Il Monte Arci è rappresentato nella Sardegna
centrale da una vasta area che funge da cuscinetto tra il Campidano di Oristano
e l’Alta Marmilla.
Seguendo le indicazioni della guida
turistica, che da bordo pullman ci fornisce interessanti anticipazioni sui punti
di maggior rilievo di detta regione, apprendiamo che il sito in oggetto ha una forma
ellittica con gli assi maggiore e minore rispettivamente di quattordici e sette
chilometri, con direzione nord-sud per il primo di essi ed ovest-est per il
secondo.
Preciso intanto che per ellisse si intende
una figura geometrica di forma ovale. Si potrebbe, ricorrendo all’utilizzo di
uno spago della lunghezza di una ventina di centimetri e di una penna,
riprodurre su un foglio di carta il grafico in questione. Per ottenere il
disegno è necessario servirsi di ambo le mani. I polpastrelli del pollice e dell’indice
del braccio sinistro, distanziati di un una decina di centimetri, eserciteranno
una leggera pressione sui capi terminali del filo mentre quelli della mano
sinistra trascineranno, facendo una certa tensione sullo spago, la punta
scrivente verso un tracciato raffigurante una mezza ellisse. Per completare il
disegno occorrerà eseguire il procedimento inverso e cioè operando sui
terminali del cavetto, con i polpastrelli del braccio destro, e sulla penna,
con quelli della mano sinistra. Un esempio pratico e veloce può essere fornito
dal taglio di una pera in due parti delle quali una di esse deve contenere il
picciolo. Si ottengono in tal modo due ellissi uguali.
Del territorio, di cui abbiamo inquadrato
con molta approssimazione i suoi contorni, la nostra guida si intrattiene a
presentare i maggiori eventi che hanno caratterizzato in passato la sua storia.
Riferisce, in proposito, di eruzioni vulcaniche, di versamenti lavici e dei
singolari materiali formatisi sul terreno a seguito del raffreddamento del
magma. In particolare si sofferma a trattare dell’ossidiana, un prodotto
esclusivo di questa montagna e di pochissimi altri siti del nostro pianeta ma,
prima di inseguire detto argomento, mi permetto, facendo riferimento a quanto
appreso a scuola, di avanzare la seguente considerazione di carattere
vulcanologico. E’ mia presunzione infatti, tenuto presente che il raggio terrestre,
calcolato in seimila chilometri, incontra in successione, gli strati di materia
a base di silicio e alluminio per il primo grado di discesa, silicio e magnesio
per il secondo e nichelio e ferro per il terzo, che l’azione eruttiva si
manifesti unicamente lungo la fascia aderente alla crosta terrestre. Di queste
forti scosse implosive ha risentito anche il nostro monte con bocche da fuoco
poste in località Trebina longa, la più alta vetta del massiccio, Trebina lada e
Su Corongiu de Sizoa, terzetto altimetrico ordinato sul terreno dalla forma di un
treppiede.
Alla valida esposizione della guida di bordo
farà seguito, una volta giunti a destinazione, il dettagliato racconto di colei
che ci accompagnerà, in mattinata, nel percorso ad anello lungo il tracciato
delle coltivazioni dell’ossidiana e, nel pomeriggio, nella visita alle varie
sale del museo di Pau, il piccolo borgo situato alla fine di una corsa che, nel
programma del nostro viaggio, ha interessato i centri di Oristano, Silì,
Simaxis, Usellus e Villaverde.
Alla presunta fermata in paese si preferisce,
con il beneplacito dei gitanti e degli organizzatori, procedere sino al punto
più basso della vicina montagna, luogo che offre la possibilità, prima di dare
inizio alla escursione naturalistica nel fitto bosco, di apprendere dalla viva
voce della guida locale una lezione sull’ossidiana.
L’officina del passato si presenta ai nostri
occhi e alla nostra curiosità con una parete incastonata dagli scarti di lavorazione
operati dai nostri predecessori del Neolitico, ossia del periodo che corre dal
Seimila al Duemila avanti Cristo. Detti resti erano ottenuti dalla
sfaccettatura di piccoli blocchi di ossidiana, operazione questa che permetteva
di ottenere scaglie e strumenti di raschiamento da esitare commercialmente
nell’area mediterranea. I nostri antenati riuscivano ad inseguire i loro programmi
di lavorazione facendo ricorso a materiali con un maggiore grado di durezza ed
agendo sui punti di maggior fragilità del materiale da scalfire.
Il pezzo informe che ci viene mostrato, di
un colore di intenso nero, assume la grandezza di un peperone. Ad occhio nudo
si possono intravedere le numerose scaglie che si susseguono e si sovrappongono
le une con le altre come le brattee ossia le foglie verdi viola di un carciofo
o anche le squame di una pigna. Dell’operazione relativa alla sfaccettatura riusciremo
ad avere. in un filmato curato dal locale museo, una buona conferma delle
procedure eseguite in illo tempore. Sempre trattando di questo vetro
purissimo ad altissimo contenuto di silicio, la guida riferisce, in chiusura, che
il medesimo ha un grado di durezza che si oppone alla scalfittura operata da
materiali più deboli. Nella scala di Mohs, l’ossidiana, al contrario del
diamante che si porta a 10, il valore più elevato, è registrata con il valore
cinque.
Inseguendo il percorso che porta su in
montagna non possiamo fare a meno di fare menzione di quanto spettacolo è
offerto dalla natura di questi luoghi. Si cammina in salita per qualche
chilometro inseguendo corsie tappezzate da piccoli frammenti di ossidiana e
rigate in lungo ed in largo dal passaggio di famelici suini alla ricerca di
ghiande, il loro cibo prelibato.
Stiamo attraversando un bosco fitto di
piante di rovere, leccio, sughero, corbezzolo e di qualche arbusto di erica
scoparia. Nel dialetto del mio paese, dove la vegetazione ricalca per sommi
capi quella del centro che ci ospita, si ricorre alla terminologia dei creccos,
iliges, suergios, illiones e framiu. Su cheleisone, ossia il frutto
del corbezzolo, dipinge il nostro percorso con i suoi colori che sanno di
giallo e di rosso. A bordo strada non sfugge ai gitanti la rigogliosa presenza
della cicoria selvatica. Si esse potziu, n’aia arregortu una bertula (se
avessi potuto ne avrei raccolto una bisaccia).
Più avanti una grande vasca antincendio,
anticipata nelle nostre immagini da grossi bocchettoni idraulici, ci riporta
ancora alla configurazione di una ellisse. Questa figura in geometria analitica
è presentata come il luogo dei punti del piano per i quali è costante la
somma delle distanze da due punti fissi chiamati fuochi. Una persona,
impegnata a percorrere il tracciato di bordo vasca confermerebbe a pieno titolo
l’assunto della citata definizione.
Non possiamo fare a meno, procedendo nel
nostro percorso, di menzionare la singolare finestra panoramica che si affaccia
da ovest ad est su buona parte dell’isola centrale. Non mi sfuggono in
lontananza le vette più elevate del Gennargentu e le loro denominazioni. Si
tratta di Punta La Marmora e della vicinissima Punta Paolina.
Si ha l’impressione di vederle quasi ad una
altimetria inferiore a quella in cui ci troviamoi ma è solo un’impressione
ottica. Anche se Trebina longa, cima che sta sopra le nostre teste ad una
altezza di 812 metri, registra un valore di tutto rispetto, è pur sempre debitrice
verso il monte barbaricino di ben 1000 metri.
La prima volta che feci visita al
Gennargentu avevo quattordici anni. Correva l’anno 1953 e correva anche il caldo
mese di agosto. Per poter assistere agli spettacoli offerti dall’alba e
dall’aurora dovetti scalare il tratto che dal Rifugio del Re porta alla vetta
durante le ore antelucane. Detto percorso ricoperto da imponenti ed insidiose
lastre di schisto è denominato Su Sciusciu ossia La Discarica.
Terminato il tortuoso percorso ad anello attorno
alla montagna, si ha modo di risalire a bordo pullman e rientrare a Pau per una
sosta compensatrice degli sforzi compiuti in mattinata.
Nel pomeriggio siamo attesi al museo
comunale dove, unitamente alle collezioni private di lavoratori dell’ossidiana
vediamo esposte in vetrina interessanti varietà di minerali provenienti dai giacimenti
del Monte Arci. La comprensione dei vari passaggi di carattere culturale è
facilitata, come al solito, dalla disponibilità e capacità della attenta guida
turistica. Una volta all’esterno ci troviamo in pieno centro dove una bella piazza
movimentata da una elegante pavimentazione di tipo basaltico funge da
anfiteatro ad un insieme in cui si affiancano, in senso quasi rotatorio, le
facciate del museo, di una villetta con un curatissimo giardino, del ristorante
che ci ha ospitato nel primo pomeriggio, di un’altra abitazione con posti a
sedere sul davanti, della casa parrocchiale e della chiesetta. Detto luogo di
culto si esprime con garbo e semplicità con un frontone corredato in alto da
una piccola croce greca, con un rosone rappresentato solo per metà e con un portone
che invita all’ingresso della messa vespertina. Di lato il campanile a vela, raggiungibile
con il ricorso a due scale a chiocciola poste sul retro della struttura campanaria,
si articola verso l’alto con una copertura di valenza baroccheggiante e con una
croce simile alla precedente. Le due campane, di diversa dimensione e fattura,
stanno in angusti abitacoli senza possibilità di comunicare tra loro. Mi vien
quasi voglia di raggiungerle dal sagrato, che sta sotto di esse meno di sette
od otto metri, ma preferisco fare una visita brevissima all’interno della
pieve. Varcato il portone, senza procedere verso la zona che conduce al
transetto ed al presbiterio, resto nella zona riservata alla bussola d’ingresso,
posizione ideale per cogliere la semplicità e il buon gusto presentati dagli
arredi delle varie cappelle e dalla composizione floreale dell’altare.
Approfitto intanto, dopo le brevi esternazioni
condotte sul tempio, per dedicare un pensiero all’Altissimo suffragato dalla
promessa di essere presente domani in Oristano alla messa domenicale. Tengo a
precisare in proposito che, nel corso della mia vita, non sono mai venuto meno,
salvo casi di forza maggiore, a detto obbligo ecclesiastico settimanale. Rispettando
detto impegno dei giorni festivi non faccio che saldare un debito di riconoscenza
che ho verso mia madre, una vera credente. Non posso dimenticare, al riguardo,
le immagini offerte dalla mamma mentre saliva in ginocchio ed in preghiera i
ventotto scalini della Scala Santa, gradini che io, bambino di tre o quattro
anni, superavo saltellando. Per queste mie irriverenze non venivo, data l’età,
mai ripreso. Fui invece ammonito con toni accesi quando, più tardi, esattamente
nel 1948, un anno prima che passasse a miglior vita, manifestai il proposito di
non andare più a messa. Fu per me una lezione esemplare.