Memorie tonaresi in pratza manna

lunedì 9 dicembre 2024

Gita sul Monte Arci

 
                         Monte Arci sulle tracce dell'ossidiana



 

   Il Monte Arci è rappresentato nella Sardegna centrale da una vasta area che funge da cuscinetto tra il Campidano di Oristano e l’Alta Marmilla.

   Seguendo le indicazioni della guida turistica, che da bordo pullman ci fornisce interessanti anticipazioni sui punti di maggior rilievo di detta regione, apprendiamo che il sito in oggetto ha una forma ellittica con gli assi maggiore e minore rispettivamente di quattordici e sette chilometri, con direzione nord-sud per il primo di essi ed ovest-est per il secondo.

   Preciso intanto che per ellisse si intende una figura geometrica di forma ovale. Si potrebbe, ricorrendo all’utilizzo di uno spago della lunghezza di una ventina di centimetri e di una penna, riprodurre su un foglio di carta il grafico in questione. Per ottenere il disegno è necessario servirsi di ambo le mani. I polpastrelli del pollice e dell’indice del braccio sinistro, distanziati di un una decina di centimetri, eserciteranno una leggera pressione sui capi terminali del filo mentre quelli della mano sinistra trascineranno, facendo una certa tensione sullo spago, la punta scrivente verso un tracciato raffigurante una mezza ellisse. Per completare il disegno occorrerà eseguire il procedimento inverso e cioè operando sui terminali del cavetto, con i polpastrelli del braccio destro, e sulla penna, con quelli della mano sinistra. Un esempio pratico e veloce può essere fornito dal taglio di una pera in due parti delle quali una di esse deve contenere il picciolo. Si ottengono in tal modo due ellissi uguali.

   Del territorio, di cui abbiamo inquadrato con molta approssimazione i suoi contorni, la nostra guida si intrattiene a presentare i maggiori eventi che hanno caratterizzato in passato la sua storia. Riferisce, in proposito, di eruzioni vulcaniche, di versamenti lavici e dei singolari materiali formatisi sul terreno a seguito del raffreddamento del magma. In particolare si sofferma a trattare dell’ossidiana, un prodotto esclusivo di questa montagna e di pochissimi altri siti del nostro pianeta ma, prima di inseguire detto argomento, mi permetto, facendo riferimento a quanto appreso a scuola, di avanzare la seguente considerazione di carattere vulcanologico. E’ mia presunzione infatti, tenuto presente che il raggio terrestre, calcolato in seimila chilometri, incontra in successione, gli strati di materia a base di silicio e alluminio per il primo grado di discesa, silicio e magnesio per il secondo e nichelio e ferro per il terzo, che l’azione eruttiva si manifesti unicamente lungo la fascia aderente alla crosta terrestre. Di queste forti scosse implosive ha risentito anche il nostro monte con bocche da fuoco poste in località Trebina longa, la più alta vetta del massiccio, Trebina lada e Su Corongiu de Sizoa, terzetto altimetrico ordinato sul terreno dalla forma di un treppiede.

   Alla valida esposizione della guida di bordo farà seguito, una volta giunti a destinazione, il dettagliato racconto di colei che ci accompagnerà, in mattinata, nel percorso ad anello lungo il tracciato delle coltivazioni dell’ossidiana e, nel pomeriggio, nella visita alle varie sale del museo di Pau, il piccolo borgo situato alla fine di una corsa che, nel programma del nostro viaggio, ha interessato i centri di Oristano, Silì, Simaxis, Usellus e Villaverde.

   Alla presunta fermata in paese si preferisce, con il beneplacito dei gitanti e degli organizzatori, procedere sino al punto più basso della vicina montagna, luogo che offre la possibilità, prima di dare inizio alla escursione naturalistica nel fitto bosco, di apprendere dalla viva voce della guida locale una lezione sull’ossidiana.

   L’officina del passato si presenta ai nostri occhi e alla nostra curiosità con una parete incastonata dagli scarti di lavorazione operati dai nostri predecessori del Neolitico, ossia del periodo che corre dal Seimila al Duemila avanti Cristo. Detti resti erano ottenuti dalla sfaccettatura di piccoli blocchi di ossidiana, operazione questa che permetteva di ottenere scaglie e strumenti di raschiamento da esitare commercialmente nell’area mediterranea. I nostri antenati riuscivano ad inseguire i loro programmi di lavorazione facendo ricorso a materiali con un maggiore grado di durezza ed agendo sui punti di maggior fragilità del materiale da scalfire.

   Il pezzo informe che ci viene mostrato, di un colore di intenso nero, assume la grandezza di un peperone. Ad occhio nudo si possono intravedere le numerose scaglie che si susseguono e si sovrappongono le une con le altre come le brattee ossia le foglie verdi viola di un carciofo o anche le squame di una pigna. Dell’operazione relativa alla sfaccettatura riusciremo ad avere. in un filmato curato dal locale museo, una buona conferma delle procedure eseguite in illo tempore. Sempre trattando di questo vetro purissimo ad altissimo contenuto di silicio, la guida riferisce, in chiusura, che il medesimo ha un grado di durezza che si oppone alla scalfittura operata da materiali più deboli. Nella scala di Mohs, l’ossidiana, al contrario del diamante che si porta a 10, il valore più elevato, è registrata con il valore cinque.

   Inseguendo il percorso che porta su in montagna non possiamo fare a meno di fare menzione di quanto spettacolo è offerto dalla natura di questi luoghi. Si cammina in salita per qualche chilometro inseguendo corsie tappezzate da piccoli frammenti di ossidiana e rigate in lungo ed in largo dal passaggio di famelici suini alla ricerca di ghiande, il loro cibo prelibato.

   Stiamo attraversando un bosco fitto di piante di rovere, leccio, sughero, corbezzolo e di qualche arbusto di erica scoparia. Nel dialetto del mio paese, dove la vegetazione ricalca per sommi capi quella del centro che ci ospita, si ricorre alla terminologia dei creccos, iliges, suergios, illiones e framiu. Su cheleisone, ossia il frutto del corbezzolo, dipinge il nostro percorso con i suoi colori che sanno di giallo e di rosso. A bordo strada non sfugge ai gitanti la rigogliosa presenza della cicoria selvatica. Si esse potziu, n’aia arregortu una bertula (se avessi potuto ne avrei raccolto una bisaccia).

   Più avanti una grande vasca antincendio, anticipata nelle nostre immagini da grossi bocchettoni idraulici, ci riporta ancora alla configurazione di una ellisse. Questa figura in geometria analitica è presentata come il luogo dei punti del piano per i quali è costante la somma delle distanze da due punti fissi chiamati fuochi. Una persona, impegnata a percorrere il tracciato di bordo vasca confermerebbe a pieno titolo l’assunto della citata definizione.

   Non possiamo fare a meno, procedendo nel nostro percorso, di menzionare la singolare finestra panoramica che si affaccia da ovest ad est su buona parte dell’isola centrale. Non mi sfuggono in lontananza le vette più elevate del Gennargentu e le loro denominazioni. Si tratta di Punta La Marmora e della vicinissima Punta Paolina.

   Si ha l’impressione di vederle quasi ad una altimetria inferiore a quella in cui ci troviamoi ma è solo un’impressione ottica. Anche se Trebina longa, cima che sta sopra le nostre teste ad una altezza di 812 metri, registra un valore di tutto rispetto, è pur sempre debitrice verso il monte barbaricino di ben 1000 metri.

   La prima volta che feci visita al Gennargentu avevo quattordici anni. Correva l’anno 1953 e correva anche il caldo mese di agosto. Per poter assistere agli spettacoli offerti dall’alba e dall’aurora dovetti scalare il tratto che dal Rifugio del Re porta alla vetta durante le ore antelucane. Detto percorso ricoperto da imponenti ed insidiose lastre di schisto è denominato Su Sciusciu ossia La Discarica.

   Terminato il tortuoso percorso ad anello attorno alla montagna, si ha modo di risalire a bordo pullman e rientrare a Pau per una sosta compensatrice degli sforzi compiuti in mattinata.

   Nel pomeriggio siamo attesi al museo comunale dove, unitamente alle collezioni private di lavoratori dell’ossidiana vediamo esposte in vetrina interessanti varietà di minerali provenienti dai giacimenti del Monte Arci. La comprensione dei vari passaggi di carattere culturale è facilitata, come al solito, dalla disponibilità e capacità della attenta guida turistica. Una volta all’esterno ci troviamo in pieno centro dove una bella piazza movimentata da una elegante pavimentazione di tipo basaltico funge da anfiteatro ad un insieme in cui si affiancano, in senso quasi rotatorio, le facciate del museo, di una villetta con un curatissimo giardino, del ristorante che ci ha ospitato nel primo pomeriggio, di un’altra abitazione con posti a sedere sul davanti, della casa parrocchiale e della chiesetta. Detto luogo di culto si esprime con garbo e semplicità con un frontone corredato in alto da una piccola croce greca, con un rosone rappresentato solo per metà e con un portone che invita all’ingresso della messa vespertina. Di lato il campanile a vela, raggiungibile con il ricorso a due scale a chiocciola poste sul retro della struttura campanaria, si articola verso l’alto con una copertura di valenza baroccheggiante e con una croce simile alla precedente. Le due campane, di diversa dimensione e fattura, stanno in angusti abitacoli senza possibilità di comunicare tra loro. Mi vien quasi voglia di raggiungerle dal sagrato, che sta sotto di esse meno di sette od otto metri, ma preferisco fare una visita brevissima all’interno della pieve. Varcato il portone, senza procedere verso la zona che conduce al transetto ed al presbiterio, resto nella zona riservata alla bussola d’ingresso, posizione ideale per cogliere la semplicità e il buon gusto presentati dagli arredi delle varie cappelle e dalla composizione floreale dell’altare.

   Approfitto intanto, dopo le brevi esternazioni condotte sul tempio, per dedicare un pensiero all’Altissimo suffragato dalla promessa di essere presente domani in Oristano alla messa domenicale. Tengo a precisare in proposito che, nel corso della mia vita, non sono mai venuto meno, salvo casi di forza maggiore, a detto obbligo ecclesiastico settimanale. Rispettando detto impegno dei giorni festivi non faccio che saldare un debito di riconoscenza che ho verso mia madre, una vera credente. Non posso dimenticare, al riguardo, le immagini offerte dalla mamma mentre saliva in ginocchio ed in preghiera i ventotto scalini della Scala Santa, gradini che io, bambino di tre o quattro anni, superavo saltellando. Per queste mie irriverenze non venivo, data l’età, mai ripreso. Fui invece ammonito con toni accesi quando, più tardi, esattamente nel 1948, un anno prima che passasse a miglior vita, manifestai il proposito di non andare più a messa. Fu per me una lezione esemplare.