandi linee della chiesa parrocchiale di Masullas, mi sento in dovere di partecipare ai suoi fedeli frequentatori che la progettazione e la costruzione dell’edificio di culto vennero portate a termine nel 1694 a merito del cagliaritano Francesco Masones Nin, vescovo della Diocesi di Ales – Usellus.

Sul frontone, appena al disopra del portone d’ingresso ma sotto il trigramma di San Bernardino, risulta bene evidenziata la seguente iscrizione:

HOC OPPUS LABORAVIT MP A DNO DONFRAN.co. M. ET NIN EPO. 1694.

Presentando il tutto in forma sciolta e più corretta si otterranno le seguenti conclusioni: HOC OPUS LABORAVIT M(OTU) P(ROPRIO) A D(OMI)NO DON FRAN(CIS)co M(ASONES) ET NIN E(PISCO)PO. 1694.

Qui di seguito la mia costruzione letterale in italiano:

QUESTA OPERA E’ STATA REALIZZATA DI PROPRIA INIZIATIVA DAL SIGNORE DON FRANCESCO MASONES NIN  VESCOVO. 1694.

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Mi riservo di coniugare il riscontro di questo modesto contributo con la pubblicazione a più ampio respiro del resoconto della gita consumata domenica scorsa nel dipartimento della Marmilla.

Oristano, 12 giugno 2024

Giovanni Mura

giovedì 30 maggio 2024

Nuraghe Losa

 

Parco di Santa Cristina e villaggio di Nuraghe Losa

 

E’ da diversi anni che faccio parte dell’Associazione 50 & Più di Oristano. Detto Ente, con sede principale in Roma ma con ramificazione capillare in tutta Italia, si prefigge lo scopo di promuovere gli aspetti culturali e ricreativi di quanti hanno superato i cinquanta anni di età.

E’ ovvio che i tracciati definiti nei programmi relativi alle gite domenicali o ai più impegnativi viaggi oltre mare non possono non tenere conto delle prestazioni di carattere gastronomico. E’ immancabile dunque il riferimento alle voci dettagliate del menù.

Questa possibilità di coniugare gli obiettivi culturali con quelli decantati dalle ricche e sontuose tavolate mi è stata offerta nello scorso mese con la partecipazione alla visita dei siti archeologici di Santa Cristina e di Nuraghe Losa nei territori di Paulilatino e di Abbasanta.

Le bevande e cibarie ed il dulcis in fundo sono stati curati in un tipico ristorante della campagna norbellese. 

Per ciò che concerne le manifestazioni di carattere culturale devo rifarmi a quanto avvenuto domenica 28 aprile durante la mattinata e nelle ore successive.

Quanti mi hanno preceduto nello scendere dal pullman, parcheggiato a brevissima distanza dall’ingresso al sito archeologico, si ritrovano ora in prima fila, a ridosso del lungo bancone del bar, ad attendere alle loro consumazioni. Ai ritardatari sono riservate le seconde e terze file. E’ questa la mia prima lettura sui quaranta partecipanti alla gita.

Di solito, alle lungaggini di queste soste al buffet, preferisco soprassedere e, in questa occasione, preferisco incamminarmi a passo lento lungo una discesa che porta alla chiesetta campestre di Santa Cristina, luogo di culto dove è previsto l’incontro con la guida locale. Tanto alla sinistra quanto alla destra di questo breve percorso si succedono decine di curiose casette edificate con materiale vulcanico e tanta malta. Alla stessa tonalità scura delle pietre basaltiche si associano anche i serramenti delle aperture. Queste costruzioni, con la loro disposizione a semicerchio, sembrano omaggiare i numerosi turisti di passaggio, ignari questi ultimi che il senso della vera accoglienza sarà tributato a chicchessia durante i nove giorni che precedono la festa religiosa. Solo in questo lasso di tempo regolato dal novenario sarà possibile ammirare e sbirciare attraverso gli usci e le altre piccole vedute gli interni di queste piccole abitazoni, definite nel tempo con i termini di cumbessias o anche di muristenes.

La chiesa, disposta in fondo alla breve discesa e raccolta in un ampio piazzale, vanta origini antichissime.  Le fonti storiche riferiscono che l’edificazione è stata curata dai frati camaldolesi intorno al Mille e Duecento.

I muristenes sono sorti molto dopo, ma non prima del 1582. A questa definizione temporale sono pervenuto rifacendomi alla pastorale dell’arcivescovo Francesco Figo, il quale, nel paragrafo relativo al comportamento tenuto dai fedeli nelle chiese campestri ordina quanto segue:

In is deplus cresias campestras quj de una milla ajnantj antj a jstarj de su pobladu aundj particularis devotionis multus accudintj decretaus et ordinaus e ais preditus beneficiadus rectoris curadus et oberaius cumandaus quj jn ditas jsglesias no bolanta premjtirj ni p(er)mjtanta (nel testo pmjtanta) quj nixunu homjnj de doxj anus jnsusu apustj sa posta de su solu fina asa exida (dal tramonto del sole sino all’alba) no apanta a jstarj njn dormjrj jn cuddas cresias.

Il documento in oggetto risulta catalogato nell’Archivio storico diocesano di Oristano alla voce Gesturi (Quinque Libri).

La costruzione di dette cumbessias non poté quindi avvenire nelle comunità arborensi che in tempi successivi alla data di emanazione del citato decreto. Nella pastorale, che nei vari passaggi fa anche riferimento ai dettami del Concilio Tridentino, è espressamente ordinato il divieto d’ingresso in dette chiese di campagna, durante le ore notturne, a tutti i maschi di età superiore ai dodici anni. Penso che, a seguito di detta ordinanza, qualcuno dei fedeli abbia optato per l’edificazione dei primi alloggi nelle vicinanze dei santuari campestri.

Dagli interni della chiesetta, dove, unitamente agli altri partecipanti, ho potuto seguire le interessanti e convincenti relazioni della guida si esce nuovamente all’aperto per procedere, in un ambiente mozzafiato curato egregiamente da madre natura, su tracciati che superano di migliaia di anni i tempi fissati dal calendario cristiano. La penombra riservata al visitatore dalla rigogliosa vegetazione di ulivi ultrasecolari crea la giusta atmosfera per favorire al meglio un appagante ingresso nella civiltà nuragica.

Si inizia con la visita ad un piccolo nuraghe che, a detta della guida, assume particolare importanza per le segnalazioni che, in coincidenza delle ricorrenze annuali dei solstizi e degli equinozi, rilascia dal punto di vista astronomico.

Si prosegue, a brevissima distanza, con l’ispezione al pozzo sacro. In questo sito è possibile verificare, in tempo di lunistizio, fatto che si verifica ogni diciotto anni e mezzo, 18,6 per esattezza, che il fascio di luce lunare si riflette verticalmente nello specchio d’acqua in fondo al pozzo dopo aver superato l’unica imboccatura di superficie del diametro di appena ventisette centimetri. Per una migliore comprensione preciso che la luna, l’orifizio esterno e la pozza d’acqua si dispongono lungo un fascio luminoso una sola volta ogni ventennio. L’appuntamento è per il prossimo anno. E se la giornata è nuvolosa? E’ quel che mi preoccupa di più, risponde la guida.

Dopo i doverosi ringraziamenti all’accompagnatore, che con competenza e maestria è riuscito, anche avvalendosi delle videate del suo portatile, a curare al meglio la descrizione dei siti incontrati, si ritorna con molta calma al mezzo di servizio che in brevissimo tempo ci condurrà al villaggio di Nuraghe Losa.

La sosta temporanea del pullman nel piazzale antistante il nuraghe mi consente, data la mia decisione affrettata e sofferta di non effettuare, per motivi precauzionali, alcuna visita all’interno del villaggio, di fare un breve resoconto delle osservazioni condotte dalla mia postazione a bordo macchina.

Intorno a me la visuale sull’immenso anfiteatro naturale che mi circonda è completamente libera in ogni settore.

Di fronte, a distanza di un centinaio di metri, si estende una lunga ed alta recinzione di massi basaltici che mi impedisce di vedere le costruzioni circolari innescate alla base della grande struttura.

Alla mia sinistra non vedo nulla di particolare ad eccezione di due strade asfaltate che si inseguono per breve tratto salvo svoltare chissà dove e scomparire nel nulla. Una di queste è denominata Curva di Nuraghe Losa, via di comunicazione sulla quale mi intratterrò al termine della mia esposizione.

Alla mia destra una campagna verdeggiante che in lontananza sembra abbracciare vari centri abitati del Marghine per i quali la visuale mi garantisce le possibili coordinate ma non i rispettivi confini territoriali.

Di spalle, la folta vegetazione delle piante ghiandifere e certi dislivelli di tipo altimetrico mi impediscono di osservare la grande distesa d’acqua  del Lago Omodeo che, con solennità sembra governare, col supporto della diga, i contenuti idrici del suo bacino. Il corso d’acqua che al termine del suo tragitto promuove l’immenso invaso, della capacità di circa ottocento milioni di metri cubi, funge da linea divisoria tra i territori del Guilcier e del Mandrolisai, distretti nei quali sono osservabili le caratteristiche cumbessias di San Serafino alle porte di Ghilarza e quelle di San Mauro tra Ortueri e Sorgono. Disposizione a semicerchio per le prime e successione “in duplice filar” per le seconde.

Fungono da cornice a questo interessante quadrante le vette più elevate della nostra isola. Su Punta Paolina e su Punta La Marmora, i miei scarponi di settantanni addietro avevano calcato le loro orme.

Ma ritorniamo al quadrante che interessa maggiormente il nostro viaggio.

Quanti hanno modo di osservare attentamente in cartolina o nelle riviste specializzate i lineamenti del nuraghe trilobato non possono disattendere la mia informazione visiva che lo paragona ad una scarpa a doppio plantare, dell’altezza di un ventina di metri, e a tre scatole di lucido che si elevano dal terreno di poche spanne. Il primo articolo di calzatura varrebbe per la struttura tronco conica mentre il secondo per le costruzioni circolari.

Galoppando con la fantasia tento di immaginare quale dimensione potrebbe avere il personaggio mitologico incaricato di calzare quella scarpa. Il ricorso allo studio delle proporzioni potrebbe assegnare a detta figura un’altezza di circa duecento metri, dimensione questa di gran lunga inferiore alle super altezze delle maxi torri eoliche dei giorni nostri. Mi sto riferendo a quei mostri d’acciaio che nell’assemblaggio di piloni, rotori e pale ci consegneranno con le loro evoluzioni un cielo rigato a quadretti. Il dio dei venti incontrerebbe certamente delle difficoltà a supportare le grandi pretese energetiche di un parco eolico distribuito a dismisura nella nostra isola.

Doveroso in chiusura ricordare quanto avvenne di tragico, in una notte primaverile della seconda metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, nell’abbordare in macchina la fatidica curva che porta “chissà dove”. Tre ragazzi di Oristano persero la vita durante il rientro da Macomer alla loro città. Uno di questi era stato un mio compagno di scuola nel capoluogo del Marghine. La morte bianca, aveva teso l’agguato proprio nei pressi del villaggio nuragico. Per ironia della sorte, la circolazione in Sardegna delle macchine private, in quei tempi, era molto ridotta. I rivenditori di torrone di Tonara, si servivano ancora per i lunghi viaggi di carretta e cavallo.

Giovanni Mura

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Parco di Santa Cristina

e

Villaggio di Nuraghe Losa

 

 

 

 

 

 

 

 

Con

le attenzioni dell’Associazione Cinquanta & Più di Oristano


martedì 12 dicembre 2023

Visita ai Giganti di Monte Prama

 

Visita ai Giganti di Monte Prama


   L’incontro di carattere culturale con i Giganti di Monte Prama è fissato per sabato 25 novembre 2023.

Il programma, definito dall’Associazione 50 & più di Oristano, prevede tre soste di cui la prima tratterà gli aspetti più significativi sugli scavi operati nella zona collinare del monte citato, la seconda riguarderà la visita al Museo di Cabras, sede in cui sono esposti i reperti archeologici di maggiore interesse e la terza sarà riservata al pranzo.

Da Oristano si partirà alle ore nove con un pullman prenotato per una trentina di passeggeri. Il tragitto non supererà, tra andata e ritorno, i venti chilometri.

L’attesa per questo rendez-vous è da parte dei partecipanti molto condivisa, salvo la comune preoccupazione per le avverse condizioni meteorologiche avanzate dagli esperti nel corso della settimana. Le previsioni hanno fatto continuamente riferimento a temporali, mareggiate e venti di notevole intensità in tutta la Sardegna.

Contrariamente a quanto segnalato sul maltempo da coloro che si erano affidati al supporto dei modelli matematici ho potuto constatare, già dalle prime luci del giorno della partenza, che dall’interno della mia abitazione il cielo era limpido in ogni dove mentre all’esterno si avvertiva soltanto un po' di freddo.

Dopo queste osservazioni di carattere climatico vado convincendomi sempre di più che a farne le spese, talvolta, sono proprio i modelli probabilistici citati.

Al punto di partenza, fissato come riferito per le ore nove, vedo molti visi sorridenti che pregustano quanto succederà in itinere nell’arco dell’intera giornata.

Tra coloro che vanno ad occupare i loro posti rivedo le solite persone, gli habitué delle gite programmate dall’organizzazione, ma anche qualcuno che ritenevo avesse scelto di fare un’eterna vacanza altrove. Presumo che costui avesse pensato la stessa cosa su di me che, non sempre, mi trovo disponibile a seguire i distensivi tracciati dell’Associazione. Faccio queste considerazioni tenendo conto che l’età media degli affiliati si aggira intorno alla settantina. Il più anziano ha ottantotto anni, la moglie 84 mentre il sottoscritto è prossimo agli ottantacinque. A bordo pullman la gioventù, eccezione fatta per il conduttore del mezzo, latita. Fanno parte della comitiva un piemontese ed una istriana, residenti in Sardegna da lungo tempo, mentre tutti gli altri sono isolani.

   Ci troviamo ora, dopo appena un quarto d’ora di viaggio, in aperta campagna, in prossimità della zona interessata agli scavi. Si tratta di un’area della superficie di poco superiore a quella di un campo di calcio. L’ingresso, cui fa seguito una recinzione curata a dovere, è costantemente tenuto d’osservazione da una custode con tanto di divisa nera da sembrare un funzionario in alta uniforme. A pochi metri staziona, radente al suolo, una costruzione in legno d’abete con all’interno una sedia ed alcune borse con tanti documenti.

Al manufatto in legno che funge da segreteria, avrei preferito un abitacolo in stile neo nuragico. In gioventù mi ero permesso di costruirne uno di fronte a casa mia con materiale di riporto ritrovato nei dintorni. Avevo impiegato mezza giornata per elevarlo a circa un metro e mezzo d’altezza ed i commenti dei curiosi, dato l’interesse suscitato, non si fecero attendere.

All’esterno, in un breve spazio riservato ai visitatori di turno, la guida è pronta ad accoglierci con un sorriso molto accattivante. Alta, di bell’aspetto, sembra una sacerdotessa della dea Vesta.

Non piove e non pioverà ma in cambio il vento di maestrale sibila in continuazione. Almeno su questo elemento i modelli matematici hanno avuto ragione.

L’oratrice, inizialmente, per soddisfare la nostra sete di sapere, cerca, e ci riesce, di fare del suo meglio presentandosi con assaggi di tipo teorico, molto simili a quelli curati in classe dagli insegnanti. In seguito, ci invita a seguirla nella zona degli scavi. E qui la lezione diventa di tipo pratico.

Dobbiamo precisare che le informazioni che ci vengono fornite sono soggette in campo archeologico a numerose mutazioni nel tempo. Le variabili in gioco sono tante ed i risultati non sempre incontrano i favori degli analisti. Si va comunque avanti, anche se a tentoni.

Sino ad una ventina di anni fa non sapevo nulla delle statue di calcare dissepolte nella penisola del Sinis, l’area magica su cui insiste Monte Prama. Di detti primi ritrovamenti si era parlato tanto intorno alla metà degli anni Settanta, 1974 per l’esattezza, quando un contadino avvertì, in fase di aratura del terreno in cui operava, che il suo trattore agricolo faceva molta fatica a procedere oltre. Io sono rimasto all’oscuro di tutto.

In questo territorio, compreso tra stagno, terra e mare, avevo svolto da cicloamatore i miei allenamenti sportivi. Mi permisi anche il lusso di organizzare, nella seconda metà degli anni Settanta, ben quattro edizioni de Su Fassoni, titolo quest’ultimo da me assegnato a queste manifestazioni cicloturistiche denominate Gran Fondo.

È da una ventina di anni che ho potuto avere qualche conoscenza intorno agli ormai famosi Giganti, mentre, è da circa un decennio, esattamente da quando ho fatto visita al museo di Cabras, sito in cui sono conservati i reperti, che sono riuscito a saperne di più. Il tutto restava slegato dalla presenza dell’elemento umano. La lettura dell’oggi, dopo le delucidazioni della guida, mi ha permesso di risolvere molti miei dubbi. I Giganti, da enigmatici, misteriosi, laconici, incomprensibili ed indecifrabili, sono diventati più espressivi, chiari e significativi. Dal silenzio irreale si è passati ad un silenzio eloquente quasi che dalla materia si fosse sprigionato uno spirito umano.

L’evidente contrasto definito nello sfondo dal colore bianco di dette sculture con quello nero delle pareti del museo ben si concilia con l’imponenza delle dimensioni dei Giganti medesimi, presentati nelle vesti di guerrieri, arcieri e pugilatori. Il tutto genera nell’osservatore stupore, incredulità e senso di disorientamento.

Ma ritorniamo alla visita odierna ed ai tracciati che la guida ci presenta attraverso la definizione di vari settori chiave. Il primo di questi ci permette di osservare una duplice fila di tombe a pozzetto, il secondo presenta i punti di ritrovamento dei frammenti delle statue dei Giganti ed il terzo le basi in pietra di edifici che si presume fossero votati alle cerimonie relative al culto dei trapassati. Oltre questi settori le attività agricole del giorno d’oggi fanno riferimento a vigneti e carciofeti.

La nostra sacerdotessa, attenta ed intenta a non spegnere il fuoco delle nostre attenzioni come da dovere imposto ad ogni Vestale, fraseggia con eleganza nel campo funebre, ad una distanza da noi non superiore ai dieci metri, servendosi di ampi gesti delle mani per indicare i punti più meritevoli di citazione. Siamo in un cimitero dell’antichità. Siamo in una necropoli di tutto rispetto.

Avrei delle domande da porre, ma, per il mio alto deficit uditivo, che mi impedisce di interloquire con chi opera ad una certa distanza, e per non urtare la sensibilità di qualcuno, preferisco starmene zitto e ricorrere successivamente alle interrogazioni sul mio cellulare.

Venivano, i nostri trapassati, inumati in verticale o in orizzontale? A questo quesito mi è stata data risposta osservando in Internet un disegno curato con molta efficacia dagli esperti del settore. In detto schizzo, l’inumato, rannicchiato su sé stesso, va ad occupare un loculo di forma cilindrica della profondità di una settantina di centimetri e con la base superiore regolata da una lastra piatta di forma quadrata o anche circolare. Intravedo anche delle coperture rivestite di ciottoli d’arenaria che nell’insieme danno l’idea di un coperchio di forma conica e di altezza non superiore ai venti centimetri.

Se può risultare un po' difficile questa mia spiegazione posso tentare di rappresentare il defunto nella sistemazione che sogliono assumere i campioni di sci nelle loro discese libere. Posizione a uovo. Non vorrei essere irriverente con il defunto in questo accostamento sportivo quando affermo che il nostro trapassato, in posizione da fermo, è stato in grado di effettuare sinora salti nel tempo che durano da ben trenta, ventotto e ventisei secoli. Forse sarà meglio parlare di dieci, otto o sei secoli avanti Cristo. Dall’età del ferro o dal neolitico, tanto per intenderci. Per la datazione di questi lunghi tempi si è fatto sempre ricorso da parte degli archeologi al metodo del carbonio, procedimento col quale vengono trattati piccoli campioni di materiale organico.

Altra domanda è quella relativa alla funzione avuta dalle statue dei Giganti all’interno della necropoli. Forse saranno state posizionate per onorare la memoria dei defunti di maggior peso e talento.

Al vicino museo di Cabras posso constatare che l’esposizione di molti nuovi reperti è avvenuta in locali più idonei alla loro collocazione e fruibilità. Non solo Giganti ma anche arnesi in materiale ferroso e suppellettili in ceramica. Non sfugge all’attenzione degli osservatori un modellino di nuraghe con tre torrioni che simula con molta chiarezza la forma della imponente costruzione di Orroli.

Ultimate le nostre visite, compresa la pausa pranzo, ci apprestiamo a ripartire per Oristano, la città dei grandi Portali. In fila, e con molta calma, ciascuno sale a bordo del mezzo permettendo al sottoscritto di fare una ideale conta dei viaggiatori e la lettura dei loro nomi. Particolarmente soddisfatti dell’escursione sono Augusto, Carlo e Lidia di Oristano, Maria Grazia di Tinnura, Mario di Paulilatino e Alice di Nurachi.

Avrebbe potuto far parte di questa interessante gita anche Terenzio di Treviso ma i suoi impegni familiari e culturali lo hanno sempre disatteso ma non dissuaso. I suoi passatempi preferiti sono sempre stati dedicati all’affetto per i nipotini ed alle continue visite al Montello e alle Dolomiti. Ma i Giganti del Monte dalle palme nane non demordono. Restano in attesa anche dei ritardatari.

Giovanni Mura

mercoledì 28 giugno 2023

TRE GIORNI A CARLOFORTE

Tre giorni a Carloforte

 Le attenzioni dell’Associazione Cinquanta e più di Oristano

Da Oristano a Carloforte

   Il viaggio programmato per i giorni 19, 20 e 21 maggio del corrente anno dall’Associazione Cinquanta e più di Oristano, con destinazione Carloforte, è per me sfumato per ragioni di salute. Sarà per un’altra volta, se si presenterà l’occasione. Dubito che ciò possa avvenire. Eppure, la distanza tra Oristano, città che mi ospita da moltissimi anni, e l’isola di San Pietro, non supera in linea d’aria il centinaio di chilometri. Se un cicloturista di passaggio in questa mia residenza chiedesse indicazioni su detto percorso non esiterei ad informarlo di andare sempre diritto in direzione sud sulla Carlo Felice per poi svoltare a destra. Avrai da pedalare dalle tre alle quattro ore prima di raggiungere Calasetta, punto d’imbarco per Carloforte. Il nostro cicloamatore, una volta a bordo del traghetto, non si renderà conto di lasciarsi dietro ben due isole: la Sardegna e Sant’Antioco. Io, all’isola di Sant’Antioco ci sono stato anni fa senza aver dato tanto peso, in entrata, al passaggio del pullman sull’istmo artificiale che collega le terre citate.

   Di questa gita domenicale effettuata in territorio sulcitano ho un buon ricordo, anche se resta il rammarico di non aver potuto raggiungere la cittadina di Calasetta e riuscire così ad intravvedere la terza isola.

   Se avessi avuto una macchina a disposizione e la patente in regola avrei potuto organizzare al meglio il viaggio in oggetto. Di tentare di risolvere il problema ricorrendo alla bici sarebbe troppo appagante ma allo stesso tempo molto dispendioso per il mio fisico, non più abituato come in passato ad affrontare lunghi percorsi. Non mi resta che attendere nuove proposte dagli organizzatori di turno e sperare che certi disguidi dell’ultimo momento non abbiano più a presentarsi. Per me, detti problemi accadono di rado, ma quando capitano devo purtroppo arrendermi. Non posso dimenticare quanto mi successe, una ventina di anni addietro, in Egitto quando da Menfi, località vicinissima al sito delle Piramidi e della Sfinge, dovetti ritornare in albergo a Città del Cairo per un problema di dissenteria.

   E torniamo alle nostre tre isole sulle quali non ho potuto definire al meglio il completo inanellamento. Il disguido occorsomi non mi ha comunque impedito di partecipare, almeno idealmente, alla escursione nell’arcipelago del Sulcis. Mi è di conforto riconoscere che il posto libero, a bordo pullman e sulle panche in legno del traghetto, è stato assicurato, per tutto il tragitto di andata e ritorno, dal pagamento del biglietto. Ho quindi la facoltà di fantasticare sui tempi e sui modi di percorrenza dell’intero tragitto.

   Dal punto di vista geografico non ho alcuna difficoltà a presentare le terre che trattano dell’escursione in oggetto. La prima, la Sardegna, si può raffigurare con la forma di un sandalo che nel tratto occidentale, dalla cintola in giù, si esprime con la superstrada che corre da Oristano a Carbonia, e nel punto terminale con gli appoggi esterni alle isole di Sant’Antioco e San Pietro, quasi due falangi del dito esterno del piede appoggiato sul Sandalyon.

   Ad onore del vero, ho cercato di saperne di più da qualcuno dei partecipanti alla meta agognata, anche se le informazioni ricevute non sono state per me molto sufficienti e convincenti. Le mie richieste vertevano su alcuni cenni di carattere storico, geografico, economico e culturale della città di Carloforte ed in particolare

a)       del loro amato Re che concesse nel 1738 alla nutrita colonia di pescatori liguri la possibilità di stabilirsi definitivamente nell’isola di San Pietro,

b)       delle linee che movimentano i tracciati insoliti del paesaggio carlofortino e delle magnifiche cale e calette che si ripetono lungo la costa

c)       dell’orgoglio di sentirsi padroni del tabarchino, un patrimonio linguistico dialettale di forte taratura e partecipazione,

d)      del vanto indiscusso delle loro intraprese in campo economico (voce tonnare) e turistico (voce Girotonno).

   L’intervistato, a queste mie richieste, ha preferito dare risposte generiche vertenti soprattutto sulle condizioni climatiche e sulla ristorazione. Al ristorante X servizio e portate da trenta e lode. Al ristorante Y altrettanto. E così via.

   Per rendermi conto di come stiano realmente le cose, non ho che da programmare per una mia prossima escursione nell’isola di San Pietro.

Ho già pronta nella mia agendina una serie di domande da porre a chi mi capiterà a tiro. La prima di queste, che è di carattere sportivo, verrà così presentata: Scusi, per quale squadra fa tifo? Per il Genoa o per la Sampdoria? mentre la seconda che è di carattere culturale proporrà il seguente quesito: Riuscirebbe ad avviare una breve conversazione in dialetto sardo?

   A questo breve spazio condotto sulle terre sulcitane intendo aprire una breve parentesi sulla chiusura dell’anno sociale dell’Associazione Cinquanta e più, con manifestazione che ha avuto luogo ad Oristano in data 25 giugno in uno dei migliori ristoranti della città. Ottimo il servizio e prelibate le portate. La persona che ho intervistato a suo tempo per la Tre giorni a Carloforte, oggi presente come commensale e buona forchetta, così commenterebbe sulle cibarie e bevande presentate ai tavoli: Ottime le degustazioni di gamberi, anguille, muggini, mitili, seppie ed attinie avvicendate con macedonia, torta, musica e brindisi a base di Prosecco e spumante.

   Oristano, 27 giugno 2023

mercoledì 5 aprile 2023

Notizie sul torrone

 

 


Turrones e turronargios in Tonara e ateru logu
(Servizio del 2 marzo 2001)

   

 Indicazioni sulla sagra di Pasquetta

 Che la campagna tonarese non si possa presentare per Pasquetta, in occasione della sagra del torrone, nelle sue vesti migliori, lo si deve al fatto che le varie colture arboree non rispondono, in questo periodo allo stesso modo e negli stessi tempi ai richiami della primavera.

   Le tinte di intenso verde diffuse a tutto campo dalle poche estensioni di lecceti, dalle numerose pinete e dalle rare abetaie che insistono sul territorio, non possono rimediare all’impatto delle tonalità di grigio e di scuro espresse dagli habitat dei castagneti e dei noccioleti ancora in letargo. Si ha l’impressione che queste colture, prive del loro manto fogliare, protendano inutilmente verso l’alto i loro rami quasi a proteggere con molta umiltà la loro nudità e quella del sottobosco che le nutre e sostenta.

   Più gradevole il biglietto da visita offerto da tutte quelle piante spontanee che sono riuscite a trovare spazio nei bordi delle strade, nelle piccole estensioni curate a prato oppure in quelle piccole aree orfane di sottobosco. I colori evidenziati dalla fioritura e dal manto vegetativo dell’insieme si integrano felicemente con i quadretti di intenso bianco o di bianco rosa rappresentati dalle fugaci apparizioni de peri e dei ciliegi in fiore.

   Per raggiungere la vasta conca a forma di ellissoide o meglio la elegante bomboniera su cui si adagiano i centri montani di Tonara, Belvì ed Aritzo, non bisogna percorrere tanta strada, ma a causa della tortuosità di un tracciato non sempre agevole è necessario spendere dei tempi decisamente superiori alla media. In ogni caso ne vale sempre la pena.

   Che la popolazione risponda invece in modo egregio alle attese dei numerosissimi ospiti lo si capisce sin dalle prime manifestazioni in programma nella giornata. Encomiabile la disponibilità dei tantissimi artigiani impegnati nelle attività connesse alla lavorazione del torrone, dei campanacci e del legno ed altrettanto valida la collaborazione espressa da tutti gli operatori addetti alla ristorazione, alla degustazione dei prodotti tipici delle sagre mercato. Insolito il punto di fuga pennellato dal carosello infinito delle bancarelle di oggettistica nazionale ed estera.

   Degni di menzione saranno l’intenso traffico automobilistico e l’incontenibile flusso e riflusso di visitatori sulle arterie principali del paese. Potremo anche compiacerci di osservare il simpatico arrembaggio alle postazioni di vendita dei torronai tanto che verrà quasi spontaneo chiedersi se valga ancora l’antico monito o rimprovero rivolto ai minori: Ma ite du ada turrones!

   Il torrone, al lemma turrione del valido dizionario in lingua sarda di Mario Puddu, è definito, nella variante logudorese, una zenia de durche fatu cun chiu de mendhula ispizolada e mele (ma fntzas tucaru) con l’integrazione dovuta al dialetto tonaresee de gios de cocoro e de lintzola.

   Qui di seguito l’elenco dei torronai presenti all’ultima sagra del millennio scorso:

Massimiliano Tore del rione di Teliseri, Gesuino Cadeddu, Gianni Patta, Giovanni Patta e Francesco Todde del rione di Toneri, Costantino Peddes e Bruno Porru del rione di Arasulè e Adriano Demurtas, Carmelo Demurtas, Giuseppe Demurtas, Gabriele Peddes, Gian Luigi Noli, Salvatore Pili, Settimo Piras, Giovanni Poddie, Tonino Zucca e Maria Antonietta Zucca del rione Su Pranu.

   Erano presenti inoltre Sebastiano Podda, tonarese domiciliato in Oristano, ed Antonio Maxia di Aritzo.

   Virtualmente è da considerare sempre presente anche Lussorio Cadeddu, un figlio d’arte che da circa quaranta anni gestisce quotidianamente, lontanissimo agli antipodi, sotto cieli cifrati da altre costellazioni, a qualche piccola ma pur sempre significativa frazione di secondo luce, in terra d’Australia a Sidney, gli stessi articoli di produzione tonarese.

   Ci sia consentito ora un breve passaggio dell’ospitalità riservataci lo scorso anno durante un viaggio di istruzione in Barbagia denominato Norie, Mulini e Gualchiere. Per l’occasione avevamo appena reso visita all’azienda dolciaria dei Pruneddu, con tanto di assaggio gratuito per tutti i partecipanti, un centinaio circa, e già ci apprestavamo a raggiungere la bottega di un noto operatore nell’arte dell’intaglio del legno, quando, in prossimità del punto di flesso di quella serpentina stradale che all’uscita del paese va a ricucire e modellare gli ultimi segmenti edilizi del nuovo rione, fummo richiamati dallo sbracciare concitato ed animato di alcune donne vestite in bianco di tutto punto. Sembravano per via delle bianche cuffiette raccolte sulla nuca, delle infermiere del pronto soccorso. Venite, venite quassù. Accorremmo in massa e fu torrone buono per tutti. Erano rappresentanti della Ditta Poddie-Corongiu.

   A causa del poco tempo a disposizione, tempo che è sempre tiranno in questo tipo di gite programmate, non potemmo rendere visita ad un’altra grossa azienda di Toneri, quella dei Pili. Avremmo certamente potuto concederci ad altri ulteriori assaggi agli squisiti bocconcini a base di mirto e di limoncello. Sarà per un’altra volta. La gualchiera di Tiana, l’unica in Sardegna ad insistere ancora nel suo alveo naturale, era in forte apprensione per noi.

     

Sconosciuto lo smercio del torrone nel Settecento

   Bisogna fare ulteriore opera di ricerca per appurare come il dolce di Alicante, di confermata derivazione araba, abbia raggiunto, nel periodo della dominazione spagnola in Sardegna, il palato dei buongustai sardi.

   Sembra infatti, seguendo le indicazioni di Francesco Gemelli e di Antonio Dell’Arca, che nell’isola la produzione ed il commercio del torrone nel settecento fossero sconosciuti. Secondo il primo autore, nel paragrafo dedicato alle api, al miele ed alla cera di Rifiorimento in Sardegna, opera edita a Torino nel 1776 e riproposta all’attenzione dei lettori con i tipi della Editrice sarda Fossataro di Cagliari, l’isola di Sardegna in generale dà ottimo miele, e così eccellente, che il migliore può gareggiare col più reputato di Spagna. La sua copia par che soverchi il consumo dell’isola. Del soprappiù parte ne va a Roma in dono, e parte forma l’oggetto di un tenue commercio.

   Stando alle testimonianze espresse dal secondo referente in Agricoltura in Sardegna, un trattato portato a termine nel 1749 ma edito nel 1780, apprendiamo dalla nuova edizione dell’anno 2000 curata da Giuseppe Marci per conto della Cuec, a proposito dell’utilità del miele, nel capitolo Della natura, e modo di governar l’api, che  l’esser purgante è una delle principali virtù del miele, onde si mischia nelli cristieri: con assenzio giova al ventricolo, con issopo riscalda, con rosa rinfresca e scioglie il corpo.

   Il miele altresì è contra i veleni antidoto: ammazza i pidocchi e fa crescere i peli, applicato nella parte del capo da dove fossero caduti./

   Per fine l’uso del miele nelli cibi e conserve, è più sano del zucchero
   Null’altro che un purgante, una lozione o un additivo in gastronomia.
   Nel capitolo Degli alberi di frutto con osso o nocciolo, il Dell’Arca, trattando dell’utilità delle nocciole riferisce, che questo frutto, secondo la tesi di vari autori, cagioni dolor di testa, e che seccato nel forno giova molto per la tosse e catarro grosso perché è  calido (caldo per l’interpretazione del Marci) come la noce.

   Nel capitolo Della noce, mandorlo e olivo si precisa, a proposito del primo frutto citato, che la prima scorza verde ha virtù stringente e serve per tinta dello stesso colore del legno della noce, e il sugo di essa scorza bollito con un poco di miele guarisce l’infiammazioni della gola e bocca, gargarizzando con un liquore, l’acqua stillata delle noci immature raccolte in fine del mese di giugno, giova contro le febbri terzane, dalle noci secche si spreme olio per dipingere, e per altre meccaniche composizioni, e per ardere i garigli delle noci pesti entrano in diversi cibi.

   Molte le segnalazioni sulle virtù delle noci ma nulla che deponga a favore del torrone.

   Trattando delle mandorle il Manca Dell’Arca precisa che

   Son di buon gusto e di gran nutrimento fresche e secche, entrano in composizioni di moltissimi cibi, nelle salze per condire in luogo di latte ogni menestra, (…)

   Le mandorle dolci sono mollificative (emollienti per il commentatore) e purgano il corpo dalli umori grossi (…) il suo olio scioglie il corpo mirabilmente (…)

   Le mandorle amare mangiate avanti pasto, ammazzano i vermi (…), ammaccate (sminuzzate), e mischiate con aceto, applicandole alle tempie, sanano il dolor di testa: mischiate con vino, giovano alle corrosive piaghe, e mangiate a digiuno, guariscono i dolori di stomaco e intestini. Più farmacopea che gastronomia! 


    Il torrone nei sagrati delle chiese nell’Ottocento

   Alquanto scarne le notizie sul torrone nell’Ottocento. Segnalazioni degne di rilevo possono aversi dalla attenta lettura del Dizionario del Casalis, a cura del padre gesuita Vittorio Angius.

   Riferisce l’autorevole religioso alla voce Gallura che, nelle feste pastorali attorno ai sagrati delle chiese sotto all’ombra di qualche albero, o sotto una tenda, sono alcuni botteghini di liquori e dolcerie, e i padri e gli sposi, e gli innamorati, presentano a’ loro piccoli, e alle loro belle, ciò che stiman loro più desiderato e caro. Si vuotan le ampolline, e spariscono le grandi masse di torroni.

   Queste invece le segnalazioni sui torronari di Tempio nell’anno 1846: Chiamansi cposì i fabbricanti di torroni che sono una composizione di mandorle, o noci o nociuole, ammassate col miele e le uova.

   Del centro di Pattada, nell’articolo riservato al commercio si riporta: I pattadesi vendono gli articoli agrari a’ paesi vicini, i pastorali a’ negozianti di Sassari, di Ozieri, di Terranova, del Marghine, di Gallura, l’acquavite e i torroni a’ paesi già sopra notati ed altri.

   Alla voce Sassari, nel paragrafo Dolceria e caffè l’Angius riferisce: Generalmente nelle botteghe di caffè si vendono dolci di tutte le maniere, e dolci fini a somiglianza di quelli che si fanno a Genova. La pasticceria non è però così varia, come in altre parti. In Sassari e altrove sono molto lodati i biscottini delle monache di s.Elisabetta. Tra questi sono di maggior uso i torroni, de’ quali comprano tutti e fanno regali in certe feste, come per s.Nicola, il Natale, ecc. Ve n’ha gran delicatezza. E’ l’anno 1848.

   Ed ora vediamo quel che succede in Barbagia.

   Al paragrafo Arti si legge: Avvi (…) dei fabbricanti di torroni, che è un mandorlato sodo di pasta melata, di cui si fa grande spaccio nelle feste.

   Nel paragrafo riguardante il commercio si apprende che la produzione immessa nel mercato e di circa un migliaio di cantara (il cantaro corrisponde ad una quarantina di chili).

   Nel paragrafo Viandanti, o viaggianti, o cavallanti del citato articolo Barbagia, l’Angius fa espresso riferimento agli operatori della Barbagia Centrale (Mandrolisai e Barbagia di Belvì) con la seguente notazione: un’altra classe di mercantucci girovaghi, o vetturali, dei quali gran numero sortono principalmente dalla Barbagia Centrale per trasportare le nevi, il legname in tavole, o travicelli, e quello ancora che si è lavorato in arnesi e mobili. I cavalli sono il solo mezzo e maniera di vettura, che possa aversi nel presente stato delle strade.

   Alla voce Gavoi l’illustre storico, trattando delle feste principali di Sant’Antioco, San Giovanni, Sant’Antonio e della Vergine d’Itria, annota gran concorso da’ paesi limitrofi, e i mamoiadini vi preparano le loro batteguccie di confetti, liquori e torroni.

   Di espositori tonaresi nessun cenno.

   Vediamo quel che succede a Mamoiada. Nel paragrafo relativo alle professioni vengono segnalati quindici torronai mentre, in quello riguardante il commercio è detto che quelli che sono detti torronari lucrano da torroni, che sono un impasto di dolce che unisce mandorle, noci e nocciole, aprendo bottega nelle feste.

   Ulteriori notizie sul torrone le apprendiamo dai resoconti dell’Angius alla voce Sellori (l’odierna Sanluri). E’ l’anno 1838. I vari mestieri comprendono i vettureggiatori e negozianti che insieme forse non sono più di cento. Tra questi ultimi sono molti pizzicagnoli e torronari, cioè fabbricatori di torroni, che vendono nelle feste e portano anche a Cagliari.

   Da questo quadro d’insieme nulla che possa deporre a favore dei tonaresi della prima metà dell’Ottocento, d’altronde l’Angius, trattando dei loro affari, riferisce nell’anno 1846 quanto segue nel paragrafo dedicato al commercio: Abbiamo notato tutti gli articoli che i tonaresi mettono in commercio, castagne, noci ed altre frutta, tavole e travicelli, tessuti, prodotti pastorali, formaggi, capi vivi, pelli, cuoi e lame, miele e cera.

Da ciò appare molto improbabile che i tonaresi abbiano mai aperto bottega nelle sagre isolane prima della metà del secolo interessato alle nostre attenzioni. Alcune segnalazioni sull’attività lavorativa attorno al dolce tipico sono documentate nei registri consiliari e in quelli scolastici di fine Ottocento. Il meritorio salto di qualità e di quantità e documentato dalla presenza di numerosi operatori nell’ambito delle maggiori sagre isolane. Ma di ciò tratteremo più avanti.

   Una precisazione in versi del 189(?) di Peppino Mereu nella decima ottava della composizione A Tonara riferisce quanto segue:

   Pro turrones famada,
   de sa Sardign’in sas primas fieras
   faghet front’a Pattada.
   Cando moves a festas furisteras
   Andas accumpagnada
   Dae sas fentomadas caffetteras,
   chi totta nott’in pè
   dispensant a sos festantes su caffè.

   Ancora a fine secolo è Francesco Corona a segnalare nella sua Guida dell’Isola di Sardegna del 1896, che i torroni tonaresi rappresentano una vera specialità.

   Luigi de Villa, nel presentare le verdi e ospitali montagne in La Barbagia e i Barbaracini (sic), un lavoro edito dalla Tipografia Avvenire di Sardegna nel 1889, non manca di fare riferimento alle materie prime necessarie per la preparazione del torrone. Sono in discussione i noccioleti ed i noceti che insistono nella valle de S’Isca, la zona cuscinetto che definisce geograficamente i confini virtuali della Barbagia di Belvì e del Mandrolisai. I nocciuoli, avverte l’autore, sono una specialità di questo luogo, ma non vengono meno i noci che sono secolari e giganteschi. Meritevoli di menzione alcuni esemplari in grado di fruttificare sino a venti ettolitri di noci cadauno. Di una pianta colossale, riferisce che nella cavità del suo tronco, vuoto per vetustà, fosse in grado di ospitare, quando era ancora vivo e vegeto, ben dodici persone intorno ad un bel fuoco.

   Per quanto riguarda i prezzi medi praticati nel mercato di Cagliari, nel decennio che corre dal 1814 al 1824, potranno tornare utili i rilievi effettuati da William Henry Smith.

Le sue segnalazioni sono riportate nella Relazione sull’Isola di Sardegna, un lavoro edito dalla Casa editrice Ilisso, a cura di Manlio Brigaglia.

   Le nocciole, riferisce il capitano Smith, valido misuratore di coste e di distanze marine, costano sei soldi e sei denari ogni cinque libbre, le mandorle cinque soldi e sei denari e le noci quattro soldi ogni quattordici libbre.

   Nessuna testimonianza sul torrone ci perviene da altri autorevoli esponenti del mondo culturale dell’Ottocento quali il Del Marmora, lo Spano ed il Manno.

   Non priva di un certo interesse può rivelarsi la presentazione di un quadro pittorico eseguito dall’acquerellista Simone Manca di Sassari. Sarebbe interessante, data la rara testimonianza del soggetto rappresentato sulla tela, un torronaio vestito in costume che espone la sua bancarella sul sagrato di una chiesa di Sassari, uno studio più approfondito su certi particolari. La didascalia dell’autore e le interpretazioni degli esperti lasciano intendere che la merce esposta sia del torrone e che il venditore sia della Barbagia Centrale, forse un mamoiadino. Uno studio più accurato del tema proposto nel disegno non mancherà di favorire ed indirizzare al meglio le ricerche sulla letteratura del torrone in Sardegna. Un’ultima segnalazione per ricordare che il dipinto, realizzato nel periodo che corre dal 1869 al 1876, fa parte della collana di sedici acquerelli conservati presso la Biblioteca Reale di Torino.

   Ed ora due chicche da Guspini e San Gavino, due grossi centri della provincia di Cagliari, a merito del ricercatore Francesco Marras, assessore alle attività produttive del primo comune citato.

   La prima fa riferimento ad alcuni verbali di contravvenzione elevati a carico di tre ambulanti di torrone della prima località, (Giacomo Muru, Raimondo Racis ed Antioco Atzori), colpevoli di non aver presentato i pesi, misure e stromenti da pesare alla verificazione. Le ingiunzioni, ai sensi della legge del 26 marzo 1850 ed in conformità dell’Editto dell’11 settembre del 1845, furono recapitate agli interessati nel mese di aprile del 1852.

   La seconda rimanda ad una lettera vergata in spagnolo ed indirizzata dalle autorità cagliaritane Al Sindico, y Consejeros de San Gavino in data 12 dicembre 1791 per significare che nessuna innovazione doveva essere apportata, rispetto al passato, sui diritti da richiedere a los arizeses que llevan para vender nuezes, avellanas, y castañas en la feria de Santa Lussia. Apprendiamo quindi che gli articoli trattati alla fine del Settecento dai cavallanti aritzesi erano rappresentati, nel mercato di Santa Lucia, unicamente da noci, nocciole e castagne.


Viandanti, cavallanti, carrettieri e torronai di fine Ottocento a Tonara

   Dei cento operatori economici definiti da una nostra indagine, condotta sui registri scolastici dell’anno 1887, dieci risultano viandanti ed uno solo carrettiere.

   Tra i primi sono segnalati Giovanni Asoni con domicilio in via Barisone 142, Giuseppe Cappeddu (via Mannu 62), Giuseppe Demurtas (via Murù 27), Francesco Orrù (via Eleonora 65), Giovanni Pala (via Mannu 52), Giuseppe Patta (via Eleonora 80), Antonio Sau (via Eleonora 59), Giovanni Todde (via Mannu 7) Antonio Zucca (via Baille 3) ed ancora Antonio Zucca, un caso di omonimia con la figura appena citata.

   Tra i secondi Giuseppe Sau, con domicilio al numero 3 di via Santa Chiara, certamente uno dei primi carrettieri tonaresi.

   L’apertura della prima strada carrozzabile data dagli ultimi decenni del secolo in questione.

   La presenza dei torronai è segnalata annualmente nei ricorrenti censimenti rilasciati alla Autorità scolastica dal segretario comunale Raffaello Pulix. Si tratta dei fanciulli che per aver compiuto l’età di sei anni sono obbligati alla Scuola a norma della legge 15 luglio 1877.

   Dei centocinquantuno studenti obbligati alla frequenza della Scuola elementare inferiore del Comune di Tonara, per l’anno 1894/95, tre risultano figli di torroni, sette di viandanti e due di cavallanti.

   Nell’estratto, che risulta datato 28 febbraio 1895, i qualificati rivenditori del tipico dolce sono Antonio Zucca, genitore di Giovanni Sebastiano Zucca Asoni, Antonio Zucca, genitore di Antonio Zucca Garau e Giomaria Patta mentre i viandanti rispondono ai nomi di Giuseppe Sau, Raffaele Floris, Sebastiano Gessa, Francesco Loche, Sebastiano Todde, Sebastiano Dessì e Giuseppe Carta, genitore quest’ultimo di Antonio Silvestro Carta Sulis.

   Le figure dei cavallanti sono riconosciute agli operatori ad Antonio Giuseppe Cabras ed a Francesco Mura.

   Della vita di sofferenze sopportate da questi operatori economici di fine secolo è testimone Peppino Mereu con la presentazione del seguente sonetto:

     S’ambulante tonaresu
   Cun d’unu cadditteddu feu e lanzu
   sa vida tua a istentu la trazzas;

   da una idda a s’atera viazzas,
   faghes Pasca e Nadale in logu istranzu.
   A caldu e frittu girende t’iscazzas

   pro chimbe o sese iscudos de alanzu,
  dae s’incassu de sett’otto sonazas
   chi malamente pagant unu pranzu.
 
   Sempre ramingu senza tenner pasu,
   dae una idda a s’atera t’ifferis
   aboghinende inue tottu colas:
 
   “Discos noos pro faghere su casu
   e chie leada truddas e tazzeris
   e palias de forru e de argiolas”


   Notizie sul torrone nel Novecento

   Lo scrittore inglese J.E.Crawford Flitch, così ci presenta, nel lavoro Sardegna 1911. Sensazioni di un viaggio, curato da Lucio Artizzu per i tipi della Edizioni della Torre, il rinomato dolce tonarese nello scenario dell’anfiteatro naturale di San Costantino a Sedilo, nel primo quarto del secolo: Fra l’ingresso ad arco e la salita della chiesa si erano formati dei sentieri delimitati dalle baracche: Qui si potevano comprare stoffa, scarpe, stringhe, campanacci, corpetti di pelle, borracce, vino arance, torrone caffettiere di latta, carne, coltelli, falci; tutte quelle cose, insomma, delle quali il contadino sardo ha sempre sentito parlare o che ha sempre sognato di possedere. Vi si trovano le succose arance e la squisita vernaccia di Oristano, il pesce affumicato di Bosa, grosse pile di torrone che si scioglievano al sole…

   Più avanti, nei suoi appunti di viaggio, non manca di riprendere il discorso con le cataste di gustosi torroni quando riferisce che nelle zone interne della Barbagia Centrale si possono raggiungere i deliziosi villaggi di montagna di Desulo, rinomato per il costume primitivo dei suoi abitanti, e Tonara, dove si confezionano i torroni, divisa in quattro borgatelle dai nomi che sanno di arabo Arabulè (sic!), Ilalà, Toneri e Teliseri.

   Da una istanza presentata dal Comune di Tonara nel 1915 al Ministero dei lavori pubblici, per ottenere l’avvicinamento del centro montano in oggetto alla costruenda linea ferroviaria Sorgono-Fonni, si evidenzia, attraverso le segnalazioni del segretario comunale Giuseppe Assoro, che Grande esportazione, in tutta la Sardegna, si fa di legname da costruzione, carbone, legname per strumenti agricoli, castagne, nocciole, noci, patate, torroni. Buona parte di questa esportazione si riversa nella prossima provincia sassarese, ma con un accentuato dispendio mediante i soli veicoli a buoi e a cavalli, e purtroppo, ancora con le bestie da soma.

   Da una breve sosta a Tonara dello scrittore inglese D.H.Lawrence, in una mattinata d’inverno del 1921, nasce l’opportunità per i tonaresi, seguendo la descrizione della processione in onore ai festeggiamenti di sant’Antonio, di ritrovarsi tra le mani un saggio di classe eccelsa. I commenti della celebre penna d’oltre Manica sono raccolti nel lavoro Mare e Sardegna alias Sea and Sardinia.

   Otto anni più tardi, sempre d’inverno e di gennaio, si presenta sugli scenari tonareso Douglas Goldring. Targato Greenwich, meridiano zero, soggiogato dalle magistrali pennellate del connazionale Lawrence, si propone di inseguire colori, panorami e contatti umani ricalcanti la parte essenziale del rituale dell’ospitalità sarda, servendosi di un corposo carico di sostantivi, aggettivi e forme verbali molto accattivanti. Il colore scarlatto del costume delle donne tonaresi inginocchiate sui pavimenti di nuda pietra ed alcuni riferimenti in positivo indirizzati ad alcuni personaggi del tempo, quali ad esempio il maestro Pistis nelle vesti di gerarca fascista, sono evidenziati in maniera particolare in alcuni passaggi dei temi trattati dall’autore. Non mancano le segnalazioni sulla ghiottoneria locale: Tonara è famosa in tutta la Sardegna per un dolce chiamato torrone. E’ quanto apprendiamo dalla traduzione operata da Lucio Artizzu dell’opera edita nel 1930 dal titolo Sardinia, the island of the Nuraghi e riproposta dalla Casa Edizioni della Torre nell’anno 2000. Onore al merito degli scrittori inglesi.

   Sono del 1932 gli appunti raccolti da Raimondo Bonu sull’attività dei torronai nel lavoro Ricerche su due paesi della Sardegna (Gadoni e Tonara) per i tipi della Casa Editoriale Cantagalli, Siena, 1936. I due autocarri del paese e i trentacinque carrettieri esportano legname, castagne, torroni di miele e di glucosio, cubeddas (bottiglie e barilotti di castagno) e cera lavorata.

   Grazie ad una intervista concessaci dal signor Giovanni Antioco Carta nel 1963, siamo riusciti a capire e carpire molti segreti dell’attività occupazionale e manageriale sul torrone tonarese agli inizi del secolo.

   E’ nel primo decennio che sorge il primo laboratorio artigianale. Tutte le varie fasi di lavorazione si svolgevano, riferisce il Carta, in un locale ubicato al piano terreno della casa paterna dove quattro donne provvedevano alle attente cure di due caldaie alimentate dalla lenta combustione dell’agrifoglio.

   L’attività aziendale aveva inizio a metà marzo e terminava verso metà settembre con una produzione stimabile in un centinaio di quintali, pari al cinquanta per cento dell’intera produzione tonarese. Il prodotto finito doveva servire a soddisfare nel tempo le richieste di una ventina di ambulanti, le cui commesse medie si aggiravano sulle due o tre posture (una postura equivale a 16 chili di torrone) per committente e con un prezzo franco fabbrica variante da 1,25 a lire 1,50 per chilogrammo. Al consumatore venivano praticati gli importi di due lire e cinquanta centesimi e di lire due rispettivamente per le confezioni a base di frutta secca tostata o meno.

   Nella vendita operata sui sagrati delle chiese, il prezzo, per far fronte alle leggi imposte dalla concorrenza, poteva subire delle notevoli oscillazioni tanto da rasentare il costo di produzione. In tali casi, per far fronte ai mancati guadagni, si ricorreva alle piccoli frodi sul peso. Questi correttivi di compensazione sono andati in vigore sino agli inizi degli anni quaranta.

   Alla riapertura dei mercati seguita dalla parentesi bellica del 1915/18, Giuseppe Carta ripiega nel commercio delle materie prime occorrenti alla lavorazione mentre quanti si erano serviti delle sue prestazioni si attrezzano con propri laboratori.

   Verso gli anni venti la produzione del torrone si aggirava intorno ai 500 quintali annui.

   Risale al 1963 la nascita del secondo laboratorio industriale tonarese. Nel rione di Toneri, Salvatore Pruneddu impianta in idonei locali tre modernissime caldaie per la centrifugazione del miele e diversi tostatori elettrici. In detto periodo la produzione è da ritenersi più che raddoppiata rispetto a quella espressa negli anni Venti.

   Oggi, all’inizio del terzo millennio, sembra che la carta giocata dal Pruneddu negli anni sessanta sia ancora vincente specie se si considera che il nuovo opificio ubicato nel rione di Su Pranu insiste su una superficie coperta di 2400 metri quadri e con una produzione di circa 2.200 quintali anni, pari ai tre quarti dell’intero fatturato tonarese. Gli impianti fanno riferimento a tredici caldaie, tre tostatori e due celle frigorifere alle cui cure attendono con la loro mano d’opera diretta quattordici operai e con quella indiretta e del settore impiegatizio altri quattro rappresentanti.

   Dell’intera produzione tonarese un buon 90% per cento è consumato in Sardegna, mentre il restante 10% è destinato ai mercati extra isolani. Se si volesse rappresentare, secondo una linea diritta, tutto il prodotto finito tonarese in confezioni da 25 centimetri del peso di 200 grammi cadauna, si potrebbe coprire la distanza che intercorre tra il centro di Tonara e le quattro province sarde. E non è poco!

   Abbiamo provato a chiedere a Salvatore Pruneddu a che cosa si debba la formula di tanto successo manageriale ed egli ci ha risposto candidamente che la buona riuscita trova riscontro soprattutto nella bontà degli ingredienti utilizzati nella lavorazione. E’ cosa certa comunque, pensiamo noi, che a regolare i buoni risultati del trend del torrone nel tempo siano ben altri fattori quali i tempi di cottura e di attesa, il giusto dosaggio degli ingredienti, la valida presentazione del prodotto finito e molto savoir faire con la clientela. Non si spiegherebbe altrimenti come, a parità di materie prime impiegate nelle varie fasi della lavorazione, le ricette curate da Tizio siano ben diverse da quelle presentate da qualsiasi altro operatore.

   Non possiamo dimenticare inoltre gli assaggi dei torroni confezionati da Giovanni Cadeddu per la sua clientela dagli anni Quaranta in poi. L’artigiano in questione, un patriarca di provate capacità nel settore delle piccole produzioni, è sempre pronto a sorriderti furbescamente, durante le sue quotidiane passeggiate nel suo rione di Toneri, specie quando si fa qualche timido cenno alla storiografia della dolcificazione locale. Egli sa di essere stato al riguardo, in costanza di operatività, una importante pedina dell’ormai andato ventesimo secolo.

   Passiamo ora ad esaminare la situazione nel resto della Sardegna servendoci delle valide testimonianze di Michele Maxia, un decano dei torronai del comune di Aritzo, e di altre brevi interviste condotte ad Oristano presso i rivenditori presenti all’ultima edizione della Sartiglia.

   La graduatoria dei centri isolani, in quanto a produzione, secondo il Maxia, vede al primo posto Tonara, quindi Aritzo, Sassari, Guspini, Desulo, Quartu, Oristano, Terralba, Villasor, Elmas, Pattada, Olbia e Santa Teresa di Gallura. Piccole quantità vengono prodotte anche in altri centri.

   Degli espositori presenti alla Sartiglia 1999 cinque sono oristanesi, tre tonaresi, due aritzesi, un desulese, un masullese, un cabrarese e quattro cagliaritani. Degli oristanesi uno è domiciliato nella frazione di San Quirico mentre gli altri quattro fanno parte di un nucleo ben agguerrito di famiglie imparentate tra di loro, con capostipite la signora Luigina Pinna in attività dal 1954. I punti utilizzati per la vendita sono piazza Roma con dieci espositori, piazza Mannu con quattro, piazza Mariano con due e Portixedda con uno. Giova segnalare che tutti gli espositori, eccezione fatta per gli aritzesi e i desulesi che sono produttori, pubblicizzano la vendita con la segnalazione del luogo di produzione con la dicitura Torrone di Tonara. Spesso viene reclamizzato anche il nome del produttore.


    I carrettieri tonaresi del Novecento

   Riprendiamo il discorso dei carrettieri tonaresi con la segnalazione di quanti, con figli in erta scolare nel primo quarantennio del Novecento hanno onorato lo scenario fieristico sardo.

   I risultati delle nostre indagini, che fanno riferimento alle annate scolastiche 1902- 1912-1921-1925-1930 e 1940, hanno prodotto questo elenco di nominativi: Abis, Asoni, Banni, Cabras, Calledda, Cappeddu, Carboni, Carrucciu, Carta, Delrio, Demurtas, Desotgiu, Dessì, Devigus, Figus, Floris, Garau, Loche, Mameli, Manca, Meloni, Mura, Murgia, Pala, Patta, Peddes, Pili, Pistis, Porru, Pruneddu, Sau, Soriga, Sulis, Todde e Zucca.

   Dei novantotto operatori economici rilevati da un sondaggio esteso alle sole frazioni di Toneri e Teliseri, relativamente agli 1929,1930 e 1931, ben quattordici sono carrettieri. La percentuale di questi ultimi rispetto al totale delle rilevazioni è del 14,2 per cento. Le famiglie rappresentate sono quelle dei Cappeddu, Carta, ancora Carta, Demurtas, Garau, Loche, Meloni, Murgia, Patta, Peddes, Pili, ancora Pili, Pruneddu e Zucca.

   Da una nota dei registri comunali del 1922, si rileva che, per ogni carro o carrettone parcheggiato sulla pubblica via, l’occupazione del suolo pubblico comporta una tassa annua di lire 12.

   Nel 1931, stando ai dati offerti dai registri matricola di tassa sul bestiame, si ha un riscontro di 39 carrettieri e di 6 cavallanti, nel 1940 la segnalazione è di 28 carrettieri, nel 1950 si registrano 26 carrettieri ed un cavallante mentre nel 1955 i primi sono nel numero di tre ed i secondi costituiscono due sole unità.

   Il commercio tonarese, che in passato aveva fatto ricorso alle figure dei viandanti o cavallanti e a quelle dei carrettieri, si avvale oggi dell’apporto di nuovi operatori chiamati ambulanti i quali, sempre più numerosi, facendo affidamento sulla velocità dei mezzi di trasporto e dei potentissimi mezzi offerti dalla tecnologia, cercano di accaparrarsi le più ampie fette del mercato fieristico isolano. La pubblicità viaggia attraverso l’etere con siti che si moltiplicano quotidianamente. Il torrone è sempre l’oggetto del contendere. Le due più grosse aziende tonaresi, Pruneddu e Pili, con diverse decine di dipendenti, con immobilizzazioni tecniche di tutto rispetto e con un know how altamente elevato, producono e smerciano annualmente un quantitativo di circa tremila quintali di torrone. Il consumo è riservato alle clientele sarde, nazionali ed estere.


    I festeggiamenti sul sagrato della chiesa di Sant’Antonio a Tonara

   Per il 20 di giugno, ottavo giorno dei festeggiamenti in onore a Sant’Antonio, a Tonara è festa grande: sa festa de is carrettoneris.

   Nell’Ottocento, secondo la descrizione dell’Angius, la festa dura due giorni, e la piazza della chiesa prende l’aspetto di un mercato con grande partecipazione di forestieri.

   Nel Novecento, al paragrafo Feste religiose e carattere degli abitanti del suo lavoro su Tonara, Raimondo Bonu riferisce che  festeggiano anche l’ottava di S. Antonio, il 20 giugno.

   Testimonia Giovanni Antioco Carta, nell’intervista concessami nel 1963, che, nel primo quarto del secolo scorso, era numerosa, sul sagrato della chiesa del santo patavino, la presenza di rivenditori di articoli in rame, ferro, ferro smalto, pelle e cuoio. Una decina le carrette allineate nel piazzale di cui cinque o sei per gli oggetti appena citati e le restanti per la frutta e la carne fresca.

   Nelle riunioni consiliari di fine Ottocento erano frequenti le dispute sulla imposizione del dazio a carico dei negozianti di vino di altri centri, i quali, durante il periodo fieristico, smerciavano il loro prodotto, a danno degli esercenti locali.

   Ancora oggi a Tonara, nonostante i vecchi mezzi di trasporto siano andati in pensione da tempo, gli ambulanti del paese si riuniscono per il giorno dell’ottava per commemorare i fasti della tradizione de is carrettoneris con festeggiamenti religiosi e civili di tutto rispetto. Si hanno dei particolari toccanti con la benedizione dei mezzi di trasporto e con la stupenda processione in costume operata da numerosi fedeli. A chiusura di programma una breve parentesi di alto significato ben augurante è offerta dai fuochi artificiali.

   Trascrivo dal registro del comitato ai festeggiamenti dell’ottava dell’anno 1992 l’elenco degli aderenti all’associazione:

   Mario e Peppino Asoni, Pietro Arangino, Giuseppe Basoni, Gesuino Cadeddu, Peppino Demelas, Adriano, Carmelo e Salvatore Demurtas, Franco e Giovanni Floris, Gianni Garau, Gabriele Loche, Diego Manca, Sebastiano Noli, Bachisio e Gianni Patta, Costante, Gabriele e Gesuino Peddes, Gianni Pili, Settimo Piras, Sebastiano Podda (nelle vesti di presidente del comitato), Giovanni e Ignazio Poddie, Bruno Porru, Antonello, Emanuele, Fabrizio, Franco, Pietro e Salvatore Pruneddu, Lino Sau, Francesco Todde e Pietrino Todde, Gesuino Tore e Peppino Zucca.


    Le origini del torrone

   Dal vocabolario dello Zanichelli apprendiamo che la voce torrone deriva da torrere (tostare) e che turron è un termine spagnolo alquanto discusso dal punto di vista dell’etimologia.

   Digitando in Internet detto lemma, si può arrivare in pochi passaggi  nella cittadina di Alicante in Spagna. Nel sito http://www.jijona.com si segnala che Segun los datos y leyendas existentes, el turron es de procedencia arabe, y se conservan datos historicos, que en el siglo XVI en la ciudad de Sexona, mas tarde Xixona y posteriormente Jijona, ya se fabricaban los tradicionales turrones. Sempre nello stesso sito, in appendice, tornerà utile per il ricercatore approfondire le conoscenze sui testi indicati dalla bibliografia sobre el turron de Jijona y de Alicante.

   Quindi il torrone, che è, secondo le tesi degli studiosi, di derivazione araba, veniva confezionato in Spagna già nel sedicesimo secolo.

   In Italia, nella città di Cremona, alcuni rivenditori dell’oggi lasciano intendere, forse perché ci credono veramente, che il torrone abbia avuto le sue origini in detta città specie quando, nello spazio riservato alla pubblicità del prodotto, riferiscono testualmente che il rinomato dolce fu presentato nel lontano 1441 durante il banchetto nuziale di Bianca Maria Visconti e Francesco Sforza, in forma della alta torre della città. Da allora venne chiamato torrone.

   La Cassa padana, l’istituto bancario che sponsorizza le manifestazioni sulla festa del torrone e della sua rievocazione medievale, precisa nel sito http://www.Cassa Padana.it che l’evento storico è datato 25 ottobre 1441. A quel giorno si fa risalire la nascita del Torrone, il tradizionale dolce cremonese che sarebbe stato approntato per la prima volta in forma di torre (a rappresentare il Torrazzo, ovvero la torre campanaria del Duomo di Cremona) in occasione del banchetto nuziale.

   Per i produttori beneventani il progenitore del torrone è la cupedia, un dolce apprezzato già dagli antichi Romani. Per Marziale, nel I° secolo, è uno dei cinque prodotti che rappresentano Beneventum, la città delle cinque C: Carduus et cepae, cerebrata, cupedia, chordae ovvero cardone e cipolle, cervellate, copeta, corde. E’ quanto viene segnalato nel sito http://medivia.sele.it .

   Per alcuni produttori avellinesi, raggiungibili al sito http://www pantorrone.it, la sua origine è avvolta nel mistero tuttavia la tradizione vuole che sia stato tramandato dagli antichi Romani che già ne apprezzavano il suo sapore. Nel 116-26 a.C. circa, con il nome cuppedo, Marco Terenzio Marrone il Reatino definiva così una ghiottoneria del suo tempo.

   Dalla Sicilia alcuni produttori nisseni, così vengono chiamati gli abitanti di Caltanisetta, precisano nel sito http://www Infoservizi.it, che nella loro città c’è una tradizione antica ma sempre viva che da qualche anno sta avendo un nuovo incremento. Si tratta della lavorazione del torrone, dolce tipicamente nisseno che affonda le sue radici nel nono secolo dopo Cristo, epoca in cui la Sicilia era sotto la dominazione araba.

   Le origini del torrone rappresentano quindi un bel rompicapo per gli studiosi. Più miele amaro che dulcis in fundo.

   Forse siamo nel giusto della nostra ricerca quando seguiamo le attenzioni dei ricercatori spagnoli. Un valido approccio alle loro tesi è suffragato anche dalle antiche testimonianze che legano la cittadina tonarese a quella iberica di Alicante.

   Le assistenti alla lavorazione del torrone, a detta di Giovanni Carboni, noto Carbonini, erano solite, nell’accudire alle loro fatiche attorno al grande mestolo (sa moriga), dar sfogo, col canto, al seguente ritornello

   E mi dos fatzo is turrones
   is turrones de Alicante.

   Del motivo canoro, quasi un passatempo adatto a rompere la monotonia dei passi di lavorazione, abbiamo riportato solo due versi.   

Pensiamo che questa sia la strada vera da percorrere se si vogliono aggiungere ulteriori tasselli alla scarna letteratura sul torrone in Sardegna. Valido giovamento per perorare una giusta causa commerciale, culturale e pubblicitaria potrebbe essere offerto dal gemellaggio del Comune di Tonara con la cittadina di Alicante. Ma il millennio appena iniziato non mancherà di sollecitare detto importante appuntamento.

   Il presente articolo è stato pubblicato sul periodico La Gazzetta Sarda del 2 marzo 2001: Turrones e turronargios in Tonara e ateru logu (Servizio del 9 aprile 2006)


   Approfondimenti sulle origini del torrone in Sardegna

   I produttori di torrone della Barbagia hanno da sempre ritenuto che la ricetta del rinomato dolce fosse di derivazione spagnola. I primi due versi di un motivetto cantato attorno a sa moriga, lo strumento che, all’interno della caldaia, favorisce, cadenza e plasma tutti i passaggi di cottura del miele e dell’albume dell’uovo, alludono alla leccornia di Alicante, cittadina iberica sul Mediterraneo. Il richiamo ad Alcant, il nome con cui venne denominata dagli arabi quando la conquistarono nel 710, é abbastanza eloquente. Fonti storiche riferiscono che el turron es de procedencia arabe e che nel secolo sedicesimo nella città di Sexona, più tardi Jijona ya se fabricaban los tradicionales turrones. E’ copiosa al riguardo la bibliografia sobre el turron de Jijona y de Alicante.

   Per i cremonesi, che fanno derivare il nome del torrone dalla torre campanaria del Duomo chiamata il Torrazzo, le origini dolciarie si fanno risalire al 25 ottobre del 1441, giorno del banchetto nuziale tra Bianca Maria Visconti e Francesco Sforza.

   Per alcuni produttori avellinesi la tradizione vuole che sia stata tramandata dagli antichi romani. Nel periodo che corre dal 116 al 26 a.C. circa, con il nome di cuppedo, Marco Terenzio Varrone il Reatino, definiva così una ghiottoneria del suo tempo.

   Dalla Sicilia alcuni produttori nisseni, così vengono chiamati gli abitanti di Caltanissetta, precisano che le loro tradizioni affondano le radici nel nono secolo dopo Cristo, epoca in cui l’isola era sotto la denominazione araba.

   Solamente noi sardi, che in uguale modo abbiamo sofferto per le continue scorrerie dei saraceni dal settimo secolo sino all’anno Mille, siamo privi di tradizioni e purtroppo dobbiamo fare affidamento al motivetto cantato a Tonara sino alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso:

E mi dos fatzo is turrones / is turrones de Alicante

   Ogni sforzo teso a recuperare brandelli di verità intorno a questo legame sardo ispanico, durato ben quattro secoli, si è rivelato infruttuoso ed improduttivo: più miele amaro che dulcis in fundo.

   Per quanto concerne la confezione, lo smercio e la bontà del prodotto nella prima metà dell’Ottocento abbiamo notizie interessanti dal dizionario del Casalis a merito di padre Vittorio Angius. Sono citati i centri di Tempio, Pattada, Sassari, Mamoiada e Sanluri. A Tonara, purtroppo, gli articoli trattati riguardano solamente castagne, noci ed altre frutta, tavole e travicelli, tessuti, prodotti pastorali, formaggi, capi vivi, pelli, cuoi, lame, miele e cera. Nella corrispondenza tenuta dal tonarese Antonio Tore, di stanza ad Ales in qualità di vescovo e posteriormente a Cagliari nelle vesti di arcivescovo, si fa riferimento alle solite regalie di frutta secca e formaggi da parte dei suoi familiari oppure di pardulas da Meana o scandalaus e guevus (sic) da Oristano da parte di conoscenti.

   Per quanto riguarda la seconda metà dell’Ottocento si ha una prima segnalazione del torrone a Guspini nell’anno 1852. Gli archivi del comune riportano la documentazione di alcune contravvenzioni elevate a danni dei venditori ambulanti Giacomo Muru, Raimondo Racis e Antioco Atzori colpevoli di non aver provveduto alla verifica legale dei loro strumenti di misura.

   Dopo i napoletani, riferisce Antonio Ballero in un suo servizio da Nuoro sulla fiera di San Mauro del 1891 nel periodico n.17 di Vita Sarda, due lunghe righe di donne di Tonara, rivenditrici di turrones (mandorlato fatto col miele) – povere vittime, in tutte le feste della Sardegna degli scherzi osceni degli ubbriachi, condannate a stare giorno e notte sempre sul chi vive, accanto al loro tavolino sciancato, senza prendere un’ora di sonno, un minuto di riposo, pallide, sparute, bruciacchiate dal sole.

   Nell’articolo titolato Gonare, n.20 del 1892 di Vita Sarda, Grazia Deledda racconta che le espositrici tonaresi fiere nel loro costume stravagante, orribilmente stretto alle anche, pallide e mute, segavano con coltelli affilati i torroni, fatti dalle loro stesse mani, o misuravano le nocciuole colte nei loro boschi inesplorati. Sono le prime documentazioni sulla storiografia del dolce tonarese.

    Ma torniamo ai secoli addietro. Uno dei motivi principali che inducono gli studiosi a fermarsi nella corsa a ritroso nel tempo, per inseguire qualsiasi pista che possa fornire notizie preziose sul prodotto in questione, si deve al fatto che le citazioni su alcuni ingredienti interessati alla confezione non riconoscono ad essi, specie nel settecento, il giusto apprezzamento dei secoli successivi. Secondo la descrizione di Andrea Manca Dell’Arca presentata in Agricoltura in Sardegna, un lavoro del 1749 edito nel 1780, risulta infatti che il miele, è maggiormente utilizzato in campo farmaceutico piuttosto che in quello gastronomico. Null’altro che un purgante, una lozione per capelli o un additivo per condimenti.

   Da una documentazione del Comune di Guspini si rileva inoltre che gli aritzesi nel 1791, in occasione della fiera di santa Lucia, non vendevano altro che nuezes, avellanas, y castañas. Peccato, un vero peccato!

   Intanto dall’archivio di Stato di Cagliari arriva una buona notizia. Qualcuno ha trovato documentazioni interessanti sul torrone. Nulla a che fare con le licanias di Alicante. Il merito è tutto da ascrivere al ricercatore dilettante Vincenzo Spiga di Quartu il quale ha rintracciato un eccezionale documento storico, lo ha decodificato, ne ha fatto la traduzione dal catalano e ci ha consegnato il tutto. Dalle nostre verifiche risulta che il dolce confezionato a Cagliari nel sobborgo di Villanova, è di due qualità: bianco e nero. Per ogni cottura del primo tipo, Pietro Sanna, un operaio sassarese, percepirà sette soldi mentre per ognuna del secondo tipo appena cinque. Ricordiamo intanto che la lira sarda è divisibile in quattro reali, ogni reale in cinque soldi ed un soldo in dodici denari. Il datore di lavoro, Battista Sollai, farmacista della citata borgata, oltre alla paga pattuita gli favorirà anche il vitto. Per l’alloggio sarà il prestatore d’opera ad occuparsene. La data del contratto è quella del 7 dicembre 1614 ma i lavori delle cujtures de torrons blanchs j negres inizieranno il giorno 9 ed avranno termine alla vigilia di Natale. Nel documento, redatto dal notaio Giovanni Tocco, è precisato che si lavorerà solamente nei giorni feriali. Tra i testi è segnalato Francesco Boi, un corredor publich ossia un funzionario addetto alle aste pubbliche.

   Osservando meglio la Cagliari di qualche tempo prima, attraverso la planimetria del Münster che è del 1550, sembra che la disposizione delle varie borgate di cui la città è costituita, assuma l’aspetto di un piccione accovacciato che guarda verso il mare. In particolare il corpo indica l’agglomerato di Castello, il capo Lapola, l’ala destra Stampace e quella sinistra Villanova.

   Nella borgata superiore si trovano le grandi torri, i severi propugnacoli, l’episcopio, il palazzo regio, i magazzini di grano, le cinque fontane alimentate dai profondissimi pozzi noria, i mercati del formaggio e della carne, le classi dominanti, le piccole rappresentanze di giudei, gli schiavi con le catene ai piedi, tante guardie spagnole, le carceri ed i possenti portali che a una certa ora sprangano l’accesso a chiunque.

   Il sobborgo di Lapola si contraddistingue per la presenza dell’ospedale, per l’insolito operare degli operatori portuali ma anche per il lugubre quadro offerto dal patibolo eretto nei pressi dell’odierna piazza Costituzione.

   La borgata di Stampace è caratterizzata da una grande piazza e dal convento di Santa Chiara mentre nell’appendice cittadina di Villanova la chiesa di San Giacomo, il tempio di San Giovanni, il monastero di San Domenico, la porta Cabanias e una copiosa fontana fanno quadrato alla folta schiera di botteghe di piccoli commercianti.

   La planimetria del Münster, fredda e asettica nelle sue informazioni storiche di quasi cinquecento anni fa sembra oggi suggerirci una lettura diversa, quella di un colombo viaggiatore che si prepara per un volo liberatorio verso il Golfo degli Angeli per comunicare a tutti i popoli del Mediterraneo, seppure con molto ritardo, che il torrone, di derivazione araba, veniva confezionato anche in Sardegna, esattamente a Cagliari, in quel di Villanova, già dagli inizi del diciassettesimo secolo.

   Il presente servizio è stato pubblicato in data 9 aprile 2006 nel n°14 del settimanale arborense Vita Nostra