Memorie tonaresi in pratza manna

sabato 8 febbraio 2025

Gita a Cagliari

  

Gita a Cagliari

Visita ai suoi antichi quartieri

 

Sabato 25 gennaio è la data stabilita dall’Associazione 50 & Più di Oristano per una gita alla volta di Cagliari. Per il gruppo di cui faccio parte, una cinquantina di iscritti in tutto, la partenza ed il rientro ad Oristano, sono fissati per le ore nove del mattino e le diciannove della sera.

Da bordo pullman, lungo il tragitto in superstrada, non c’è altro che da ammirare quanto la natura, rappresentata da un paesaggio pianeggiante spesso incolto, ed in lontananza, incorniciato da montagne mute e severe, offre. Nei pressi di Marrubiu, una pala eolica di notevoli dimensioni, sembra invitare i passeggeri a perorare le giuste cause sulla sua esistenza.

E’ già Cagliari quando gli appelli griffati della pubblicità profusa dai numerosi esercizi di periferia cominciano a venirti incontro con frequenza ed insistenza sino a pochi metri dalla sede stradale.

Superati i quartieri storici di Sant’Avendrace e Stampace ci troviamo sulla via Roma, di fronte al porto, per poi proseguire nei viali Colombo e Regina Margherita. Giunti all’altezza dei Giardini pubblici ci viene porto l’invito a scendere per dare inizio alle visite previste dal programma. Dai più anziani, nell’affrontare la rampa che nello spazio di un centinaio di metri conduce a Porta San Pancrazio e quindi a Piazza Arsenale, sono da segnalare alcune difficoltà.

Siamo ormai in Castello, il quartiere più in alto di Cagliari. D’ora in avanti e per l’intera giornata non incontreremo altre salite.

Nessuna coda di visitatori al Museo archeologico. Forse siamo i primi avventori della giornata. Nel periodo invernale le visite sono sempre ridotte al minimo ma d’estate sp superano le settecento unità giornaliere.

L’edificio, un moderno stabile suddiviso in quattro piani, è ancorato a nord alla antica fortificazione del rione. Salendo in ascensore si possono notare lungo alcuni dislivelli rocciosi le feritoie sulle quali i tiratori scelti armeggiavano con archi e archibugi.

Il tempo per inseguire la storia dei reperti in esposizione non è mai sufficiente, per la carenza di una opportuna guida museale, a colmare ed appagare  la curiosità dei visitatori. In cambio devi far ricorso, una volta a casa, all’utilizzo dei depliant dati in omaggio o in mancanza di questi ai virtuosismi, talvolta impropri, dell’intelligenza artificiale. Questo vale soprattutto per la migliore lettura dei dipinti cinquecenteschi con olio su tavole del Cavaro, Mainas ed altri autori sardi. Le illustrazioni di quanto è esposto in vetrina sono abbastanza chiare. Questo vale anche per la eccelsa collezione di 23 pezzi anatomici modellati in cera dal Susini. In quest’ultimo caso si tratta di un lavoro a cui hanno partecipato tre illustri personaggi: Il Vicerè Carlo Felice, in qualità di committente, l’artista fiorentino Clemente Susini, nelle vesti di commissionario, e l’anatomista sardo Francesco Antonio Boi, assistente ai lavori. I vari organi di senso e quelli relativi ai nostri apparati e sistemi corporei pongono in evidenza la multiforme sfaccettatura del nostro organismo. Lo stupore del visitatore è dato dalla cera, un materiale che si presta a simulare efficacemente la disposizione de i vasi sanguigni, delle masse muscolari e dei tessuti epidermici. Si tratta di un’opera fra le uniche  al mondo. Onore al merito al finanziatore, all’artista e all’accademico. Il tutto, ben custodito in teche sottovetro, è supportato dalla attenta e continua presenza dei commessi i quali non mancano mai di invitarti a non fotografare i reperti. All’ora del pranzo, fissata per le tredici e trenta, non vorrei avere delle difficoltà a mandare giù qualche boccone. Sembrano ancora inseguirmi le espressioni cadaveriche di quei modelli anatomici ottocenteschi.

Dimenticavo di segnalare che ogni vetrina del museo fa ricorso all’uso della lingua italiana e di quella inglese. In una epigrafe posta all’esterno dello stabile il riferimento linguistico si rifà all’italiano ed al sardo, quest’ultimo in dialetto campidanese. E’ l’omaggio per eccellenza dovuto al Professor Lilliu, studioso al quale è dedicato il Museo archeologico di Cagliari.

Appena fuori dal Museo, il gruppo dei partecipanti si ricompone e decide di imboccare Porta Cristina per effettuare una breve passeggiata in Viale Buoncammino. Si avrà modo così di ammirare il panorama che dai tetti del quartiere di Stampace ti accompagna alle aree occupate dall’Ospedale Civile, dalle Università di Leggi ed Economia, dal suggestivo anfiteatro romano e dall’Orto botanico. Il mare, situato in fondo, definirà al meglio le immagini di questa cartolina.

Da un breve conciliabolo degli organizzatori si ha modo di capire che il desiderio di inquadrare gli angoli tra i più caratteristici di Cagliari non potrà essere appagato per questioni di tempo. La marcia indietro presso la già citata porta ci indirizza verso la vicina Piazza Palazzo o Piazza Indipendenza. Situata nella parte più elevata del quartiere ha per contorni la Torre di San Pancrazio, il Palazzo Sabaudo, la Curia, il Duomo e l’Ex Museo Regio. E’ in questa Piazza di Castello che il gruppo, tenuto conto che la maggioranza dei partecipanti conosce a perfezione i percorsi che portano ad un ristorante di Via Sardegna, un tracciato parallelo a quello dei portici di Via Roma, decide di sciogliersi e rispettare le libere scelte di ognuno. Personalmente ritengo giusta detta motivazione che mi permette di indugiare nei luoghi a me più cari del periodo vissuto  in gioventù.

Nulla è cambiato rispetto al tempo in cui usavo scendere a passo spedito lungo la Via La Marmora e la parallela Via Canelles per guadagnare, all’esterno delle imponenti fortificazioni del rione, gli spazi aperti che portano al Bastione ed alla sottostante Piazza Costituzione. Da qui per poter raggiungere I Portici di Via Roma, la principale arteria cittadina, era sufficiente proseguire, sempre in discesa, lungo il Viale Regina Margherita oppure imboccare il Largo Carlo Felice dopo aver ripiegato per la Via Manno. Raramente, nelle mie brevi passeggiate, utilizzavo i vicoli tortuosi che portano, attraverso un centinaio di insidiosi scalini all’antico e caratteristico quartiere della Marina dove è ubicato il nostro punto di ristoro.

E’ soprattutto in Piazza Palazzo che ritengo soffermarmi per riferire di una visita effettuata una ventina di anni addietro al profondissimo Pozzo di San Pancrazio e di quelle più frequenti alla vicina cattedrale.

Devo premettere intanto che il quartiere Castello è noto non solo per le sue torri ma anche per i suoi pozzi, ben cinque, tra i quali occorre far menzione della fonte sotterranea di San Pancrazio, un’opera costruita al centro di Piazza Indipendenza intorno alla prima metà del Cinquecento. Sono ben 77 i metri che corrono dall’imboccatura sino alle falde acquatiche mentre un’altra decina vanno a interessare la massa del liquido che scorre sui fondali. Una profondità inferiore avrebbe compromesso ai residenti i benefici derivanti dagli apporti idrici assicurati, dal basso verso l’alto, dal movimento rotatorio degli elevatori a tazze chiamati norie. Bisogna precisare che tutto il lavoro svolto dagli animali, sino alla fine del terzo decennio dell’Ottocento, avveniva all’aperto, ma successivamente, per rimediare a questioni di decoro e di carattere igienico, si dovette operare qualche metro al disotto del piano stradale  con la copertura di una grande volta. Relegato al piano inferiore il cavallo non poteva più creare malcontenti a chicchessia.

Durante la mia visita di venti anni addietro avevo potuto, accedendo da una scala a pioli posizionata nei pressi dell’ex museo regio e da un breve sottopassaggio, prendere visione del tutto eccezione fatta dell’assemblaggio ligneo supportato dall’imboccatura.

A partire dal 1867, con la realizzazione dell’acquedotto progettato dall’ingegnere Felice Giordano, la grande noria sabauda esaurì il suo compito e così fu posta la parola fine anche al calpestio del cavallo attorno ai marchingegni dell’enorme mulino d’acqua.

Degli svariati organi che vanno a comporre detta ruota idraulica avevo già fatto conoscenza durante una mia visita alle campagne di Uta dove l’anziano Efisio Nonnis mi aveva reso edotto del tutto. Tra gli elementi più importanti del complesso assemblaggio ritengo doveroso riferire di su casteddu, is ballaustus, is rimbilleris, is arrodeddus, is pedras de su mobinu, sa pedra soba, s’ascia de su mobinu, sa cadena,, s’accotzu, sa petia trota, sa ghia e su baddadore. Completano il patrimonio figurativo le parti mobili ossia le tazze delegate al sollevamento dell’acqua in superficie. Nel dialetto cagliaritano venivano chiamate tuvus mentre in quello oristanese congius e congioargius erano denominate le maestranze addette alla loro lavorazione.

Per quanto riguarda le funzioni dei singoli organi tornerà utile consultare il lavoro Norie di Sardegna.

La visita domenicale al Duomo di Cagliari è stata per me, nel quinquennio che corre dal 1959 al 1964, una ricorrenza consuetudinaria di tutto rispetto. Oggi ne approfitto, come allora, per varcare uno delle tre porte che abilitano all’ingresso del tempio. Pur essendo un giorno feriale i fedeli non mancano, anzi sono numerosi ed accalcati nelle prime posizioni in prossimità del presbiterio, dove si sta concludendo una funzione religiosa in favore di qualche santo protettore degli infermi. Nel parterre quattro alfieri, disposti a quadrato, stazionano impeccabili sull’attenti, con labari e stemmi, senza tradire il minimo disappunto. Fanno da cornice a questi volontari tante crocerossine inappuntabili per portamento e distinzione. Il clima tutt’intorno sa di festosità.

In questa chiesa, che ricalca in successione gli stili romanico, gotico e barocco, aveva prestato servizio in qualità di arcivescovo un mio conterraneo nel triennio che va dal 1837 al 1840, anno della sua morte. In precedenza. Antonio Tore, questo il suo nome, dopo aver svolto il suo ministero sacerdotale in diversi centri della Barbagia, era stato incaricato di reggere la diocesi di Oristano nelle vesti di Vicario capitolare, quindi consacrato vescovo a Bosa e successivamente nominato presule nella diocesi di Ales per il decennio che corre dal 1828.

E’ sempre un piacere sostare negli interni di questa chiesa monumentale dove gli acronimi D.O.M. e J.H.S riportati in testata alle varie epigrafi sono il riconoscimento dovuto al Padre eterno (Domino, Optimo, Maximo) ed al Suo diletto Figlio (Gesù, Salvatore degli uomini).

Giovanni Mura 
Con le attenzioni dell’Associazione Cinquanta & Più di Oristano