Gita a Cagliari
Visita ai suoi antichi quartieri
Sabato 25 gennaio è la
data stabilita dall’Associazione 50 & Più di Oristano per una gita alla
volta di Cagliari. Per il gruppo di cui faccio parte, una cinquantina di iscritti
in tutto, la partenza ed il rientro ad Oristano, sono fissati per le ore nove
del mattino e le diciannove della sera.
Da bordo pullman, lungo
il tragitto in superstrada, non c’è altro che da ammirare quanto la natura, rappresentata
da un paesaggio pianeggiante spesso incolto, ed in lontananza, incorniciato da
montagne mute e severe, offre. Nei pressi di Marrubiu, una pala eolica di
notevoli dimensioni, sembra invitare i passeggeri a perorare le giuste cause
sulla sua esistenza.
E’ già Cagliari quando
gli appelli griffati della pubblicità profusa dai numerosi esercizi di
periferia cominciano a venirti incontro con frequenza ed insistenza sino a
pochi metri dalla sede stradale.
Superati i quartieri
storici di Sant’Avendrace e Stampace ci troviamo sulla via Roma, di fronte al
porto, per poi proseguire nei viali Colombo e Regina Margherita. Giunti
all’altezza dei Giardini pubblici ci viene porto l’invito a scendere per dare
inizio alle visite previste dal programma. Dai più anziani, nell’affrontare la rampa
che nello spazio di un centinaio di metri conduce a Porta San Pancrazio e
quindi a Piazza Arsenale, sono da segnalare alcune difficoltà.
Siamo ormai in Castello,
il quartiere più in alto di Cagliari. D’ora in avanti e per l’intera giornata
non incontreremo altre salite.
Nessuna coda di
visitatori al Museo archeologico. Forse siamo i primi avventori della giornata.
Nel periodo invernale le visite sono sempre ridotte al minimo ma d’estate sp superano
le settecento unità giornaliere.
L’edificio, un moderno
stabile suddiviso in quattro piani, è ancorato a nord alla antica
fortificazione del rione. Salendo in ascensore si possono notare lungo alcuni
dislivelli rocciosi le feritoie sulle quali i tiratori scelti armeggiavano con archi
e archibugi.
Il tempo per inseguire la
storia dei reperti in esposizione non è mai sufficiente, per la carenza di una
opportuna guida museale, a colmare ed appagare
la curiosità dei visitatori. In cambio devi far ricorso, una volta a
casa, all’utilizzo dei depliant dati in omaggio o in mancanza di questi ai virtuosismi,
talvolta impropri, dell’intelligenza artificiale. Questo vale soprattutto per la
migliore lettura dei dipinti cinquecenteschi con olio su tavole del Cavaro,
Mainas ed altri autori sardi. Le illustrazioni di quanto è esposto in vetrina
sono abbastanza chiare. Questo vale anche per la eccelsa collezione di 23 pezzi
anatomici modellati in cera dal Susini. In quest’ultimo caso si tratta di un
lavoro a cui hanno partecipato tre illustri personaggi: Il Vicerè Carlo Felice,
in qualità di committente, l’artista fiorentino Clemente Susini, nelle vesti di
commissionario, e l’anatomista sardo Francesco Antonio Boi, assistente ai
lavori. I vari organi di senso e quelli relativi ai nostri apparati e sistemi corporei
pongono in evidenza la multiforme sfaccettatura del nostro organismo. Lo
stupore del visitatore è dato dalla cera, un materiale che si presta a simulare
efficacemente la disposizione de i vasi sanguigni, delle masse muscolari e dei
tessuti epidermici. Si tratta di un’opera fra le uniche al mondo. Onore al merito al finanziatore,
all’artista e all’accademico. Il tutto, ben custodito in teche sottovetro, è supportato
dalla attenta e continua presenza dei commessi i quali non mancano mai di
invitarti a non fotografare i reperti. All’ora del pranzo, fissata per le
tredici e trenta, non vorrei avere delle difficoltà a mandare giù qualche
boccone. Sembrano ancora inseguirmi le espressioni cadaveriche di quei modelli
anatomici ottocenteschi.
Dimenticavo di segnalare
che ogni vetrina del museo fa ricorso all’uso della lingua italiana e di quella
inglese. In una epigrafe posta all’esterno dello stabile il riferimento
linguistico si rifà all’italiano ed al sardo, quest’ultimo in dialetto campidanese.
E’ l’omaggio per eccellenza dovuto al Professor Lilliu, studioso al quale è
dedicato il Museo archeologico di Cagliari.
Appena fuori dal Museo,
il gruppo dei partecipanti si ricompone e decide di imboccare Porta Cristina per
effettuare una breve passeggiata in Viale Buoncammino. Si avrà modo così di
ammirare il panorama che dai tetti del quartiere di Stampace ti accompagna alle
aree occupate dall’Ospedale Civile, dalle Università di Leggi ed Economia, dal
suggestivo anfiteatro romano e dall’Orto botanico. Il mare, situato in fondo, definirà
al meglio le immagini di questa cartolina.
Da un breve conciliabolo
degli organizzatori si ha modo di capire che il desiderio di inquadrare gli
angoli tra i più caratteristici di Cagliari non potrà essere appagato per
questioni di tempo. La marcia indietro presso la già citata porta ci indirizza
verso la vicina Piazza Palazzo o Piazza Indipendenza. Situata nella parte più
elevata del quartiere ha per contorni la Torre di San Pancrazio, il Palazzo Sabaudo,
la Curia, il Duomo e l’Ex Museo Regio. E’ in questa Piazza di Castello che il
gruppo, tenuto conto che la maggioranza dei partecipanti conosce a perfezione i
percorsi che portano ad un ristorante di Via Sardegna, un tracciato parallelo a
quello dei portici di Via Roma, decide di sciogliersi e rispettare le libere
scelte di ognuno. Personalmente ritengo giusta detta motivazione che mi
permette di indugiare nei luoghi a me più cari del periodo vissuto in gioventù.
Nulla è cambiato rispetto
al tempo in cui usavo scendere a passo spedito lungo la Via La Marmora e la
parallela Via Canelles per guadagnare, all’esterno delle imponenti
fortificazioni del rione, gli spazi aperti che portano al Bastione ed alla
sottostante Piazza Costituzione. Da qui per poter raggiungere I Portici di Via
Roma, la principale arteria cittadina, era sufficiente proseguire, sempre in
discesa, lungo il Viale Regina Margherita oppure imboccare il Largo Carlo
Felice dopo aver ripiegato per la Via Manno. Raramente, nelle mie brevi
passeggiate, utilizzavo i vicoli tortuosi che portano, attraverso un centinaio
di insidiosi scalini all’antico e caratteristico quartiere della Marina dove è
ubicato il nostro punto di ristoro.
E’ soprattutto in Piazza Palazzo
che ritengo soffermarmi per riferire di una visita effettuata una ventina di
anni addietro al profondissimo Pozzo di San Pancrazio e di quelle più frequenti
alla vicina cattedrale.
Devo premettere intanto
che il quartiere Castello è noto non solo per le sue torri ma anche per i suoi
pozzi, ben cinque, tra i quali occorre far menzione della fonte sotterranea di
San Pancrazio, un’opera costruita al centro di Piazza Indipendenza intorno alla
prima metà del Cinquecento. Sono ben 77 i metri che corrono dall’imboccatura
sino alle falde acquatiche mentre un’altra decina vanno a interessare la massa
del liquido che scorre sui fondali. Una profondità inferiore avrebbe
compromesso ai residenti i benefici derivanti dagli apporti idrici assicurati,
dal basso verso l’alto, dal movimento rotatorio degli elevatori a tazze chiamati
norie. Bisogna precisare che tutto il lavoro svolto dagli animali, sino alla
fine del terzo decennio dell’Ottocento, avveniva all’aperto, ma successivamente,
per rimediare a questioni di decoro e di carattere igienico, si dovette operare
qualche metro al disotto del piano stradale
con la copertura di una grande volta. Relegato al piano inferiore il
cavallo non poteva più creare malcontenti a chicchessia.
Durante la mia visita di
venti anni addietro avevo potuto, accedendo da una scala a pioli posizionata
nei pressi dell’ex museo regio e da un breve sottopassaggio, prendere visione
del tutto eccezione fatta dell’assemblaggio ligneo supportato dall’imboccatura.
A partire dal 1867, con la
realizzazione dell’acquedotto progettato dall’ingegnere Felice Giordano, la
grande noria sabauda esaurì il suo compito e così fu posta la parola fine anche
al calpestio del cavallo attorno ai marchingegni dell’enorme mulino d’acqua.
Degli svariati organi che
vanno a comporre detta ruota idraulica avevo già fatto conoscenza durante una
mia visita alle campagne di Uta dove l’anziano Efisio Nonnis mi aveva reso
edotto del tutto. Tra gli elementi più importanti del complesso assemblaggio
ritengo doveroso riferire di su casteddu, is ballaustus, is rimbilleris, is
arrodeddus, is pedras de su mobinu, sa pedra soba, s’ascia de su mobinu, sa
cadena,, s’accotzu, sa petia trota, sa ghia e su baddadore. Completano il
patrimonio figurativo le parti mobili ossia le tazze delegate al sollevamento
dell’acqua in superficie. Nel dialetto cagliaritano venivano chiamate tuvus
mentre in quello oristanese congius e congioargius erano denominate le
maestranze addette alla loro lavorazione.
Per quanto riguarda le
funzioni dei singoli organi tornerà utile consultare il lavoro Norie di Sardegna.
La visita domenicale al
Duomo di Cagliari è stata per me, nel quinquennio che corre dal 1959 al 1964, una
ricorrenza consuetudinaria di tutto rispetto. Oggi ne approfitto, come allora, per
varcare uno delle tre porte che abilitano all’ingresso del tempio. Pur essendo
un giorno feriale i fedeli non mancano, anzi sono numerosi ed accalcati nelle
prime posizioni in prossimità del presbiterio, dove si sta concludendo una funzione
religiosa in favore di qualche santo protettore degli infermi. Nel parterre
quattro alfieri, disposti a quadrato, stazionano impeccabili sull’attenti, con labari
e stemmi, senza tradire il minimo disappunto. Fanno da cornice a questi
volontari tante crocerossine inappuntabili per portamento e distinzione. Il
clima tutt’intorno sa di festosità.
In questa chiesa, che
ricalca in successione gli stili romanico, gotico e barocco, aveva prestato
servizio in qualità di arcivescovo un mio conterraneo nel triennio che va dal 1837
al 1840, anno della sua morte. In precedenza. Antonio Tore, questo il suo nome,
dopo aver svolto il suo ministero sacerdotale in diversi centri della Barbagia,
era stato incaricato di reggere la diocesi di Oristano nelle vesti di Vicario
capitolare, quindi consacrato vescovo a Bosa e successivamente nominato presule
nella diocesi di Ales per il decennio che corre dal 1828.
E’ sempre un piacere sostare negli interni di questa chiesa monumentale dove gli acronimi D.O.M. e J.H.S riportati in testata alle varie epigrafi sono il riconoscimento dovuto al Padre eterno (Domino, Optimo, Maximo) ed al Suo diletto Figlio (Gesù, Salvatore degli uomini).