Memorie tonaresi in pratza manna

giovedì 30 maggio 2024

Nuraghe Losa

 

Parco di Santa Cristina e villaggio di Nuraghe Losa

 

E’ da diversi anni che faccio parte dell’Associazione 50 & Più di Oristano. Detto Ente, con sede principale in Roma ma con ramificazione capillare in tutta Italia, si prefigge lo scopo di promuovere gli aspetti culturali e ricreativi di quanti hanno superato i cinquanta anni di età.

E’ ovvio che i tracciati definiti nei programmi relativi alle gite domenicali o ai più impegnativi viaggi oltre mare non possono non tenere conto delle prestazioni di carattere gastronomico. E’ immancabile dunque il riferimento alle voci dettagliate del menù.

Questa possibilità di coniugare gli obiettivi culturali con quelli decantati dalle ricche e sontuose tavolate mi è stata offerta nello scorso mese con la partecipazione alla visita dei siti archeologici di Santa Cristina e di Nuraghe Losa nei territori di Paulilatino e di Abbasanta.

Le bevande e cibarie ed il dulcis in fundo sono stati curati in un tipico ristorante della campagna norbellese. 

Per ciò che concerne le manifestazioni di carattere culturale devo rifarmi a quanto avvenuto domenica 28 aprile durante la mattinata e nelle ore successive.

Quanti mi hanno preceduto nello scendere dal pullman, parcheggiato a brevissima distanza dall’ingresso al sito archeologico, si ritrovano ora in prima fila, a ridosso del lungo bancone del bar, ad attendere alle loro consumazioni. Ai ritardatari sono riservate le seconde e terze file. E’ questa la mia prima lettura sui quaranta partecipanti alla gita.

Di solito, alle lungaggini di queste soste al buffet, preferisco soprassedere e, in questa occasione, preferisco incamminarmi a passo lento lungo una discesa che porta alla chiesetta campestre di Santa Cristina, luogo di culto dove è previsto l’incontro con la guida locale. Tanto alla sinistra quanto alla destra di questo breve percorso si succedono decine di curiose casette edificate con materiale vulcanico e tanta malta. Alla stessa tonalità scura delle pietre basaltiche si associano anche i serramenti delle aperture. Queste costruzioni, con la loro disposizione a semicerchio, sembrano omaggiare i numerosi turisti di passaggio, ignari questi ultimi che il senso della vera accoglienza sarà tributato a chicchessia durante i nove giorni che precedono la festa religiosa. Solo in questo lasso di tempo regolato dal novenario sarà possibile ammirare e sbirciare attraverso gli usci e le altre piccole vedute gli interni di queste piccole abitazoni, definite nel tempo con i termini di cumbessias o anche di muristenes.

La chiesa, disposta in fondo alla breve discesa e raccolta in un ampio piazzale, vanta origini antichissime.  Le fonti storiche riferiscono che l’edificazione è stata curata dai frati camaldolesi intorno al Mille e Duecento.

I muristenes sono sorti molto dopo, ma non prima del 1582. A questa definizione temporale sono pervenuto rifacendomi alla pastorale dell’arcivescovo Francesco Figo, il quale, nel paragrafo relativo al comportamento tenuto dai fedeli nelle chiese campestri ordina quanto segue:

In is deplus cresias campestras quj de una milla ajnantj antj a jstarj de su pobladu aundj particularis devotionis multus accudintj decretaus et ordinaus e ais preditus beneficiadus rectoris curadus et oberaius cumandaus quj jn ditas jsglesias no bolanta premjtirj ni p(er)mjtanta (nel testo pmjtanta) quj nixunu homjnj de doxj anus jnsusu apustj sa posta de su solu fina asa exida (dal tramonto del sole sino all’alba) no apanta a jstarj njn dormjrj jn cuddas cresias.

Il documento in oggetto risulta catalogato nell’Archivio storico diocesano di Oristano alla voce Gesturi (Quinque Libri).

La costruzione di dette cumbessias non poté quindi avvenire nelle comunità arborensi che in tempi successivi alla data di emanazione del citato decreto. Nella pastorale, che nei vari passaggi fa anche riferimento ai dettami del Concilio Tridentino, è espressamente ordinato il divieto d’ingresso in dette chiese di campagna, durante le ore notturne, a tutti i maschi di età superiore ai dodici anni. Penso che, a seguito di detta ordinanza, qualcuno dei fedeli abbia optato per l’edificazione dei primi alloggi nelle vicinanze dei santuari campestri.

Dagli interni della chiesetta, dove, unitamente agli altri partecipanti, ho potuto seguire le interessanti e convincenti relazioni della guida si esce nuovamente all’aperto per procedere, in un ambiente mozzafiato curato egregiamente da madre natura, su tracciati che superano di migliaia di anni i tempi fissati dal calendario cristiano. La penombra riservata al visitatore dalla rigogliosa vegetazione di ulivi ultrasecolari crea la giusta atmosfera per favorire al meglio un appagante ingresso nella civiltà nuragica.

Si inizia con la visita ad un piccolo nuraghe che, a detta della guida, assume particolare importanza per le segnalazioni che, in coincidenza delle ricorrenze annuali dei solstizi e degli equinozi, rilascia dal punto di vista astronomico.

Si prosegue, a brevissima distanza, con l’ispezione al pozzo sacro. In questo sito è possibile verificare, in tempo di lunistizio, fatto che si verifica ogni diciotto anni e mezzo, 18,6 per esattezza, che il fascio di luce lunare si riflette verticalmente nello specchio d’acqua in fondo al pozzo dopo aver superato l’unica imboccatura di superficie del diametro di appena ventisette centimetri. Per una migliore comprensione preciso che la luna, l’orifizio esterno e la pozza d’acqua si dispongono lungo un fascio luminoso una sola volta ogni ventennio. L’appuntamento è per il prossimo anno. E se la giornata è nuvolosa? E’ quel che mi preoccupa di più, risponde la guida.

Dopo i doverosi ringraziamenti all’accompagnatore, che con competenza e maestria è riuscito, anche avvalendosi delle videate del suo portatile, a curare al meglio la descrizione dei siti incontrati, si ritorna con molta calma al mezzo di servizio che in brevissimo tempo ci condurrà al villaggio di Nuraghe Losa.

La sosta temporanea del pullman nel piazzale antistante il nuraghe mi consente, data la mia decisione affrettata e sofferta di non effettuare, per motivi precauzionali, alcuna visita all’interno del villaggio, di fare un breve resoconto delle osservazioni condotte dalla mia postazione a bordo macchina.

Intorno a me la visuale sull’immenso anfiteatro naturale che mi circonda è completamente libera in ogni settore.

Di fronte, a distanza di un centinaio di metri, si estende una lunga ed alta recinzione di massi basaltici che mi impedisce di vedere le costruzioni circolari innescate alla base della grande struttura.

Alla mia sinistra non vedo nulla di particolare ad eccezione di due strade asfaltate che si inseguono per breve tratto salvo svoltare chissà dove e scomparire nel nulla. Una di queste è denominata Curva di Nuraghe Losa, via di comunicazione sulla quale mi intratterrò al termine della mia esposizione.

Alla mia destra una campagna verdeggiante che in lontananza sembra abbracciare vari centri abitati del Marghine per i quali la visuale mi garantisce le possibili coordinate ma non i rispettivi confini territoriali.

Di spalle, la folta vegetazione delle piante ghiandifere e certi dislivelli di tipo altimetrico mi impediscono di osservare la grande distesa d’acqua  del Lago Omodeo che, con solennità sembra governare, col supporto della diga, i contenuti idrici del suo bacino. Il corso d’acqua che al termine del suo tragitto promuove l’immenso invaso, della capacità di circa ottocento milioni di metri cubi, funge da linea divisoria tra i territori del Guilcier e del Mandrolisai, distretti nei quali sono osservabili le caratteristiche cumbessias di San Serafino alle porte di Ghilarza e quelle di San Mauro tra Ortueri e Sorgono. Disposizione a semicerchio per le prime e successione “in duplice filar” per le seconde.

Fungono da cornice a questo interessante quadrante le vette più elevate della nostra isola. Su Punta Paolina e su Punta La Marmora, i miei scarponi di settantanni addietro avevano calcato le loro orme.

Ma ritorniamo al quadrante che interessa maggiormente il nostro viaggio.

Quanti hanno modo di osservare attentamente in cartolina o nelle riviste specializzate i lineamenti del nuraghe trilobato non possono disattendere la mia informazione visiva che lo paragona ad una scarpa a doppio plantare, dell’altezza di un ventina di metri, e a tre scatole di lucido che si elevano dal terreno di poche spanne. Il primo articolo di calzatura varrebbe per la struttura tronco conica mentre il secondo per le costruzioni circolari.

Galoppando con la fantasia tento di immaginare quale dimensione potrebbe avere il personaggio mitologico incaricato di calzare quella scarpa. Il ricorso allo studio delle proporzioni potrebbe assegnare a detta figura un’altezza di circa duecento metri, dimensione questa di gran lunga inferiore alle super altezze delle maxi torri eoliche dei giorni nostri. Mi sto riferendo a quei mostri d’acciaio che nell’assemblaggio di piloni, rotori e pale ci consegneranno con le loro evoluzioni un cielo rigato a quadretti. Il dio dei venti incontrerebbe certamente delle difficoltà a supportare le grandi pretese energetiche di un parco eolico distribuito a dismisura nella nostra isola.

Doveroso in chiusura ricordare quanto avvenne di tragico, in una notte primaverile della seconda metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, nell’abbordare in macchina la fatidica curva che porta “chissà dove”. Tre ragazzi di Oristano persero la vita durante il rientro da Macomer alla loro città. Uno di questi era stato un mio compagno di scuola nel capoluogo del Marghine. La morte bianca, aveva teso l’agguato proprio nei pressi del villaggio nuragico. Per ironia della sorte, la circolazione in Sardegna delle macchine private, in quei tempi, era molto ridotta. I rivenditori di torrone di Tonara, si servivano ancora per i lunghi viaggi di carretta e cavallo.

Giovanni Mura

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Parco di Santa Cristina

e

Villaggio di Nuraghe Losa

 

 

 

 

 

 

 

 

Con

le attenzioni dell’Associazione Cinquanta & Più di Oristano