Parco di Santa Cristina e villaggio
di Nuraghe Losa
E’ da
diversi anni che faccio parte dell’Associazione 50 & Più di Oristano. Detto
Ente, con sede principale in Roma ma con ramificazione capillare in tutta
Italia, si prefigge lo scopo di promuovere gli aspetti culturali e ricreativi
di quanti hanno superato i cinquanta anni di età.
E’ ovvio
che i tracciati definiti nei programmi relativi alle gite domenicali o ai più
impegnativi viaggi oltre mare non possono non tenere conto delle prestazioni di
carattere gastronomico. E’ immancabile dunque il riferimento alle voci
dettagliate del menù.
Questa
possibilità di coniugare gli obiettivi culturali con quelli decantati dalle
ricche e sontuose tavolate mi è stata offerta nello scorso mese con la
partecipazione alla visita dei siti archeologici di Santa Cristina e di Nuraghe
Losa nei territori di Paulilatino e di Abbasanta.
Le bevande
e cibarie ed il dulcis in fundo sono stati curati in un tipico ristorante della
campagna norbellese.
Per ciò che
concerne le manifestazioni di carattere culturale devo rifarmi a quanto
avvenuto domenica 28 aprile durante la mattinata e nelle ore successive.
Quanti mi
hanno preceduto nello scendere dal pullman, parcheggiato a brevissima distanza
dall’ingresso al sito archeologico, si ritrovano ora in prima fila, a ridosso
del lungo bancone del bar, ad attendere alle loro consumazioni. Ai ritardatari
sono riservate le seconde e terze file. E’ questa la mia prima lettura sui
quaranta partecipanti alla gita.
Di solito,
alle lungaggini di queste soste al buffet, preferisco soprassedere e, in questa
occasione, preferisco incamminarmi a passo lento lungo una discesa che porta
alla chiesetta campestre di Santa Cristina, luogo di culto dove è previsto
l’incontro con la guida locale. Tanto alla sinistra quanto alla destra di
questo breve percorso si succedono decine di curiose casette edificate con
materiale vulcanico e tanta malta. Alla stessa tonalità scura delle pietre
basaltiche si associano anche i serramenti delle aperture. Queste costruzioni,
con la loro disposizione a semicerchio, sembrano omaggiare i numerosi turisti
di passaggio, ignari questi ultimi che il senso della vera accoglienza sarà
tributato a chicchessia durante i nove giorni che precedono la festa religiosa.
Solo in questo lasso di tempo regolato dal novenario sarà possibile ammirare e
sbirciare attraverso gli usci e le altre piccole vedute gli interni di queste
piccole abitazoni, definite nel tempo con i termini di cumbessias o anche di
muristenes.
La chiesa,
disposta in fondo alla breve discesa e raccolta in un ampio piazzale, vanta
origini antichissime. Le fonti storiche
riferiscono che l’edificazione è stata curata dai frati camaldolesi intorno al
Mille e Duecento.
I
muristenes sono sorti molto dopo, ma non prima del 1582. A questa definizione
temporale sono pervenuto rifacendomi alla pastorale dell’arcivescovo Francesco
Figo, il quale, nel paragrafo relativo al comportamento tenuto dai fedeli nelle
chiese campestri ordina quanto segue:
In is
deplus cresias campestras quj de una milla ajnantj antj a jstarj de su pobladu
aundj particularis devotionis multus accudintj decretaus et ordinaus e ais
preditus beneficiadus rectoris curadus et oberaius cumandaus quj jn ditas
jsglesias no bolanta premjtirj ni p(er)mjtanta (nel testo pmjtanta) quj nixunu
homjnj de doxj anus jnsusu apustj sa posta de su solu fina asa exida (dal
tramonto del sole sino all’alba) no apanta a jstarj njn dormjrj jn cuddas
cresias.
Il
documento in oggetto risulta catalogato nell’Archivio storico diocesano di
Oristano alla voce Gesturi (Quinque Libri).
La
costruzione di dette cumbessias non poté quindi avvenire nelle comunità
arborensi che in tempi successivi alla data di emanazione del citato decreto.
Nella pastorale, che nei vari passaggi fa anche riferimento ai dettami del
Concilio Tridentino, è espressamente ordinato il divieto d’ingresso in dette
chiese di campagna, durante le ore notturne, a tutti i maschi di età superiore
ai dodici anni. Penso che, a seguito di detta ordinanza, qualcuno dei fedeli
abbia optato per l’edificazione dei primi alloggi nelle vicinanze dei santuari
campestri.
Dagli
interni della chiesetta, dove, unitamente agli altri partecipanti, ho potuto
seguire le interessanti e convincenti relazioni della guida si esce nuovamente
all’aperto per procedere, in un ambiente mozzafiato curato egregiamente da
madre natura, su tracciati che superano di migliaia di anni i tempi fissati dal
calendario cristiano. La penombra riservata al visitatore dalla rigogliosa
vegetazione di ulivi ultrasecolari crea la giusta atmosfera per favorire al
meglio un appagante ingresso nella civiltà nuragica.
Si inizia
con la visita ad un piccolo nuraghe che, a detta della guida, assume
particolare importanza per le segnalazioni che, in coincidenza delle ricorrenze
annuali dei solstizi e degli equinozi, rilascia dal punto di vista astronomico.
Si
prosegue, a brevissima distanza, con l’ispezione al pozzo sacro. In questo sito
è possibile verificare, in tempo di lunistizio, fatto che si verifica ogni
diciotto anni e mezzo, 18,6 per esattezza, che il fascio di luce lunare si
riflette verticalmente nello specchio d’acqua in fondo al pozzo dopo aver
superato l’unica imboccatura di superficie del diametro di appena ventisette
centimetri. Per una migliore comprensione preciso che la luna, l’orifizio
esterno e la pozza d’acqua si dispongono lungo un fascio luminoso una sola
volta ogni ventennio. L’appuntamento è per il prossimo anno. E se la giornata è
nuvolosa? E’ quel che mi preoccupa di più, risponde la guida.
Dopo i
doverosi ringraziamenti all’accompagnatore, che con competenza e maestria è
riuscito, anche avvalendosi delle videate del suo portatile, a curare al meglio
la descrizione dei siti incontrati, si ritorna con molta calma al mezzo di
servizio che in brevissimo tempo ci condurrà al villaggio di Nuraghe Losa.
La sosta
temporanea del pullman nel piazzale antistante il nuraghe mi consente, data la
mia decisione affrettata e sofferta di non effettuare, per motivi
precauzionali, alcuna visita all’interno del villaggio, di fare un breve
resoconto delle osservazioni condotte dalla mia postazione a bordo macchina.
Intorno a
me la visuale sull’immenso anfiteatro naturale che mi circonda è completamente
libera in ogni settore.
Di fronte,
a distanza di un centinaio di metri, si estende una lunga ed alta recinzione di
massi basaltici che mi impedisce di vedere le costruzioni circolari innescate
alla base della grande struttura.
Alla mia
sinistra non vedo nulla di particolare ad eccezione di due strade asfaltate che
si inseguono per breve tratto salvo svoltare chissà dove e scomparire nel
nulla. Una di queste è denominata Curva di Nuraghe Losa, via di comunicazione
sulla quale mi intratterrò al termine della mia esposizione.
Alla mia
destra una campagna verdeggiante che in lontananza sembra abbracciare vari
centri abitati del Marghine per i quali la visuale mi garantisce le possibili
coordinate ma non i rispettivi confini territoriali.
Di spalle,
la folta vegetazione delle piante ghiandifere e certi dislivelli di tipo
altimetrico mi impediscono di osservare la grande distesa d’acqua del Lago Omodeo che, con solennità sembra
governare, col supporto della diga, i contenuti idrici del suo bacino. Il corso
d’acqua che al termine del suo tragitto promuove l’immenso invaso, della
capacità di circa ottocento milioni di metri cubi, funge da linea divisoria tra
i territori del Guilcier e del Mandrolisai, distretti nei quali sono
osservabili le caratteristiche cumbessias di San Serafino alle porte di
Ghilarza e quelle di San Mauro tra Ortueri e Sorgono. Disposizione a
semicerchio per le prime e successione “in duplice filar” per le seconde.
Fungono da
cornice a questo interessante quadrante le vette più elevate della nostra
isola. Su Punta Paolina e su Punta La Marmora, i miei scarponi di settantanni
addietro avevano calcato le loro orme.
Ma
ritorniamo al quadrante che interessa maggiormente il nostro viaggio.
Quanti
hanno modo di osservare attentamente in cartolina o nelle riviste specializzate
i lineamenti del nuraghe trilobato non possono disattendere la mia informazione
visiva che lo paragona ad una scarpa a doppio plantare, dell’altezza di un
ventina di metri, e a tre scatole di lucido che si elevano dal terreno di poche
spanne. Il primo articolo di calzatura varrebbe per la struttura tronco conica
mentre il secondo per le costruzioni circolari.
Galoppando
con la fantasia tento di immaginare quale dimensione potrebbe avere il
personaggio mitologico incaricato di calzare quella scarpa. Il ricorso allo
studio delle proporzioni potrebbe assegnare a detta figura un’altezza di circa
duecento metri, dimensione questa di gran lunga inferiore alle super altezze
delle maxi torri eoliche dei giorni nostri. Mi sto riferendo a quei mostri
d’acciaio che nell’assemblaggio di piloni, rotori e pale ci consegneranno con
le loro evoluzioni un cielo rigato a quadretti. Il dio dei venti incontrerebbe
certamente delle difficoltà a supportare le grandi pretese energetiche di un
parco eolico distribuito a dismisura nella nostra isola.
Doveroso in
chiusura ricordare quanto avvenne di tragico, in una notte primaverile della
seconda metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, nell’abbordare in macchina
la fatidica curva che porta “chissà dove”. Tre ragazzi di Oristano persero la
vita durante il rientro da Macomer alla loro città. Uno di questi era stato un
mio compagno di scuola nel capoluogo del Marghine. La morte bianca, aveva teso
l’agguato proprio nei pressi del villaggio nuragico. Per ironia della sorte, la
circolazione in Sardegna delle macchine private, in quei tempi, era molto
ridotta. I rivenditori di torrone di Tonara, si servivano ancora per i lunghi
viaggi di carretta e cavallo.
Giovanni Mura
Parco di Santa Cristina
e
Villaggio di Nuraghe Losa
Con
le attenzioni
dell’Associazione Cinquanta
& Più di Oristano