Memorie tonaresi in pratza manna

lunedì 9 dicembre 2024

Gita sul Monte Arci

 
                         Monte Arci sulle tracce dell'ossidiana



 

   Il Monte Arci è rappresentato nella Sardegna centrale da una vasta area che funge da cuscinetto tra il Campidano di Oristano e l’Alta Marmilla.

   Seguendo le indicazioni della guida turistica, che da bordo pullman ci fornisce interessanti anticipazioni sui punti di maggior rilievo di detta regione, apprendiamo che il sito in oggetto ha una forma ellittica con gli assi maggiore e minore rispettivamente di quattordici e sette chilometri, con direzione nord-sud per il primo di essi ed ovest-est per il secondo.

   Preciso intanto che per ellisse si intende una figura geometrica di forma ovale. Si potrebbe, ricorrendo all’utilizzo di uno spago della lunghezza di una ventina di centimetri e di una penna, riprodurre su un foglio di carta il grafico in questione. Per ottenere il disegno è necessario servirsi di ambo le mani. I polpastrelli del pollice e dell’indice del braccio sinistro, distanziati di un una decina di centimetri, eserciteranno una leggera pressione sui capi terminali del filo mentre quelli della mano sinistra trascineranno, facendo una certa tensione sullo spago, la punta scrivente verso un tracciato raffigurante una mezza ellisse. Per completare il disegno occorrerà eseguire il procedimento inverso e cioè operando sui terminali del cavetto, con i polpastrelli del braccio destro, e sulla penna, con quelli della mano sinistra. Un esempio pratico e veloce può essere fornito dal taglio di una pera in due parti delle quali una di esse deve contenere il picciolo. Si ottengono in tal modo due ellissi uguali.

   Del territorio, di cui abbiamo inquadrato con molta approssimazione i suoi contorni, la nostra guida si intrattiene a presentare i maggiori eventi che hanno caratterizzato in passato la sua storia. Riferisce, in proposito, di eruzioni vulcaniche, di versamenti lavici e dei singolari materiali formatisi sul terreno a seguito del raffreddamento del magma. In particolare si sofferma a trattare dell’ossidiana, un prodotto esclusivo di questa montagna e di pochissimi altri siti del nostro pianeta ma, prima di inseguire detto argomento, mi permetto, facendo riferimento a quanto appreso a scuola, di avanzare la seguente considerazione di carattere vulcanologico. E’ mia presunzione infatti, tenuto presente che il raggio terrestre, calcolato in seimila chilometri, incontra in successione, gli strati di materia a base di silicio e alluminio per il primo grado di discesa, silicio e magnesio per il secondo e nichelio e ferro per il terzo, che l’azione eruttiva si manifesti unicamente lungo la fascia aderente alla crosta terrestre. Di queste forti scosse implosive ha risentito anche il nostro monte con bocche da fuoco poste in località Trebina longa, la più alta vetta del massiccio, Trebina lada e Su Corongiu de Sizoa, terzetto altimetrico ordinato sul terreno dalla forma di un treppiede.

   Alla valida esposizione della guida di bordo farà seguito, una volta giunti a destinazione, il dettagliato racconto di colei che ci accompagnerà, in mattinata, nel percorso ad anello lungo il tracciato delle coltivazioni dell’ossidiana e, nel pomeriggio, nella visita alle varie sale del museo di Pau, il piccolo borgo situato alla fine di una corsa che, nel programma del nostro viaggio, ha interessato i centri di Oristano, Silì, Simaxis, Usellus e Villaverde.

   Alla presunta fermata in paese si preferisce, con il beneplacito dei gitanti e degli organizzatori, procedere sino al punto più basso della vicina montagna, luogo che offre la possibilità, prima di dare inizio alla escursione naturalistica nel fitto bosco, di apprendere dalla viva voce della guida locale una lezione sull’ossidiana.

   L’officina del passato si presenta ai nostri occhi e alla nostra curiosità con una parete incastonata dagli scarti di lavorazione operati dai nostri predecessori del Neolitico, ossia del periodo che corre dal Seimila al Duemila avanti Cristo. Detti resti erano ottenuti dalla sfaccettatura di piccoli blocchi di ossidiana, operazione questa che permetteva di ottenere scaglie e strumenti di raschiamento da esitare commercialmente nell’area mediterranea. I nostri antenati riuscivano ad inseguire i loro programmi di lavorazione facendo ricorso a materiali con un maggiore grado di durezza ed agendo sui punti di maggior fragilità del materiale da scalfire.

   Il pezzo informe che ci viene mostrato, di un colore di intenso nero, assume la grandezza di un peperone. Ad occhio nudo si possono intravedere le numerose scaglie che si susseguono e si sovrappongono le une con le altre come le brattee ossia le foglie verdi viola di un carciofo o anche le squame di una pigna. Dell’operazione relativa alla sfaccettatura riusciremo ad avere. in un filmato curato dal locale museo, una buona conferma delle procedure eseguite in illo tempore. Sempre trattando di questo vetro purissimo ad altissimo contenuto di silicio, la guida riferisce, in chiusura, che il medesimo ha un grado di durezza che si oppone alla scalfittura operata da materiali più deboli. Nella scala di Mohs, l’ossidiana, al contrario del diamante che si porta a 10, il valore più elevato, è registrata con il valore cinque.

   Inseguendo il percorso che porta su in montagna non possiamo fare a meno di fare menzione di quanto spettacolo è offerto dalla natura di questi luoghi. Si cammina in salita per qualche chilometro inseguendo corsie tappezzate da piccoli frammenti di ossidiana e rigate in lungo ed in largo dal passaggio di famelici suini alla ricerca di ghiande, il loro cibo prelibato.

   Stiamo attraversando un bosco fitto di piante di rovere, leccio, sughero, corbezzolo e di qualche arbusto di erica scoparia. Nel dialetto del mio paese, dove la vegetazione ricalca per sommi capi quella del centro che ci ospita, si ricorre alla terminologia dei creccos, iliges, suergios, illiones e framiu. Su cheleisone, ossia il frutto del corbezzolo, dipinge il nostro percorso con i suoi colori che sanno di giallo e di rosso. A bordo strada non sfugge ai gitanti la rigogliosa presenza della cicoria selvatica. Si esse potziu, n’aia arregortu una bertula (se avessi potuto ne avrei raccolto una bisaccia).

   Più avanti una grande vasca antincendio, anticipata nelle nostre immagini da grossi bocchettoni idraulici, ci riporta ancora alla configurazione di una ellisse. Questa figura in geometria analitica è presentata come il luogo dei punti del piano per i quali è costante la somma delle distanze da due punti fissi chiamati fuochi. Una persona, impegnata a percorrere il tracciato di bordo vasca confermerebbe a pieno titolo l’assunto della citata definizione.

   Non possiamo fare a meno, procedendo nel nostro percorso, di menzionare la singolare finestra panoramica che si affaccia da ovest ad est su buona parte dell’isola centrale. Non mi sfuggono in lontananza le vette più elevate del Gennargentu e le loro denominazioni. Si tratta di Punta La Marmora e della vicinissima Punta Paolina.

   Si ha l’impressione di vederle quasi ad una altimetria inferiore a quella in cui ci troviamoi ma è solo un’impressione ottica. Anche se Trebina longa, cima che sta sopra le nostre teste ad una altezza di 812 metri, registra un valore di tutto rispetto, è pur sempre debitrice verso il monte barbaricino di ben 1000 metri.

   La prima volta che feci visita al Gennargentu avevo quattordici anni. Correva l’anno 1953 e correva anche il caldo mese di agosto. Per poter assistere agli spettacoli offerti dall’alba e dall’aurora dovetti scalare il tratto che dal Rifugio del Re porta alla vetta durante le ore antelucane. Detto percorso ricoperto da imponenti ed insidiose lastre di schisto è denominato Su Sciusciu ossia La Discarica.

   Terminato il tortuoso percorso ad anello attorno alla montagna, si ha modo di risalire a bordo pullman e rientrare a Pau per una sosta compensatrice degli sforzi compiuti in mattinata.

   Nel pomeriggio siamo attesi al museo comunale dove, unitamente alle collezioni private di lavoratori dell’ossidiana vediamo esposte in vetrina interessanti varietà di minerali provenienti dai giacimenti del Monte Arci. La comprensione dei vari passaggi di carattere culturale è facilitata, come al solito, dalla disponibilità e capacità della attenta guida turistica. Una volta all’esterno ci troviamo in pieno centro dove una bella piazza movimentata da una elegante pavimentazione di tipo basaltico funge da anfiteatro ad un insieme in cui si affiancano, in senso quasi rotatorio, le facciate del museo, di una villetta con un curatissimo giardino, del ristorante che ci ha ospitato nel primo pomeriggio, di un’altra abitazione con posti a sedere sul davanti, della casa parrocchiale e della chiesetta. Detto luogo di culto si esprime con garbo e semplicità con un frontone corredato in alto da una piccola croce greca, con un rosone rappresentato solo per metà e con un portone che invita all’ingresso della messa vespertina. Di lato il campanile a vela, raggiungibile con il ricorso a due scale a chiocciola poste sul retro della struttura campanaria, si articola verso l’alto con una copertura di valenza baroccheggiante e con una croce simile alla precedente. Le due campane, di diversa dimensione e fattura, stanno in angusti abitacoli senza possibilità di comunicare tra loro. Mi vien quasi voglia di raggiungerle dal sagrato, che sta sotto di esse meno di sette od otto metri, ma preferisco fare una visita brevissima all’interno della pieve. Varcato il portone, senza procedere verso la zona che conduce al transetto ed al presbiterio, resto nella zona riservata alla bussola d’ingresso, posizione ideale per cogliere la semplicità e il buon gusto presentati dagli arredi delle varie cappelle e dalla composizione floreale dell’altare.

   Approfitto intanto, dopo le brevi esternazioni condotte sul tempio, per dedicare un pensiero all’Altissimo suffragato dalla promessa di essere presente domani in Oristano alla messa domenicale. Tengo a precisare in proposito che, nel corso della mia vita, non sono mai venuto meno, salvo casi di forza maggiore, a detto obbligo ecclesiastico settimanale. Rispettando detto impegno dei giorni festivi non faccio che saldare un debito di riconoscenza che ho verso mia madre, una vera credente. Non posso dimenticare, al riguardo, le immagini offerte dalla mamma mentre saliva in ginocchio ed in preghiera i ventotto scalini della Scala Santa, gradini che io, bambino di tre o quattro anni, superavo saltellando. Per queste mie irriverenze non venivo, data l’età, mai ripreso. Fui invece ammonito con toni accesi quando, più tardi, esattamente nel 1948, un anno prima che passasse a miglior vita, manifestai il proposito di non andare più a messa. Fu per me una lezione esemplare.

 

 

 

 

martedì 18 giugno 2024

Gita in Marmilla

 

Gita in Marmilla


L’Associazione Cinquanta & Più di Oristano ha ritenuto, con l’avvio delle prossime vacanze estive, di chiudere la stagione primaverile con una breve gita nel dipartimento oristanese della Marmilla. Le località definite nel programma sono Masullas, Pompu e Turri. Alle prime due sedi sono riservati i tracciati di maggior interesse culturale mentre alla terza è stato assegnato il compito di carattere gastronomico.

In particolare a Masullas, le guide locali si adopereranno per illustrare ai partecipanti le note più salienti sui vari ambiti della chiesa parrocchiale e del museo cittadino mentre a Pompu gli accompagnatori turistici saranno impegnati a presentare, in reparti distribuiti in diverse salette di un caseggiato a pian terreno, i vari processi della panificazione secondo le regole del passato.

Il dulcis in fundo sarà regolato a Turri nell’ampio salone di un ristorante adagiato nella natura incontaminata del suo territorio.

La partenza da Oristano è fissata per le otto e mezza mentre l’arrivo nella prima località è previsto intorno alle ore nove e un quarto. I partecipanti al raduno, nel numero di una ventina, troveranno comodamente posto nel pullman prescelto dagli organizzatori.  

Una volta giunti a Masullas, il gruppo dei gitanti si incammina a passo spedito verso l’abitazione di uno degli associati dove, nel piano terreno, verranno offerti aperitivi, pasticcini, e caffè. A questa sontuosa anteprima dedicata alla colazione farà seguito la visita alla vicina pieve, luogo di culto dedicato alla Beata Vergine delle Grazie.

Ed eccoci sul sagrato. Alle attente osservazioni della guida, che avrà il suo gran da fare nell’illustrazione degli esterni e degli interni della parrocchia, dovrò purtroppo rinunciare a causa di una sordità che non mi consente di recepire chiaramente le fila del discorso. Per giunta mi ritrovo orfano di entrambi gli auricolari e, fino a quando non saranno riparati, dovrò affidarmi a ciò che vedo ed a quanto può impressionarmi.

Mentre gli altri si trovano all’interno della chiesa, preferisco sostare sul suo piazzale per osservare con molta attenzione la singolare ed intrigante facciata ed il bianco campanile che la sovrasta dall’alto dei suoi trentasette metri.

Ho usato il termine singolare in quanto il frontone, normalmente rappresentato dalla superficie di un triangolo isoscele, assume la forma di in trapezio dove i lati obliqui somigliano al lato ascendente ed a quello discendente della lettera maiuscola Emme mentre la base minore funge da congiunzione tra i due vertici con un leggera curvatura verso l’asse mediano. Il credere che detta lettera, riscontrabile nello stile calligrafico denominato Rotondo, possa rappresentare l’iniziale del nome della Vergine Maria, è solo frutto della mia immaginazione.

Sono ricorso al termine intrigante per giustificare le difficoltà incontrate nella lettura dell’iscrizione incisa sopra il portone d’ingresso. Mi auguro comunque di essere riuscito a risolvere il quesito con la seguente traduzione:

QUESTA OPERA E’ STATA REALIZZATA DI PROPRIA INIZIATIVA DAL SIGNORE DON FRANCESCO MASONES NIN VESCOVO. 1694.  

Preciso che i cognomi dei genitori del vescovo della Diocesi di Ales-Usellus sono Masones e Nin.

Riporto intanto quanto risulta scritto nell’epigrafe:

HOC OPPUS LABORAVIT MP A DNO DONFRAN.co M. ET NIN. EPO.1694.

In forma corretta e sciolta si leggerebbe:

HOC OPUS LABORAVIT M(OTU) P(ROPRIO) A D(OMI)NO DON FRAN(CIS)CO M(ASONES) ET NIN. E(PISCO)PO. 1694.

Detta scritta, definita in caratteri lapidei lungo una sola linea orizzontale, risulta affiancata da una duplice coppia di colonne con i capitelli che sorreggono la base maggiore del timpano. Sulla linea mediana della facciata risultano in chiara evidenza il rosone e il trigramma di San Bernardino.

L’intera facciata, ad onore del vero molto bella, risponde alle regole dello stile barocco.

Quando i gitanti cominciano ad uscire dal tempio, colgo l’occasione per fare una brevissima visita agli interni dove concludo con veloci osservazioni sulle cappelle che si susseguono lungo la navata centrale. Archi a tutto sesto per la maggior parte di esse ed archi ogivali per le cappelle che guardano più da vicino il presbiterio. In alto a queste ultime si osservano volte a crociera con corpose chiavi di forma tronco conica.

Prima di chiudere con la visita alla chiesa parrocchiale tengo a precisare di non aver avuto alcuna difficoltà nel decifrare quanto definito nell’epigrafe citata per i seguenti motivi:

a)     In terra di Marmilla sono di casa. In particolare, nell’archivio storico della diocesi di Ales, con l’intenzione di ricostruire i passi più importanti della vita di Antonio Tore, un mio conterraneo tonarese vissuto tra gli ultimi decenni del Settecento e gli anni Quaranta dell’Ottocento, ho bivaccato per una trentina di sedute da sei ore ciascuna. Come religioso aveva svolto il suo ministero in diversi centri della Barbagia e, sempre in età giovanile, aveva assunto le mansioni di vicario generale nella diocesi di Oristano. Consacrato vescovo a Bosa fu incaricato di governare la diocesi di Ales dove prestò i suoi servizi per circa un decennio. In seguito fu trasferito a Cagliari per esercitare la delicata funzione di arcivescovo.

b)     Ad Oristano, mia residenza da lungo tempo, sempre inseguendo le orme dell’alto prelato, ho potuto utilizzare al meglio i registri della mia parrocchia tonarese che ora risultano depositati nell’Archivio Storico arborense. Per assolvere a questo faticoso compito ho impiegato un tempo superiore ai dieci anni.

c)      Forte dell’esperienza curata nei centri diocesani di Oristano, Ales e Cagliari, ritengo di non aver mai trovato eccessive difficoltà nell’esaminare i documenti di un passato che corre dalla fine del Cinquecento ad oggi. Porto un esempio che fa riferimento alla iscrizione posta sulla stele di una fonte tonarese e che ricalca in qualche passaggio l’epigrafe posta in risalto sulla facciata della chiesa masullese. In essa viene riferito che l’opera venne eseguita nel 1762 a merito del suo rettore e dei suoi tre viceparroci. In questo caso i Cinque libri mi vennero incontro con la conferma degli estremi anagrafici di tutti i religiosi citati nell’incisione.

Dopo aver reso visita alla parrocchia il gruppo si ricompone ed è pronto per indirizzarsi alla volta del vicino museo naturalistico. La maggior parte dei componenti trova il modo, durante il trasferimento, di concedersi una breve pausa nei pressi della casa colonica di Francesco, un signore che con molto garbo si presta a brevi interviste sulla tenuta agraria che fronteggia la sua abitazione. Tra noi e l’agricoltore insiste una recinzione che supera abbondantemente il metro e mezzo d’altezza e sulla quale qualcuno si distende con gli avambracci, dietro di lui in prima fila due ampi solchi di piantine di melanzana, in seconda fila i cetrioli, in terza le zucchine ed al termine la sua dimora.  Alla sua sinistra una catasta di legna d’ardere di olivastro e sparsi sul terreno strumenti del mestiere che sanno di cesoie, roncole, zappe, rastrelli e pompe per l’irrigazione. Non vedo piantine di pomodoro. Sono là in fondo, riferisce Francesco. Fra qualche settimana, il raccolto di dette primizie onorerà le mense dei buongustai. I fagiolini, intanto, hanno già fatto la loro apparizione in tavola da tempo.

Di solito uso sempre coltivare amicizie con contadini e falegnami. Dagli uni e dagli altri cerco sempre di carpire segreti sulle loro professioni. In questa occasione, sento il dovere di rinnovare il mio ricordo per Peppino, un coetaneo deceduto un semestre addietro. Due anni fa mi aveva regalato una penna modellata col tornio su legno di castagno e sulla quale aveva inciso le sue iniziali. Una opera d’arte, uno strumento che utilizzo con piacere nella stesura dei miei servizi.

Al museo naturalistico, ospitato nelle salette dell’ex convento dei Cappuccini, c’è tanto da apprendere intorno alla vasta e documentata esposizione di minerali. Molti di essi sono presentati sia sotto l’aspetto compositivo che cristallografico. I reperti recuperati principalmente nella zona del Monte Arci fanno riferimento alle eruzioni vulcaniche del passato. L’ossidiana, minerale ad alto contenuto di silicio, non può mancare in bacheca. E’ notorio che la crosta terrestre del nostro pianeta, qualificata con l’acronimo SIAL, va ad   accogliere come elementi il silicio e l’alluminio. Per gli strati che portano al centro della terra, non interessati quindi ai movimenti teutonici, valgono invece le definizioni SIMA E NIFE (Silicio, Magnesio, Nichelio e Ferro).

Tra le sostanze calcaree è in esposizione la calcite, un sale minerale i cui elementi sono il carbonio, il calcio e l’ossigeno.  Le guide al seguito si fanno apprezzare per l’esposizione dei loro argomenti e per le risposte ai quesiti dei visitatori.  

Con un certo sforzo riesco ancora a coniugare la lettura di ciò che maggiormente interessa le mie attenzioni con i lineamenti scolatici legati allo studio della chimica. Ossidi ed idrati vanno d’accordo con i metalli mentre le anidridi e gli acidi convivono con i metalloidi. Il termine di congiunzione finale è dato dai sali. Ed in questo museo non si parla d’altro che di sali minerali,

Pompu, paese di duecentoventi anime, è la seconda tappa del nostro excursus mattiniero. Per arrivarci bisogna inseguire vaste distese collinari, ben ormeggiate da piantagioni di ulivo ed olivastro, che si susseguono a perdita d’occhio con sequenze rettangolari nelle aree curate dalla mano dell’uomo e in ordine sparso e diseguale nelle superfici orfane dell’apporto umano.

Molto interessante la visita condotta sui diversi tipi di panificazione elaborati secondo le regole del passato. Il tutto viene presentato nei reparti allestiti nei locali di un edificio comunale.

Naturalmente si fa riferimento ai tempi in cui la macinazione del grano veniva attuata con il concorso dell’asino, il quale, operando attorno alla mola con cerchi concentrici, favoriva la rotazione del palmento intorno alla base fissa del mulino. Con molta sincerità devo ammettere di non aver mai assistito alle operazioni governate dall’animale. Eppure il contributo del paziente quadrupede è stato determinante anche nel sollevamento dell’acqua dai pozzi. Le norie del passato hanno ceduto il passo alle pompe idrauliche del presente.

A Samugheo, in località Ponte Ecciu, avevo presenziato, una ventina di anni fa, alla macinazione del grano operata con i palmenti fatti ruotare dall’acqua del fiume.

Il mio paese, con l’utilizzo dell’energia elettrica datata 1925, ha dovuto fare a meno dei mulini ad acqua già dall’inizio degli anni Trenta. In quegli anni nella mia abitazione di Via Vittorio Emanuele venne impiantato un mulino elettrico che successivamente, verso gli inizi degli anni Quaranta, fu dislocato nella casa dei Garau in Sa Discarriga, Devo precisare che mia madre, prima del 1936, anno in cui convolò a nozze, aveva prestato il suo servizio nell’arte molitoria come mugnaia.

Un ultimo appuntamento è riservato all’immagine fotografica di un nuraghe quadrilobato esistente ai confini del paese. Santu Miale è il nome che gli è stato assegnato ab illo tempore. Miale sta per Michele e Mialita per Michela. Così risulta dai registri parrocchiali tonaresi di inizio Seicento.

L’ultima tappa si consuma in un ristorante di Turri. La capienza del salone può ospitare comodamente sino a cento commensali. Nulla da eccepire sulla celerità dei servizi e sulla bontà delle bevande e delle cibarie. Ad ogni inserviente ai tavoli ho riservato il termine di Achillide, ossia Piè veloce Achille. E’ questo un neologismo che vale più di un complimento.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

giovedì 13 giugno 2024

Masullas

 

Masullas    

Iscrizione sul frontone della chiesa parrocchiale

Trattando a grandi linee della chiesa parrocchiale di Masullas, mi sento in dovere di partecipare ai suoi fedeli frequentatori che la progettazione e la costruzione dell’edificio di culto vennero portate a termine nel 1694 a merito del cagliaritano Francesco Masones Nin, vescovo della Diocesi di Ales – Usellus.

Sul frontone, appena al disopra del portone d’ingresso ma sotto il trigramma di San Bernardino, risulta bene evidenziata la seguente iscrizione:

HOC OPPUS LABORAVIT MP A DNO DONFRAN.co. M. ET NIN EPO. 1694.

Presentando il tutto in forma sciolta e più corretta si otterranno le seguenti conclusioni: HOC OPUS LABORAVIT M(OTU) P(ROPRIO) A D(OMI)NO DON FRAN(CIS)co M(ASONES) ET NIN E(PISCO)PO. 1694.

Qui di seguito la mia costruzione letterale in italiano:

QUESTA OPERA E’ STATA REALIZZATA DI PROPRIA INIZIATIVA DAL SIGNORE DON FRANCESCO MASONES NIN  VESCOVO. 1694.

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Mi riservo di coniugare il riscontro di questo modesto contributo con la pubblicazione a più ampio respiro del resoconto della gita consumata domenica scorsa nel dipartimento della Marmilla.

Oristano, 12 giugno 2024

Giovanni Mura

giovedì 30 maggio 2024

Nuraghe Losa

 

Parco di Santa Cristina e villaggio di Nuraghe Losa

 

E’ da diversi anni che faccio parte dell’Associazione 50 & Più di Oristano. Detto Ente, con sede principale in Roma ma con ramificazione capillare in tutta Italia, si prefigge lo scopo di promuovere gli aspetti culturali e ricreativi di quanti hanno superato i cinquanta anni di età.

E’ ovvio che i tracciati definiti nei programmi relativi alle gite domenicali o ai più impegnativi viaggi oltre mare non possono non tenere conto delle prestazioni di carattere gastronomico. E’ immancabile dunque il riferimento alle voci dettagliate del menù.

Questa possibilità di coniugare gli obiettivi culturali con quelli decantati dalle ricche e sontuose tavolate mi è stata offerta nello scorso mese con la partecipazione alla visita dei siti archeologici di Santa Cristina e di Nuraghe Losa nei territori di Paulilatino e di Abbasanta.

Le bevande e cibarie ed il dulcis in fundo sono stati curati in un tipico ristorante della campagna norbellese. 

Per ciò che concerne le manifestazioni di carattere culturale devo rifarmi a quanto avvenuto domenica 28 aprile durante la mattinata e nelle ore successive.

Quanti mi hanno preceduto nello scendere dal pullman, parcheggiato a brevissima distanza dall’ingresso al sito archeologico, si ritrovano ora in prima fila, a ridosso del lungo bancone del bar, ad attendere alle loro consumazioni. Ai ritardatari sono riservate le seconde e terze file. E’ questa la mia prima lettura sui quaranta partecipanti alla gita.

Di solito, alle lungaggini di queste soste al buffet, preferisco soprassedere e, in questa occasione, preferisco incamminarmi a passo lento lungo una discesa che porta alla chiesetta campestre di Santa Cristina, luogo di culto dove è previsto l’incontro con la guida locale. Tanto alla sinistra quanto alla destra di questo breve percorso si succedono decine di curiose casette edificate con materiale vulcanico e tanta malta. Alla stessa tonalità scura delle pietre basaltiche si associano anche i serramenti delle aperture. Queste costruzioni, con la loro disposizione a semicerchio, sembrano omaggiare i numerosi turisti di passaggio, ignari questi ultimi che il senso della vera accoglienza sarà tributato a chicchessia durante i nove giorni che precedono la festa religiosa. Solo in questo lasso di tempo regolato dal novenario sarà possibile ammirare e sbirciare attraverso gli usci e le altre piccole vedute gli interni di queste piccole abitazoni, definite nel tempo con i termini di cumbessias o anche di muristenes.

La chiesa, disposta in fondo alla breve discesa e raccolta in un ampio piazzale, vanta origini antichissime.  Le fonti storiche riferiscono che l’edificazione è stata curata dai frati camaldolesi intorno al Mille e Duecento.

I muristenes sono sorti molto dopo, ma non prima del 1582. A questa definizione temporale sono pervenuto rifacendomi alla pastorale dell’arcivescovo Francesco Figo, il quale, nel paragrafo relativo al comportamento tenuto dai fedeli nelle chiese campestri ordina quanto segue:

In is deplus cresias campestras quj de una milla ajnantj antj a jstarj de su pobladu aundj particularis devotionis multus accudintj decretaus et ordinaus e ais preditus beneficiadus rectoris curadus et oberaius cumandaus quj jn ditas jsglesias no bolanta premjtirj ni p(er)mjtanta (nel testo pmjtanta) quj nixunu homjnj de doxj anus jnsusu apustj sa posta de su solu fina asa exida (dal tramonto del sole sino all’alba) no apanta a jstarj njn dormjrj jn cuddas cresias.

Il documento in oggetto risulta catalogato nell’Archivio storico diocesano di Oristano alla voce Gesturi (Quinque Libri).

La costruzione di dette cumbessias non poté quindi avvenire nelle comunità arborensi che in tempi successivi alla data di emanazione del citato decreto. Nella pastorale, che nei vari passaggi fa anche riferimento ai dettami del Concilio Tridentino, è espressamente ordinato il divieto d’ingresso in dette chiese di campagna, durante le ore notturne, a tutti i maschi di età superiore ai dodici anni. Penso che, a seguito di detta ordinanza, qualcuno dei fedeli abbia optato per l’edificazione dei primi alloggi nelle vicinanze dei santuari campestri.

Dagli interni della chiesetta, dove, unitamente agli altri partecipanti, ho potuto seguire le interessanti e convincenti relazioni della guida si esce nuovamente all’aperto per procedere, in un ambiente mozzafiato curato egregiamente da madre natura, su tracciati che superano di migliaia di anni i tempi fissati dal calendario cristiano. La penombra riservata al visitatore dalla rigogliosa vegetazione di ulivi ultrasecolari crea la giusta atmosfera per favorire al meglio un appagante ingresso nella civiltà nuragica.

Si inizia con la visita ad un piccolo nuraghe che, a detta della guida, assume particolare importanza per le segnalazioni che, in coincidenza delle ricorrenze annuali dei solstizi e degli equinozi, rilascia dal punto di vista astronomico.

Si prosegue, a brevissima distanza, con l’ispezione al pozzo sacro. In questo sito è possibile verificare, in tempo di lunistizio, fatto che si verifica ogni diciotto anni e mezzo, 18,6 per esattezza, che il fascio di luce lunare si riflette verticalmente nello specchio d’acqua in fondo al pozzo dopo aver superato l’unica imboccatura di superficie del diametro di appena ventisette centimetri. Per una migliore comprensione preciso che la luna, l’orifizio esterno e la pozza d’acqua si dispongono lungo un fascio luminoso una sola volta ogni ventennio. L’appuntamento è per il prossimo anno. E se la giornata è nuvolosa? E’ quel che mi preoccupa di più, risponde la guida.

Dopo i doverosi ringraziamenti all’accompagnatore, che con competenza e maestria è riuscito, anche avvalendosi delle videate del suo portatile, a curare al meglio la descrizione dei siti incontrati, si ritorna con molta calma al mezzo di servizio che in brevissimo tempo ci condurrà al villaggio di Nuraghe Losa.

La sosta temporanea del pullman nel piazzale antistante il nuraghe mi consente, data la mia decisione affrettata e sofferta di non effettuare, per motivi precauzionali, alcuna visita all’interno del villaggio, di fare un breve resoconto delle osservazioni condotte dalla mia postazione a bordo macchina.

Intorno a me la visuale sull’immenso anfiteatro naturale che mi circonda è completamente libera in ogni settore.

Di fronte, a distanza di un centinaio di metri, si estende una lunga ed alta recinzione di massi basaltici che mi impedisce di vedere le costruzioni circolari innescate alla base della grande struttura.

Alla mia sinistra non vedo nulla di particolare ad eccezione di due strade asfaltate che si inseguono per breve tratto salvo svoltare chissà dove e scomparire nel nulla. Una di queste è denominata Curva di Nuraghe Losa, via di comunicazione sulla quale mi intratterrò al termine della mia esposizione.

Alla mia destra una campagna verdeggiante che in lontananza sembra abbracciare vari centri abitati del Marghine per i quali la visuale mi garantisce le possibili coordinate ma non i rispettivi confini territoriali.

Di spalle, la folta vegetazione delle piante ghiandifere e certi dislivelli di tipo altimetrico mi impediscono di osservare la grande distesa d’acqua  del Lago Omodeo che, con solennità sembra governare, col supporto della diga, i contenuti idrici del suo bacino. Il corso d’acqua che al termine del suo tragitto promuove l’immenso invaso, della capacità di circa ottocento milioni di metri cubi, funge da linea divisoria tra i territori del Guilcier e del Mandrolisai, distretti nei quali sono osservabili le caratteristiche cumbessias di San Serafino alle porte di Ghilarza e quelle di San Mauro tra Ortueri e Sorgono. Disposizione a semicerchio per le prime e successione “in duplice filar” per le seconde.

Fungono da cornice a questo interessante quadrante le vette più elevate della nostra isola. Su Punta Paolina e su Punta La Marmora, i miei scarponi di settantanni addietro avevano calcato le loro orme.

Ma ritorniamo al quadrante che interessa maggiormente il nostro viaggio.

Quanti hanno modo di osservare attentamente in cartolina o nelle riviste specializzate i lineamenti del nuraghe trilobato non possono disattendere la mia informazione visiva che lo paragona ad una scarpa a doppio plantare, dell’altezza di un ventina di metri, e a tre scatole di lucido che si elevano dal terreno di poche spanne. Il primo articolo di calzatura varrebbe per la struttura tronco conica mentre il secondo per le costruzioni circolari.

Galoppando con la fantasia tento di immaginare quale dimensione potrebbe avere il personaggio mitologico incaricato di calzare quella scarpa. Il ricorso allo studio delle proporzioni potrebbe assegnare a detta figura un’altezza di circa duecento metri, dimensione questa di gran lunga inferiore alle super altezze delle maxi torri eoliche dei giorni nostri. Mi sto riferendo a quei mostri d’acciaio che nell’assemblaggio di piloni, rotori e pale ci consegneranno con le loro evoluzioni un cielo rigato a quadretti. Il dio dei venti incontrerebbe certamente delle difficoltà a supportare le grandi pretese energetiche di un parco eolico distribuito a dismisura nella nostra isola.

Doveroso in chiusura ricordare quanto avvenne di tragico, in una notte primaverile della seconda metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, nell’abbordare in macchina la fatidica curva che porta “chissà dove”. Tre ragazzi di Oristano persero la vita durante il rientro da Macomer alla loro città. Uno di questi era stato un mio compagno di scuola nel capoluogo del Marghine. La morte bianca, aveva teso l’agguato proprio nei pressi del villaggio nuragico. Per ironia della sorte, la circolazione in Sardegna delle macchine private, in quei tempi, era molto ridotta. I rivenditori di torrone di Tonara, si servivano ancora per i lunghi viaggi di carretta e cavallo.

Giovanni Mura

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Parco di Santa Cristina

e

Villaggio di Nuraghe Losa

 

 

 

 

 

 

 

 

Con

le attenzioni dell’Associazione Cinquanta & Più di Oristano