Giovanni Mura
Viaggio in Puglia e Basilicata
Sassi materani e tonaresi a confronto
Castellaneta marina e l’albero del
pepe
Da oggi 12 settembre 2021 e sino
al giorno ventuno sono ospite, grazie al gentile invito rivoltomi dalla Sezione
50 & Più di Oristano, del Villaggio turistico Blu Serena di
Castellaneta Marina in provincia di Taranto.
Il programma prevede, con
partenza e rientro in detta località, brevi escursioni a Matera, Alberobello,
Lecce, Gravina di Grottaglie, Castellana, Martina Franca, Locorotondo e Ostuni.
Saranno dedicate al riposo le giornate di lunedì 13 e 20 del citato mese.
Si tratterà di percorrere con il
pullman, tra andata e ritorno, una media di 200 chilometri al giorno, eccezione
fatta per la gita nel capoluogo del Salento, per la quale i tempi di
percorrenza risulteranno raddoppiati.
Le soste nei centri da visitare
saranno molto limitate e ciò per conciliare il rientro al centro base per l’ora
di pranzo.
In anteprima, è necessario
precisare che la Puglia poggia su un territorio decisamente pianeggiante. La
sua forma geometrica, approssimativamente simile a quella di un rettangolo,
presenta le dimensioni di quattrocento settantacinque chilometri per la
lunghezza e una quarantina per la larghezza. La Sardegna e la Corsica, con
riferimento alla prima dimensione, esprimono un risultato decisamente
inferiore.
Al fine di offrire al lettore
una più puntuale rappresentazione geografica delle province pugliesi lungo la
direzione Nord-Sud, mi sia consentito di configurare la regione come un immenso
campo di ping-pong dove i giocatori Tizio e Caio, posizionati rispettivamente
nei dintorni del Gargano, al confine con il Molise, e nei pressi di Santa Maria
di Leuca, all’estremità dello stivale, fungono, ad inizio partita, da battitore
libero e da ricevitore. Sempronio, giudice di linea, si sistemerà nei pressi di
Matera, provincia della Basilicata ai confini con la Puglia. La retina che
divide i due semi campi da gioco passerà per i centri di Castellaneta e della
città lucana.
Durante le fasi di gioco operate
in questo Tavoliere, per l’occasione allungato sino agli estremi limiti della
regione Puglia, i lettori di Pratza manna, nelle vesti di spettatori,
potranno vedere rimbalzare la pallina di ping-pong sia sulle province
settentrionali di Foggia, Barletta e Bari che su quelle meridionali di
Brindisi, Taranto e Lecce. Per una migliore rappresentazione nel territorio di
detti capoluoghi preciso che le rispettive latitudini, ossia le distanze in
gradi dall’Equatore, sono le seguenti: Foggia 41°28’, Barletta 41°19’, Bari
41°8’, Brindisi 40°38’, Taranto 40°24’ e Lecce 40°21’. Raffrontando questi dati
con quelli della Sardegna, la mia isola, rilevo che Cagliari con i suoi 39° e
13’ ha una latitudine inferiore a quella di Santa Maria di Leuca (39°47’),
Oristano con 39°e 54’ è equidistante in gradi tanto da Santa Maria di Leuca
quanto da Lecce mentre Sassari con i suoi 40°e 23’ staziona tra le posizioni di
Brindisi e Bari. Da Foggia rileviamo che la sua latitudine è quasi pari a
quella della città corsa di Aiaccio. Strano, ma vero!
Lungo la ideale retina del campo
da gioco operano attivamente i castellani, ossia i residenti di Castellaneta e
della sua borgata marina, centri distanti l’uno dall’altro una quindicina di
chilometri. Io, nelle vesti di viaggiatore stanco e impigrito per via di un’età
sempre più distante dai 50 & più ma più vicina ai 100 meno,
mi trovo in uno dei quattro villaggi turistici del gruppo Blu Serena.
Oggi, lunedì 13, è una giornata
da dedicare al riordino in camera della valigia e del bagaglio a mano, alla
conoscenza dei vari punti di trattenimento offerti dalla accoglienza e
soprattutto al riposo. Approfitto intanto, in mattinata, di concedermi una
lunga pausa sotto l’ampia veranda che di fronte a me indirizza al bar, di
fianco sulla sinistra al palcoscenico, di spalle al ristorante e dall’altro
lato ad una costruzione in cemento armato di color caffè che, nella parte
superiore, somiglia alla prua o alla poppa di un mercantile di stazza media. La
struttura, sorretta da possenti pilastri che si elevano dalla base
obliquamente, offre all’insieme un bel primo piano. Direi un primissimo piano
se consideriamo il bel tondo realizzato nella parte più elevata della
carenatura, l’intenso abbraccio dei rampicanti e l’eleganza offerta dagli
alberi del pepe e dalle basse recinzioni curate in prevalenza da piante di
gelsomino e mirto.
Prima di accomodarmi nel punto
di maggior ritrovo della clientela ho sostato brevemente negli uffici della
reception, per il rilascio della carta prepagata per i servizi al bar, e
nell’ampia hall, per una breve richiesta di informazioni ad una persona che di
mestiere fa l’intrattenitore. Poltrone bellissime ma un po’ scomode. Più
appaganti quelle messe a disposizione nel piano inferiore.
Nella postazione sotto la
veranda sono in tanti a godere dei benefici del dolce far niente. Alcuni
operano in solitario, altri discutono con gli amici ma numerosi sono coloro che
si sfidano giocando a Burraco. Io mi diverto ogni tanto a conversare con chi mi
capita ma senza mai cadere nel tranello dei discorsi impegnati. La mente ha
sempre bisogno di concedersi il giusto riposo ed io sono qui per questo. Le
uniche mie preoccupazioni sono quelle legate alla buona custodia di tutti i
documenti ed effetti personali quali la carta d’identità, la tessera sanitaria,
il green pass, la chiave dell’alloggio in formato carta magnetizzata, la carta
prepagata, il biglietto di viaggio per il ritorno, il cellulare, i soldi e le
medicine. Quando qualcuno di questi elementi non risponde all’appello comincio
ad agitarmi e ad annaspare sino al momento in cui l’esito positivo dato dalle
pronte verifiche condotte su tutte le tasche del mio gilet non mi restituirà la
tranquillità perduta.
Stando nella mia postazione
faccio difficoltà a capire in che direzione si trovi la spiaggia. Disponendo di
una bussola risolverei il tutto in un attimo. Potrei anche interrogare il mio
cellulare sui punti cardinali come anche potrei chiedere informazioni più
precise ad uno dei camerieri che fanno servizio ai tavolini. Vedrò il da farsi
più avanti.
Tra i compitini della mattinata
rientra la visita alla parte cava del mercantile dalle tinte color caffè, cioè
all’interno del bastimento al disopra delle nostre teste, struttura che il
presentatore addetto all’accoglienza ha definito con il termine di anfiteatro.
Per inquadrare la geometria del
villaggio e documentare al meglio i punti più salienti dell’insieme dovrò
assentarmi per pochi minuti dalla mia postazione.
Dietro il bancone del bar si
configura un piccolo spazio sul quale gli addetti al piano e
all’intrattenimento allietano le lunghe serate della clientela. Appena oltre si
intravvede, tra il verde di una vegetazione molto curata e ricercata, una
grande piscina caratterizzata nel centro da un dispositivo a fungo che alimenta
incessantemente con acqua di mare l’invaso. Tutt’intorno all’impianto idrico
scorre una piccola striscia riservata all’entrata e all’uscita dei bagnanti, al
bagnino con la maglia rossa e all’istruttore che da bordo vasca mima gli
esercizi ginnici da eseguire per chi si trova in acqua.
Oltre lo spazio riservato al
bagnasciuga sono ben definite, in spazi concentrici alla piscina, una seconda
corona circolare, sulla quale sono adagiati sedie a sdraio, lettini e
ombrelloni, ed una terza che ospita gli alberi del pepe, pepe rosa per
esattezza. Queste singolari piante assomigliano tanto ai salici per le foglie
pennate e pendule. L’infiorescenza è a grappolo ed i piccolissimi acini sono i
frutti del pepe. Chiude il cerchio della zona acquatica una bassa ma fitta
recinzione di arbusti di mirto e gelsomino. Oltre il recintato, ma a breve
distanza, si intravvede la lunga schiera degli appartamenti riservati agli
ospiti. Sono in tutto 243 e vanno ad occupare i 180 gradi dell’intera area. Gli
altri 180 fanno capo alle sale impegnate nella ristorazione, alle cucine, ai
locali riservati alle diverse attività logistiche, alla hall e alla reception.
Posso stimare che l’intera struttura abitativa, con esclusione dei vari campi
da gioco che insistono attorno, può insistere, per il tracciato che corre dal
fungo della piscina sino all’estremo limite di ciascun appartamento, su di un
raggio di centocinquanta metri.
Mi riferiscono, mentre faccio
ritorno al punto di ritrovo che d’ora in poi chiamerò anche punto K, che dal
villaggio appena descritto a grandi linee, si può accedere a piedi oppure con
il trenino con le ruote gommate agli altri villaggi del gruppo societario Blu
Serena. Al Valentino, struttura pentastellata, riservata alla clientela dal
portafoglio a più cifre, cercherò di fare una breve visita a giorni. Con la
carta prepagata potrò permettermi il lusso di ordinare al bar un aperitivo o un
digestivo.
Le ore della giornata più appetibili
per una sosta nella veranda sono soprattutto quelle del dopo cena e della
mattinata quando non sono previste escursioni a lungo raggio.
Quanto sia distante il mare da
questa residenza estiva non lo so anche se qualcuno che vi è stato ha riferito
che il tempo per arrivarci col trenino del villaggio si aggira sui dieci minuti
e che vale la pena andarci. Lungo il tracciato, precisa una addetta al bar, si
incontrano diverse borgate. La spiaggia, ben ordinata in diverse e lunghe file
di sdraio e ombrelloni, non ha nulla da invidiare ai più bei litorali
dell’Adriatico. Ci andrò se mi si presenterà l’occasione. La curiosità che si
prova quando si va incontro a piccoli nuclei abitativi lungo percorsi poco
frequentati dai mezzi di trasporto è molto intrigante. Non posso dimenticare le
emozioni provate ad Ovaro, paese della Carnia, quando per la prima volta
visitai alcuni dei quattordici rioni incastonati sulla montagna alle falde
dello Zoncolan. So di essere stato a Muina, Chialina, Liaris e Mione. Paesaggi
pittoreschi, addirittura fiabeschi. Quando vi ritornerò visiterò tutti gli
altri. Si ripeteranno le stesse emozioni ed impressioni nel percorso che porta
alla spiaggia di Castellaneta?
Intanto, qualcuno mi riferisce
che lungo il percorso che porta alla spiaggia non si incontra alcuna borgata o
alcun casolare. Forse la persona alla quale avevo chiesto chiarimenti in merito
aveva capito male, forse non era stato preciso il sottoscritto nel porre la
domanda o forse ancora il disguido era stato creato dalle mascherine.
Fra gli altri compitini della
mattinata rientrava la visita alla struttura in cemento armato color caffè.
Salito al piano della reception, uscito dalla porta veneziana, svoltato a
sinistra e superati i vari gradini che portano al lastrico solare mi sono
trovato di fronte ad un palcoscenico che nulla aveva a che fare con
l’anfiteatro citato dal presentatore di turno nel punto K.
Matera
Il gruppo di cui faccio parte è
già pronto per salire sul pullman che ci porterà a Matera. L’appuntamento è
fissato per le ore otto sul piazzale antistante l’ingresso alla reception.
Testimoniano della nostra
puntuale presenza diversi alberi di pepe, alcuni di pino ed altri di eucalipto.
Il verde domina dappertutto senza generare alcun contrasto con le tinte color
caffè della struttura ad arco dell’ingresso.
Si corre ora sulla superstrada
che porta in Basilicata a velocità sostenuta con l’autista che, nella
presentazione dei paesi che incontriamo, non solo fa da cicerone, con brevi
cenni di economia e di storia, ma anche da arguto espositore del curioso
comportamento tenuto a bordo del mezzo da certe persone durante le gite. La
vera guida la incontreremo a Matera in Piazza Vittorio Veneto.
Sfilano intanto sotto il nostro
campo visivo i nuovi impianti di agrumeti, di uliveti e di altre piante da
frutto alternandosi, quasi con distacchi regolari con le colture di ortaggi e
di foraggi. La presenza dei mezzi meccanici per il dissodamento e la
concimazione della terra è assicurata un po’ dappertutto. La lentezza dei loro
movimenti garantisce sempre il pieno successo operativo. La rapida lettura dei
terreni arati, ormai resi orfani del manto vegetativo che li ha interessati per
più stagioni, mette a nudo la vastità dei fondi medesimi attraverso la
curatissima recinzione dei muretti a secco. La bellezza di questi ultimi,
costituita da pietra calcarea che i pugliesi definiscono con il termine di
tufo, è data per ogni fondo dalle costanti dimensioni in altezza e larghezza e
dalla disposizione delle pietre più piccole nella elevazione del muretto e di
quelle più grandi nella fase di copertura. Visti di profilo danno l’idea della
lettera p maiuscola dell’alfabeto greco. Pi greco tanto per intenderci o
simbolo di produttoria per i cultori di scienze esatte. Presumo che la costruzione
di dette opere murarie sia sempre affidata alle mani esperte di operai
specializzati.
Ed eccoci a Matera in Piazza
Vittorio Veneto, il più bel biglietto da visita cittadino. La guida, dopo
essersi presentata e dato il suo benvenuto al gruppo di cui faccio parte, è già
pronta a condurci verso i più antichi quartieri cittadini: Sasso Caveoso, la
Civita ed il Sasso Barisano. Il secondo rione, posizionato nella parte più
elevata, funge da elemento di separazione tra i due grandi incavi che ci accingeremo
a visitare secondo l’ordine precisato.
Per il primo dovremo
accontentarci di osservarlo dall’alto di una balconata che offre la visuale al
grande insieme con possibilità di fare discrete letture ad occhio nudo. È tutto
di fronte a me, è tutto sotto di me. Ho l’impressione di trovarmi nella parte
più elevata di un grande anfiteatro dove le comparse, che fungono da nuclei
residenziali, sono distribuite in ogni spazio possibile e immaginabile. Le
abitazioni, addossate ed affiancate le une alle altre, sono tutte arroccate in
difesa delle caverne madri ma in ordine sparso. Da quando l’amministrazione
locale ha imposto il trasferimento degli abitatori in sedi più idonee alla
convivenza, ogni alloggio è diventato nel tempo una casa museo.
Il sistema delle cisterne
comunicanti tra loro dall’alto in basso ha sempre garantito nel passato e sino
ai primi decenni del Novecento gli apporti idrici necessari ai fabbisogni della
popolazione. Sotto di me, ad una distanza di una cinquantina di metri intravvedo
gli ingressi al Palombaro, il pozzo che sino al 1925 ha garantito la soluzione
del problema acqua a tutta la città. Oggi, questa opera di alta ingegneria, che
si estende su un percorso di notevole ampiezza, è molto appetibile solo dal
punto di vista museale e turistico.
La bellissima chiesa posizionata
nel punto più elevato del Sasso Caveoso, quasi all’estremo limite della Civita,
ad una distanza di circa trecento metri dal mio belvedere, è la Cattedrale.
Sotto di essa si distingue benissimo un luogo di culto interamente scavato
nella roccia.
La guida ci informa che, per
arrivare sul piazzale della chiesa principale, bisognerà inseguire un percorso
che fa capo alla Civita, il secondo rione, il quartiere più importante e
dominante nella storia del passato materano. Una volta giunti sul posto avremo
modo di rivedere dal belvedere della Cattedrale altri tratti del primo Sasso e
tra questi la balconata che ci aveva accolto all’inizio della nostra visita.
Il tutto mi turba ma non mi
incuriosisce. Finora ho osservato con molta attenzione i passaggi più salienti
della cruda realtà di un passato non troppo lontano. Sembra di aver percorso un
girone dantesco.
Penso anche alla mia Matera
sarda che sta alle stesse latitudini ma più in alto in montagna dove le
condizioni di vita non erano molto dissimili da quelle dei quartieri oggetto di
visita almeno fino al 1927, anno in cui il mio paese fu servito dall’energia
elettrica e nei decenni successivi dalle utenze a domicilio dell’acqua e dei
servizi igienici primari.
Mi trovo ora nel Sasso Barisano.
Il primo Sasso sta alle mie spalle. Il quartiere dominante, la Civita corre più
in alto. Ora si scende con tanto di raccomandazioni della guida a prestare le
dovute attenzioni nei passaggi più insidiosi del tracciato.
A rimettermi un po’ su dal
magone che mi ha attanagliato sino a poco fa, sta provvedendo la presentazione
di un quadro scenico che ruota attorno alla figura di due innamorati,
immortalati abilmente da un bravo artista con una fusione in bronzo, che
manifestano le loro tenerezze, con la consegna di un fiore da parte del ragazzo
e di un bacio mimato sulle labbra da parte della donna in sosta per una presa
d’acqua alla fontanella pubblica. Altri due giovani, a cavalcioni su di un
muretto, attendono i momenti in cui si faranno avanti con la brocca anche le
loro ragazze. Vedo che ad emozionarsi per tali esplosioni d’affetto non è
soltanto il sottoscritto. Le comitive di turisti di passaggio, guida compresa,
alla vista di tale capolavoro si fermano d’incanto, stazionano a lungo sui
personaggi e sono in molti ad accarezzarli sulla fronte e sulle spalle con
partecipazione e trasporto.
Il tempo passa in fretta ed il pullman è pronto a riportarci a Castellaneta marina dove si procederà intorno alle tredici alla consumazione del pranzo e più tardi alla solita siesta in camera. La serata si concluderà con la cena e con il ritrovo di tanti componenti dei vari gruppi presso il punto K del Calanè. La distensiva partecipazione al gioco di carte denominato Burraco e la gratificante consumazione a costo zero delle bibite offerte al bar serviranno a stemperare le tensioni accumulate sul lungo viaggio e sulle visite in terra lucana.
I Sassi del mio paese
I Sassi del mio paese, centro
arroccato sulle falde estreme del Gennargentu, sono Arasulè, Toneri e Teliseri.
La maggior parte degli abitanti di dette frazioni ha deciso nel corso di questi
ultimi cinquanta anni di abbandonare i propri casolari per emigrare altrove,
vuoi per motivi di lavoro e vuoi per seguir virtute e canoscenza.
La minoranza invece ha preferito restare in loco trasferendosi nell’altopiano
dove si ritiene che la vita sia migliore. Nessuna migrazione imposta dall’alto
ma una semplice e motivata dichiarazione di abbandono da parte dei residenti.
I guardiani dell’ultima ora
delle vecchie abitazioni sono ridotti a poche centinaia di persone. Giorni
addietro ho rivisto il mio paese dall’altopiano d’oro, accezione
quest’ultima utilizzata un secolo fa dal Lawrence durante la sua visita in
Sardegna, e ho fatto delle considerazioni che mi sono tornate utili in un
confronto con i Sassi materani.
La balconata che mi ha permesso
di visualizzare il Sasso Caveoso può equivalere al lungo belvedere che circuisce
Su Pranu, il rione cresciuto a dismisura sull’Altopiano.
Al quartiere denominato Civita,
che funge da elemento separatore tra i due grandi Sassi materani, si può,
contrapporre l’antico rione di Toneri al quale fanno capo la chiesa
parrocchiale, la lunga via Monsignor Tore ed i ruderi della ex parrocchia di
Santa Anastasia. Di fianco sono posizionati gli altri due vicinati.
In questa cartolina vista
dall’alto rivedo con sgomento la mia Matera fatta di abitazioni che
custodiscono in solitudine le suppellettili della vita quotidiana dei tempi
andati. Sono tutte case museo ormai. E fra le apparecchiature utilizzate dagli
artigiani troverai ancora banchi e morse per la fabbricazione dei campanacci,
forni in muratura per la cottura dei torroni, telai per la fabbricazione dei
tessuti mentre fra gli strumenti utilizzati in agricoltura e nella lavorazione
del legname osserverai ancora, appeso alle pareti, quanto di meglio hanno
saputo abilmente forgiare e lavorare le categorie dei fabbri e dei falegnami.
Quando nei primi anni Sessanta
illustravo questi tipi di attività a Ildebrando Imberciadori, mio professore di
storia economica, ebbi la sensazione di non essere creduto. Soltanto in seguito
ad una sua meticolosa visita a Tonara, nome del mio paese, fui gratificato dal
suo benestare.
Al pozzo Palombaro che assicurava alla città di Matera l’acqua necessaria ai suoi fabbisogni posso far riscontro con la fontana a più bocche che sta a un centinaio di metri sotto il mio punto di osservazione. Il suo nome è Morù, una sorgente che ha il potere di fare impazzire le persone che bevono le sue acque. Io ne ho sempre bevuto e quando si presenta l’occasione non ostento alcuna diffidenza. Penso che questa leggenda finirà nel tempo avvenire col fare impazzire proprio i numerosi turisti che faranno visita alla fonte. In definitiva tutti pazzi per Morù. A proposito di cavità, in ambito tonarese, ce n’è una sola. Il suo nome è Uccaedrò. E anche su questa grotta ci sono delle leggende che sconfinano nel fiabesco.
Alberobello
Oggi, mercoledì 15 settembre, si
parte per Alberobello. I tempi di percorrenza superano di poco l’ora. La geometria dei muretti a secco si ripete in
continuazione e si perde a vista d’occhio nella profondità di un territorio
votato egregiamente all’agricoltura. Le piantagioni dei vigneti, uliveti ed
agrumeti sembrano darsi il cambio ad intervalli regolari nella prima parte del
tracciato per poi cedere il passo nella seconda parte alle piante di rovere e
di leccio. Stiamo salendo verso l’Alta Murgia.
Intanto qualcuno del gruppo, fatto l’avvistamento nei pressi di una
fattoria di un primo trullo, non manca di esultare e di additare agli altri la
singolare casetta a copertura conica con l’espressione sillabica che in
dialetto sardo corrisponde a mih e che in italiano sta per guarda o
guardate. Noi sardi, senza accorgercene, ricorriamo spesso a tale
termine, anche quando ci esprimiamo in italiano. Tale vocabolo diventa più
colorito, quando lo utilizziamo per indicare a chi ci ascolta la presenza di
una persona o di un oggetto. In detti casi il nostro mih diventa nella
parlata italiana degli isolani millo (eccolo), milla (eccola), milli
(eccoli) e mille (eccole). I corrispondenti lemmi dialettali sarebbero middu,
midda, middos e middas. Nel linguaggio dialettale
barbaricino, per la parola eccolo viene utilizzato anche il termine laelloddu.
Assicuro in cuor mio che alla vista dei primi trulli ho partecipato a me
stesso in assoluto silenzio il seguente messaggio: Laelloddas is domigeddas
(eccole, le casette).
In dialetto sardo campidanese,
per richiamare l’attenzione degli altri, si ricorre al vocabolo allah (accento
tonico sulla prima a). È l’equivalente di mih. Da diversi componenti del
gruppo sento esclamare Allah un trullo, mih un altro.
Quando si arriva ad Alberobello
la guida ci informa che, per arrivare al centro storico, la strada da
percorrere a piedi supererà la lunghezza di cinquecento metri e che il mezzo di
trasporto ci aspetterà nell’area riservata ai parcheggi.
Dei 1650 trulli esistenti in
detto centro ne visiteremo solo alcuni e naturalmente quelli più interessanti
dal punto di vista storico.
Non ci vuol tanto a capire che
le costruzioni con maggiore capienza favoriscono migliori comodità e qualità di
vita. In definitiva esistono trulli grandi e trulli piccoli. Succede anche, ad
evitare di operare in ambienti molto ristretti, che qualche proprietario abbia
deciso in passato o decida nel presente di acquistare l’edificio o gli edifici
dei vicini con la risultante di un’apprezzabile ed accogliente dimora. Durante
la mia breve sosta ho visitato ambienti con una, due, tre e quattro camere. Il
principio dei trulli comunicanti consente il passaggio da una costruzione
all’altra allo stesso modo con cui si va da un vano all’altro di un
appartamento. Nella norma il primo ambiente segnala sul pavimento, attraverso
una botola, la presenza di una cisterna mentre nella volta pone in evidenza una
piccola apertura atta ad accedere al giaciglio dei più piccoli; il secondo è
adibito a camera da pranzo, il terzo a camera da letto ed il quarto a
disimpegni vari.
Prendendo ad esempio la nota
filastrocca sul calore prodotto dalla legna d’ardere che nella precisazione
nelle prime quattro strofe riferisce il seguente andante:
Una legna non
fa fuoco,
due legna ancora poco,
tre legna un focherello
quattro legna un foco bello
possiamo servirci dello stesso motivetto anche per i
trulli, ma con le seguenti puntualizzazioni:
Un trullo fa
ben poco,
due trulli ancora poco,
con tre trulli c’è del bello
quattro trulli ancor più bello.
Belle da vedere queste singolari
costruzioni. Ne avrò visitato una decina. È già tanto se penso che dentro i
nuraghi, e sono più di settemila i censiti, ci sono entrato poche volte.
Piacevole anche la visita al
trullo con la coppia di vecchi proprietari intenta a favorirci un rinfrescante
assaggio di liquori d’alto pregio.
Soddisfatte tutte le nostre
curiosità ed appagati per l’accoglienza ricevuta dalle guide e dagli addetti
alla presentazione dei prodotti locali siamo pronti a rientrare a Castellaneta
marina dove gli alberi del pepe ci aspettano per il pranzo.
Lecce
Di buon mattino si parte per il
profondo Sud. Il tempo di percorrenza ridurrà parecchio la nostra permanenza
nel capoluogo del Salento. Non verranno meno, in ogni modo, i riferimenti
storici ed economici sulla città di Lecce che la guida ci illustrerà stando a
bordo pullman. Il suo racconto, interessante ed approfondito, lascia spazio
anche alla presentazione delle città che incontriamo sul nostro percorso:
Brindisi e Taranto. Per quest’ultimo centro ne sottolinea il punto di criticità
del momento e le incognite che pesano sul futuro della sua economia. La sua
testimonianza è avvallata appieno da quanto colpisce il nostro campo visivo.
Tutt’intorno, ben distribuiti in un territorio immenso, sfilano al passaggio
del nostro mezzo altissime ciminiere, imponenti serbatoi di forma cilindrica e
capienti depositi formato hangar. In fondo alla nostra destra si defilano in
ordine sparso le numerose gru della zona portuale. Quasi all’uscita della città
vedo una ciminiera che fuma di gran lena. Provo un senso di stizza.
Ed eccoci sul piazzale
antistante alla porta d’ingresso di Lecce. Da questo punto in poi si andrà
sempre a piedi in città. Lo stile barocco ci terrà compagnia nella lettura
delle antiche costruzioni sia pubbliche che private. La presenza dei telamoni,
dei pupi alati e dei rapaci è una costante che non sfugge neanche al più modesto
intenditore di architettura. Con la testa o con le possenti spalle fanno lo
stesso servizio svolto dalle Cariatidi.
Le chicche migliori vengono
presentate tanto all’interno quanto agli esterni del Duomo e dell’Episcopio
dove la fila per avere un biglietto d’ingresso è sempre lunga.
Nella piazza si avverte in molti
il senso dell’attesa, il senso dell’attenzione, il senso dello sgomento ed il
senso dell’appagamento.
Nei pressi della scalinata del
Duomo un signore di colore tenta con le buone maniere di piazzare un manufatto
in legno lavorato con la sgorbia. È l’unico articolo in suo possesso. Deve
trattarsi di un pezzo pregiato. Vedo che con un semplice movimento della mano
l’oggetto si trasforma da comune piatto in un portavivande. È questa è un’operazione
che compie ogni qualvolta incontra dei gruppi di turisti. Spesso il
disinteresse di questi ultimi si manifesta chiaramente e pesantemente con delle
goffe veroniche all’indirizzo del rivenditore.
Sul lungo percorso che ti
riporta al pullman trovi sempre giovani studenti che ti offrono dei tarallucci.
Sono delle specialità salentine offerte in omaggio ai turisti. Chi apprezza
queste degustazioni avrà il benservito in negozio.
Il tempo passa in fretta. Penso che gli alberi del pepe siano in apprensione per il nostro rientro. Potremmo correre il rischio di saltare il pranzo. Ma ciò non accadrà.
Oggi, venerdì 17, si va a
Gravina di Grottaglie. Il tempo è sempre bello qui al Sud. Il nostro pullman macina
i soliti duecento chilometri giornalieri tra paesaggi ripetitivi che sanno
sempre di nuovi impianti d’alberi da frutto e di campagne ben recintate da
eleganti muretti a secco formato pi greco.
A Gravina di Grottaglie, così
come negli altri centri visitati, c’è sempre qualcosa di molto interessante
che, per ragioni di tempo, non riusciremo a vedere. Lo scenario proposto dalle
gravine ci verrà purtroppo a mancare. La Treccani così definisce questa
singolare conformazione terrestre: Vallone a forma di crepaccio, scavato nei
calcari, profondo fin oltre 100 metri, con pareti scoscese, distanti tra loro
fino a 200 metri.
Ci dovremo accontentare di
vedere la sedimentazione di un crepaccio all’interno del piano sotterraneo di
una abitazione privata. I costruttori durante le fasi di scavo hanno
volutamente deciso di risparmiare tale sbancamento per una bella mostra agli
appassionati e curiosi di detti movimenti carsici. Quello che noi ammiriamo dal
marciapiede, dietro un’ampia vetrata del piano sottoterra dell’abitazione è un
piccolo campione di gravina.
Prima di assecondare il desiderio delle signore del nostro gruppo di acquistare qualche oggetto in ceramica per la casa e per i conoscenti, la guida segue il tracciato più importante del centro storico dove le chiese ed i luoghi religiosi favoriscono egregiamente, con i loro stili architettonici, i più giusti approcci con i visitatori. È di un certo pregio la facciata in veste neoclassica della chiesa di San Francesco di Geronimo. Sono di ottima fattura le quattro lesene a più scanalature che, con i rispettivi capitelli ionici, sorreggono il basamento del frontone. Da raccomandare gli interni del luogo di culto dove alla sinistra sono esposti il simulacro del Santo ed il calco del suo volto. Esternamente al santuario, ben protetti da un vetro blindato, vi sono i resti penzolanti della porta d’ingresso della sua abitazione. Il missionario in oggetto, che aveva coltivato la sua vocazione principalmente a Napoli, era nato a Grottaglie nel 1642.
Ed ora terracotta in vasi, vasetti, brocche, piatti e oggetti vari per tutti, in un percorso da fare in discesa per una prima lettura e da rifare in salita per l’eventuale compera.
Castellana
Per oggi, sabato 18 settembre, è
prevista la visita alle grotte di Castellana. Sappiamo, per essere già stati
avvertiti che, per accedere alle caverne, bisognerà pazientare agli ingressi
per tutto il tempo necessario all’acquisto dei biglietti, alla verifica del
lasciapassare Anti Covid e al deflusso degli ingorghi creati dalle lunghe file.
I disagi causati dallo stare in
piedi a lungo ed in spazi ristretti interessano chicchessia ma soprattutto gli
anziani. L’attesa è comunque compensata dal clima di festa propinato da un
signore di età matura che, comodamente seduto sulla sua seggiola, omaggia i
turisti con canzoni napoletane. È un bravo intrattenitore in quanto, oltre
cantare e suonare l’organetto intervista qualcuno della cordata umana che gli
passa di fronte. Alla richiesta ad uno del gruppo sulla nostra provenienza ci
tiene a precisare, appena avuta la risposta, che siamo dei sardagnuoli. Esattamente
risponde l’intervistato. Inutile disquisire sul termine usato. Vale sempre la
buona fede.
E si continua ad andare avanti.
Per noi anziani c’è la possibilità di usare l’ascensore, mezzo che in
brevissimo tempo ci condurrà in grotta a quota meno settanta metri. La prima
caverna che incontriamo ha una conformazione a uovo con in alto una calotta di
forma circolare, con un diametro approssimativo di una decina di metri, che
scruta il cielo. Forse gli speleologi avranno fatto i primi test d’ingresso
partendo da questa fenditura a forma di oblò.
Le guide raccomandano di
prestare molta attenzione al percorso e per i più alti vale il consiglio di
inchinarsi a dovere nei passaggi a volte basse. C’è anche il pericolo di andare
a sbattere la testa contro qualche insidiosa stalattite.
Non fa freddo. A Postumia, prima
dell’ingresso in grotta, viene consegnato ad ogni visitatore un pesante cappotto
da restituire all’uscita. Anche a Torino, prima della visita al cunicolo in cui
perse la vita il minatore Pietro Micca durante l’assedio francese del 1706,
viene dato in prestito un indumento pesante. Qui, nelle grotte di Castellana
non ce n’è bisogno.
Una delle ultime cavità del
nostro breve percorso è denominata la caverna della civetta. Detto rapace,
posizionato su una stalagmite a circa tre metri dal piano base, sembra vigilare
dalla sua postazione sugli ultimi passaggi in grotta dei visitatori.
L’ascensore o meglio i due
ascensori ci riportano all’aria aperta in pochi secondi.
Due eventi di particolare
interesse naturalistico colpiscono la mia attenzione all’uscita dalle caverne:
a) lo svolazzare continuo ed incessante
di un insolito ma nutrito schieramento di api attorno ad un tappetino di terra
nera con fiorellini bianchi. È un buon segnale. Guai se questi insetti verranno
a mancare!
b)
l’esposizione
nella parete di un negozio di articoli per turisti di una tarantola
imbalsamata. È un ragno che incute paura anche da morto. Può stare, ma con
difficoltà, nello spazio compreso nell’inarcamento delle dita maggiori delle
nostre mani, pollice contro pollice e indice contro indice. Il suo morso è
micidiale. Per lenire i dolori dei malcapitati si ricorre in Puglia a dei riti
singolari che nulla hanno a che fare con la medicina. Si tratta del ballo della
taranta. Anche in Sardegna si esorcizzava il male con il ballo de s’argia,
una consuetudine andata in disuso già da una sessantina d’anni.
E si ritorna a Castellaneta
marina. La distanza che intercorre tra gli alberi del pepe rosa, fedeli vigili
di quanto succede in entrata e in uscita dal villaggio, ed il posto a tavola
non supera i cento metri. È sufficiente superare la porta veneziana, attraversare
la hall, entrare nella sala ristorante, bonificare le mani e presentarsi alle
numerose postazioni self-service.
Per le portate non devi fare
nessuna fila, al massimo di fronte a te potranno esserci una o due persone. È
un approccio con i vivandieri che avviene in parallelo e non in serie, come nei
collegamenti elettrici. Sfruttando questa possibilità puoi sbizzarrirti come
vuoi magari iniziando a servirti allo sportello dei dessert per finire con
quello degli antipasti.
Non sarai rimproverato per queste possibili bizzarrie, semmai per la dimenticanza della mascherina. Sei comunque sotto la tutela dei solerti camerieri e del loro maître.
Martina Franca, Locorotondo ed Ostuni
Salutiamo di nuovo gli alberi
del pepe rosa con un arrivederci al tardo pomeriggio per la cena. La visita ai
centri di Martina Franca, Locorotondo ed Ostuni non ci consente oggi il rientro
per l’ora di pranzo.
Martina Franca ci dà il
benvenuto dal grande portale d’ingresso della sua città, una città ricca di
storia, d’arte e di cultura. Non si fatica tanto ad arrivare al centro storico
dove una bella piazza ci accoglie con la sua chiesa, i suoi monumenti ed i
numerosi turisti che si compiacciono di fotografare di tutto e di più. I
tavolini dei bar sono tutti occupati, compresi quelli esposti nelle parti
soleggiate. Anche i componenti del nostro gruppo non esitano a farsi avanti per
collezionare immagini su immagini sui loro cellulari. Io mi soffermo con
curiosità ad osservare la meridiana solare esposta sulla facciata principale
della Torre civica. Trovo divertente fare una lettura dell’ora riportata sul
quadrante dall’ombra dello stilo e compararla con quella del mio orologio che
segna le dieci e cinquantasette. I risultati anche se approssimati sono soddisfacenti.
La latitudine riportata in alto alla meridiana è di 40 gradi, 42 primi e 18
secondi. Sassari, capoluogo di provincia più a nord della Sardegna, registra
coordinate quasi coincidenti.
Di nuovo in pullman per arrivare
a Locorotondo un paese in alto sulla collina da raggiungere a piedi dopo una
lunga e faticosa salita. Si va a mangiare al sacco nei giardinetti pubblici
dove i servizi igienici, che assicurano molto ben tenuti, latitano per il
periodo che corre dalle tredici alle quindici. Per le urgenze del caso si può
comunque ricorrere ai diversi bar esistenti nella piazzetta. La visita alle
bellezze di detto centro non sarà purtroppo possibile a causa di imprevisti
vari.
E si parte per Ostuni, ultima
tappa del nostro viaggio in Puglia, quasi una ciliegina sulla torta. Il bianco
intenso espresso dalla facciata delle case è una costante che vale per tutta la
cittadina. È un colore che si combina a menadito con le tinte del cielo e
quelle dell’azzurro mare. È da diversi secoli la città bianca per eccellenza.
Esattamente dal 1656, anno dell’epidemia che interessò tutto il nostro
Meridione. Ad Ostuni, per scongiurare il pericolo di una maggiore diffusione
della peste si decise di imbiancare con la calce le pareti di tutte le
abitazioni esistenti. Tale prodotto, data la sua azione basica, aveva, ed ha
tuttora, il compito di impedire la proliferazione dei batteri.
Al mio paese, quando i borghi
italiani erano ancora asserviti da un’economia di tipo particolaristico, la
calce viva veniva prodotta in loco e commerciata a piè di fornace. Il materiale
usato per il forno era una pietra calcarea che dopo la cottura ad altissima
temperatura favoriva la formazione della calce viva. Una volta regolato
l’acquisto, ciascuno provvedeva a trasformare con l’acqua la calce viva in
calce spenta o calce idrata ed a servirsene per l’imbiancatura della sua
abitazione o per impastare la sabbia con il cemento. Nelle fornaci di Su Toni
la calce viva non veniva venduta sfarinata ma in ciottoli. Ricordo benissimo che,
quando ero giovanissimo, provvedevo di persona a servirmi di questi Sassi
tonaresi che scivolavano dalla bilancia del rivenditore direttamente nel
mio zainetto. Si era intorno alla prima metà degli anni Cinquanta.
Ed ora si sale sui gradini e
sulle rampe che portano alla Cattedrale. Ne vale la pena portarsi sull’anonima
piazzetta che da un lato presenta la facciata della chiesa col suo immenso
rosone, dal lato opposto comunica con un sottopassaggio e ai fianchi evidenzia,
oltre alla strada che ci ha portato quassù, il Seminario e il Palazzo
Vescovile, palazzi che fungono da contrafforti al ponte sospeso sulla via
sottostante.
Le chicche più interessanti sono
quindi il rosone ed il ponte sospeso. Il primo, considerato il più grande
d’Italia, può vantare, stimando ad occhio e croce un raggio di tre metri e
mezzo, una copertura approssimativa di quaranta metri quadri. Il secondo, che,
come abbiamo già precisato, poggia i suoi fianchi sui primi piani degli edifici
religiosi, assomiglia tantissimo al Ponte dei Sospiri di Venezia. La guida
tiene a precisare che La Loggia, così viene chiamata quest’opera, è stata
costruita su ispirazione del famoso ponte veneto. Con Ostuni, tra scalinate pregevoli ma
scivolose e colori dal bianco eterno delle facciate e dall’azzurro intenso del
mare, si chiude questo interessante viaggio in terra di Puglia e Basilicata.
Ci salutano festosamente dall’ingresso del Villaggio alcuni inservienti, tra i quali è riconoscibile l’abile e piacevole conversatore dai capelli tirati all’indietro da un vistoso laccio. Singolare il mesto arrivederci degli alberi del pepe che ci salutano, a mo’ di inchino, con le loro fronde spioventi.